sabato 27 aprile 2013

Dalla Omelia 66 su Matteo di san Giovanni Crisostomo



Dalla Omelia 66 su Matteo
di san Giovanni Crisostomo arcivescovo di Costantinopoli

 

In Mt., hom. 66, 1-2. PG 57, 627-628.

 

 

Gesù era venuto spesso a Gerusalemme; mai però vi era entrato in modo così solenne. Quale ne è il motivo? All’inizio del suo ministero egli non era molto conosciuto e a quel tempo neppure era prossima l’ora della sua passione. Gesù si mescolava alla folla senza alcuna distinzione, cercando anzi di passare inosservato. Qualora si fosse manifestato troppo presto, non avrebbe riscosso ammirazione, ma l’ira degli avversari si sarebbe scatenata ben più violenta. Più tardi, invece, quando la croce è alle porte, dà prova sufficiente del suo potere, dispiega in modo più lampante la sua grandezza e compie con maggiore solennità ogni cosa, anche se ciò inasprirà la parte avversa. Ripeto che egli avrebbe potuto fare ciò sin dall’inizio della sua predicazione, ma non sarebbe stato né utile né vantaggioso.

Non considerare la menzione dell’asina poco importante. Quelli che si lasciarono portare via i loro animali, erano povera gente, forse dei contadini. Chi li persuase a non opporsi? Che dico? Neppure aprirono bocca. Insomma, perché acconsentirono oppure tacendo dettero via l’asina?

Nell’uno e nell’altro caso il comportamento di costoro è ugualmente ammirevole: sia lo starsene zitti quando vengono portate via le loro bestie; sia il non opporre resistenza dopo aver chiesto e avuto la spiegazione dagli apostoli: Il Signore ne ha bisogno. E sono tanto più ammirevoli, perché non vedevano il Signore, ma solo i suoi discepoli.

Questo episodio ci insegna che Gesù avrebbe potuto ridurre al silenzio e atterrare i Giudei che stavano per impadronirsi di lui, ma non volle farlo. Non solo, ma in quella circostanza dà anche un altro insegnamento ai discepoli: essi dovranno senza opporsi fare quanto egli chiederà loro, foss’anche la vita stessa. Se quegli sconosciuti hanno ceduto obbedienti, essi dovranno abbandonare tutto senza recriminazioni.

Allorché Gesù entra in Gerusalemme cavalcando un’asina, ci insegna l’umiltà e la moderazione. Egli non viene solo a compiere le profezie e a seminare la parola di verità, ma anche a istituire un modello di vita che si limiti al necessario e si ispiri ad un comportamento onesto.

Ecco perché, quando nasce, non cerca un magnifico palazzo, e neppure una madre ricca e illustre, ma si contenta dell’umile sposa di un carpentiere; nasce in una grotta e viene deposto in una mangiatoia. Per discepoli non sceglie né retori e dotti, né ricchi e nobili ma povera gente di modesta estrazione, del tutto sconosciuta.

Al momento del pasto, a volte si ciba di pane d’orzo, altre volte di quello che manda i discepoli a comprare in piazza, e l’erba gli serve da tavola. Si veste poveramente, come usa la gente del popolo, e non ha neppure una casa. Quando deve spostarsi da un luogo all’altro, fa i viaggi a piedi, tanto da esserne affaticato.

Gesù non ha nessun trono per sedersi né cuscino per posare il capo. Che sia sulla montagna o presso un pozzo - come quando era solo a parlare con la Samaritana - si mette semplicemente a sedere per terra.

Ci dà l’esempio della misura anche nei nostri dolori e nella nostra tristezza: quando piange, versa poche lagrime, in modo che indica i limiti da non oltrepassare e l’equilibrio, da mantenere.

Ecco un altro esempio di semplicità: prevedendo che molti, deboli fisicamente, non potranno sempre viaggiare a piedi, insegna con il suo esempio la moderazione: non è necessario andare a cavallo, non c’è bisogno di muli aggiogati, ma basta un’asina, e così non si eccede oltre il necessario.

Ma vediamo più da vicino questa profezia che si realizza in parole e in atti. Quale è dunque? Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te, mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma (Cf Zc 9, 9). Gesù non guida carri da guerra, come gli altri re; non impone tributi, non avanza sconvolgente scortato da un corpo di guardia, ma presenta d’ora in poi il modello della mitezza e della moderazione.

Dal Discorso IX sulle Palme di sant’Andrea vescovo di Creta



Dal Discorso IX sulle Palme
di sant’Andrea vescovo di Creta

PG 97, 990-994

 
 

Venite, e saliamo insieme sul monte degli Ulivi, e andiamo incontro a Cristo che oggi ritorna da Betània e si avvicina spontaneamente alla venerabile e beata passione, per compiere il mistero della nostra salvezza.

Viene di sua spontanea volontà verso Gerusalemme. È disceso dal cielo, per farci salire con sé lassù al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare (Ef 1, 21). Venne non per conquistare la gloria, non nello sfarzo e nella spettacolarità, Non contenderà, dice, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce (Mt 12, 19). Sarà mansueto e umile, ed entrerà con un vestito dimesso e in condizione di povertà.

Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a lui lungo il suo cammino rami d’olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. Accogliamo così il Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun luogo può contenere. Egli, che è la mansuetudine stessa, gode di venire a noi mansueto. Sale, per così dire, sopra il crepuscolo del nostro orgoglio, o meglio entra nell’ombra della nostra infinita bassezza, si fa nostro intimo, diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a sé.

Egli salì verso oriente sopra i cieli dei cieli (cfr. Sal 67, 34) cioè al culmine della gloria e del suo trionfo divino, come principio e anticipazione della nostra condizione futura. Tuttavia non abbandona il genere umano perché lo ama, perché vuole sublimare con sé la natura umana, innalzandola dalle bassezze della terra verso la gloria. Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio, di tutto lui stesso poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (cfr. Gal 3, 27) e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese.

Per il peccato eravamo prima rossi come scarlatto, poi in virtù del lavacro battesimale della salvezza, siamo arrivati al candore della lana per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele.

Diciamo anche a noi a Cristo, diciamogli: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Re d’Israele. Protendiamo verso di lui, a guisa di rami di palma, le ultime parole sulla croce. Seguiamolo in letizia non con i ramoscelli di ulivo, ma con la gioia fraterna che deriva dalla carità prestata a chi ne ha bisogno.

Stendiamo al suo passaggio a mo’ di mantelli i desideri del nostro cuore, perché volgendo i suoi passi verso la nostra dimora, diventi tutto nostro e gradisca l’offerta totale di noi e con noi rimanga. Ripetiamo a Sion quel messaggio profetico: Abbi fiducia, figlia di Sion, non temere: Ecco, a te viene il tuo re, umile, cavalca su un’asina (Zc 9, 9).

Viene colui che è presente in ogni luogo e riempie ogni realtà; viene, dico, per compiere in te la salvezza di tutti. Viene colui il quale non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi (cf Lc 5, 32), per richiamarli dalla vie del peccato. Non temere. Vi è Dio in mezzo a te: non potrai vacillare (cf Sal 45, 6) accogli con le braccia aperte lui che nelle sue mani ha segnato la linea delle tue mura. Accogli lui che con le sue mani ha fondato le tue stesse fondamenta. Accogli colui che in sé accolse tutto ciò che è proprio della natura umana, fuorché il peccato. Rallegrati, o città-madre, Sion; non temere. Celebra la tua festa (Na 2, 1). Glorifica per la sua misericordia colui che in te viene a noi.

Ma anche tu, figlia di Gerusalemme, gioisci vivamente. Sciogli il tuo canto, muovi il passo alla danza. Con le parole di Isaia, quel sacro vate, esclamiamo: Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria dei Signore brilla sopra di te (Is 60, 1).

Ma quale luce? Quella che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) che viene nel mondo. Voglio dire la luce eterna, la luce senza tempo e donata nel tempo: la luce che si è manifestata nella carne mentre per natura è occulta; la luce che avvolse i pastori e ai Magi fu guida nel cammino; la luce che era nel mondo fin dal principio e per la quale è stato fatto il mondo; e tuttavia il mondo non la conobbe; la luce che venne in casa sua, ma i suoi non l’hanno accolta.

La gloria del Signore accogli: quale gloria? Senza dubbio, la croce sulla quale Cristo è stato glorificato; lui, dico, che è lo splendore della gloria paterna come egli stesso ebbe ad asserire nell’imminenza della sua Passione: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui e lo glorificherà subito (Gv 13, 31-32). Il Signore chiama qui gloria il suo innalzamento sulla croce. La croce di Cristo, infatti, è gloria, ed è la sua esaltazione. Ecco perché egli dice: Io, quando sarò elevato, attirerò tutti a me (Gv 12, 32).

Dai Discorsi di san Proclo In ramos Palmarum


 


Dal Discorso IX, Per la domenica dei rami
di san Proclo arcivescovo di Costantinopoli

 

Oratio IX, In ramos Palmarum, 1-3.4. PG 65, 772-777

 

Cari fratelli, il tempo liturgico che stiamo vivendo chiede un impegno maggiore da noi: ci vuole più ferventi, più disponibili, più solleciti nel recarci all’incontro con il re venuto dal cielo. Questo stesso gioioso messaggio annunziava san paolo quando diceva: Il Signore è vicino, non angustiatevi per nulla.

Accogliamo il nostro Dio con acclamazioni degne di lui. Gridiamo con la folla: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Colui che viene: l’espressione è giusta, perché il Signore non smette di venire, pur senza mai essere assente. Il Signore è vicino a quanti lo invocano. Perciò, benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!

Tutto quello che accade in questo giorno ha valore di simbolo. Tutte queste manifestazioni indicano in figura che avanza un re. Gli abitanti delle città di questo mondo, quando aspettano l’arrivo del loro governatore, spianano la strada, sospendono corone ai portici; l’aspetto della città cambia, il palazzo reale è ripulito da cima a fondo. In vari punti si organizzano cori che cantino le lodi del re. Da questi segni si riconosce che in un dato paese si avvicina un grande della terra.

Applichiamoci anche noi a un lavoro analogo, anzi a un’impresa ben più gloriosa: le celebrazioni della nostra città spirituale devono essere all’altezza della trascendenza del suo re celeste.

Il re umile e mansueto è alle porte. Nei cieli egli cavalca sui cherubini, quaggiù è seduto su un puledro di asina. Prepariamo la dimora della nostra anima. Togliamo le ragnatele, cioè ogni rancore contro i fratelli. Non si trovi in noi la polvere delle critiche, ma laviamo abbondantemente tutto con l’acqua dell’amore. Livelliamo le gobbe dell’inimicizia, inghirlandiamo i portici delle nostre labbra con i fiori della bontà. Uniamoci alle acclamazioni della folla: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!

Chi vorrebbe tacere? Chi non ammirerà questa folla, avversa ai Giudei e amica dei discepoli di Cristo? Acclamano il Signore come re, lui che non porta nessuna visibile insegna di una dignità regale: non cocchio laminato d’oro, non bianchi cavalli bardati; nessuna traccia della pompa che i re di questo mondo sogliono sfoggiare nei loro cortei. Qui non ci sono né armi né scudi né alabarde; neppure mantelli di porpora né prestigiosi scudieri dalle chiome fluenti; tanto meno sfilano dignitari o parate di elefanti.

La folla non contempla nulla di ciò, anzi vede proprio il contrario: un volgare, meschino puledro, senza sella, preso a prestito per l’occasione. Tutto il corteo si riduce agli undici apostoli, perché Giuda già ordisce il tradimento.

Le folle vedono questa grande povertà di Gesù, eppure sono come rapite in cielo e con gli occhi dello spirito contemplano le realtà dell’alto. Si uniscono ai cori angelici e si valgono delle voci dei serafini per acclamare come loro: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele!

È aspro e pungente per i sacerdoti e i farisei udire le folle che acclamano un re di Israele. Eppure, volenti o no, sono costretti a udirlo. Avevano tacciato Gesù di possedere un demonio, ed ecco la folla proclamarlo re. Chi le ha suggerito quel titolo? Chi le ha messo in mente tale lode? Chi ha posto rami di palma nelle loro mani? Chi improvvisamente ha radunato tutta questa gente, guidandola come sotto un unico capo? Chi ha insegnato questo canto unanime?

È una grazia discesa dall’alto, una rivelazione dello Spirito Santo. Ecco perché gridano con libera franchezza: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele.

La folla forma il corteo terreno del Signore, gli angeli quello celeste. I mortali sono simili agli immortali, i pellegrini della terra già partecipano ai cori celesti.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele. Essi rifuggono i farisei, hanno in orrore i sommi sacerdoti.
 
Cantando una melodia degna dell’Altissimo, rallegrano la creazione, santificano l’aria. I morti trasaliscono, il cielo si apre, rifiorisce il paradiso, gli altri mortali sono stimolati a emulare un simile fervore.

Prendiamo anche noi rami di palma e usciamo incontro al Signore. Diciamo ai prìncipi dei sacerdoti: Non siete voi quelli che domandano se questi è il figlio del carpentiere? Egli è il Dio forte e potente. Correte, affrettatevi; unitevi alla folla e cantate in onore di colui che ha risuscitato Lazzaro: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!

A lui la gloria nei secoli. Amen.

 

venerdì 26 aprile 2013

Domenica delle Palme di Roberto Pagani

 
 

Domenica delle Palme

di Roberto Pagani

 

Contrariamente a quanto si può supporre, la celebrazione della domenica delle Palme all’inizio della settimana santa non ha una origine gerosolimitana, dove veniva celebrata durante l’ottava dell’epifania, ma nasce in ambiente costantinopolitano. Sono almeno due gli elementi che depongono a favore di questa tesi, sostenuta dai più insigni storici della liturgia: un sermone di san Giovanni Crisostomo e la lettura evangelica giovannea che mette in sequenza l’episodio della risurrezione di Lazzaro, l’ingresso di Gesù in Gerusalemme e la Pasqua. Già dalle Costituzioni Apostoliche sappiamo che il sabato e la domenica precedenti la Settimana Santa erano di carattere festivo e giungevano al termine del cammino quaresimale, di cui comunque non facevano parte. Sono tanti gli elementi che nella tradizione bizantina sono rimasti ancor oggi a testimoniare questa visione. Il sabato di Lazzaro e la domenica delle Palme hanno un comune tropario di congedo, che unisce i due eventi alla luce della Passione e, soprattutto, della Risurrezione: “Per confermare prima della tua passione, la fede nella comune risurrezione, dai morti hai risuscitato Lazzaro, o Cristo nostro Dio. Per questo, come un tempo fecero i fanciulli portando i simboli della vittoria, noi ti cantiamo come il vincitore della morte: Osanna, nell’alto dei cieli, benedetto colui che viene nel nome del Signore!”. Dobbiamo inoltre tenere presente che, come tutte le grandi feste dell’anno liturgico bizantino che riguardano Gesù, l’ufficiatura della domenica delle Palme non si aggiunge agli uffici di risurrezione propri di ogni domenica, ma li sostituisce integralmente. Inoltre non segue nemmeno il ritmo degli otto toni: da questo punto di vista può essere considerata come una domenica di discontinuità, dato che è l’unica interruzione del ciclo che inizia con la Pasqua, prosegue con la Pentecoste, e si svolge regolarmente durante tutto l’anno con la sequenza ordinata degli otto toni musicali su cui vengono cantate tutte le parte variabili.

Questa caratteristica offre la possibilità di percorrere l’ufficiatura dal vespero del sabato a quello della domenica, evidenziandone le numerose particolarità. Gesù entra in Gerusalemme per manifestare ancora una volta, prima della sua passione e per chi vuole vedere e ascoltare, che in lui si compiono le profezie. Le citazioni bibliche presenti nell’ufficiatura sono numerosissime: partendo da Mosè, Davide, Isaia, Sofonia, Zaccaria, Osea e altri ancora, il Messia e il Servo di Dio, Il Signore dell’universo e l’Agnello dal cui sangue verrà asperso il popolo della nuova alleanza si manifestano in un uomo preciso, che nell’oggi liturgico del memoriale entra a Gerusalemme seduto su un asino come sul trono dei cherubini.

La prima strofa che si canta al Lucernario dei Vesperi, traccia la prospettiva del giorno: “Oggi la grazia dello Spirito Santo ci ha riuniti, e portando tutti la tua croce diciamo: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, osanna nel più alto dei cieli”. Commentando proprio questo testo Constantin Andronikof, un teologo russo della diaspora vissuto in Francia nel secolo scorso (è morto nel 1997), ha affermato: “Questa anticipazione della Pentecoste, connessa con l’ingresso trionfale e con la crocifissione, ci fa pensare che, secondo l’ordine delle energie trinitarie, se il Cristo compie la legge e i profeti, lo Spirito Santo compie il vangelo. È lui che raduna in uno stesso spirito i membri della Chiesa perché ne abbiano l’intelligenza; è lui che fa di essi il Corpo di Cristo. Sarà questo il compimento del mistero pasquale, nella Pentecoste”. L’apparenza di Gesù lascia sconcertati, così che l’innografo, citando Isaia, ci fa cantare: “Colui che ha per trono i cieli e per sgabello la terra, il Verbo di Dio Padre, il Figlio a lui coeterno, viene oggi a Betania modestamente seduto su un puledro senza ragione”. Nel contesto veterotestamentario, l’asino era anche utilizzato per umili lavori, ma era anche, in tempo di pace, la cavalcatura di principi e re, Davide e Salomone, così come nel libro dei Numeri diviene uno strumento di cui il Signore si serve nei confronti del profeta Balaam. La terza strofa cantata al Lucernario cita il passo del profeta Zaccaria che verrà letto successivamente: “Anche noi oggi, tutto il nuovo Israele, la Chiesa delle genti, esclamiamo con il profeta Zaccaria: Gioisci grandemente, figlia di Sion, da’ l’annuncio, figlia di Gerusalemme: ecco, il tuo re viene a te, mite e per salvare, montato su un puledro d’asina, figlio di bestia da soma”. La successiva strofa riunisce la risurrezione di Lazzaro con l’ingresso in Gerusalemme, e nella sua seconda parte cita una passo di Baruc così come un versetto del salmo 8: “Prefigurando per noi la tua augusta risurrezione, col tuo comando hai risuscitato un morto, il tuo amico Lazzaro, oramai senza respiro, traendolo dal sepolcro già maleodorante, dopo quattro giorni, o buono; così pure sei salito su un puledro come su un cocchio, per dare un segno alle genti, o Salvatore; e così il diletto Israele ti offre una lode, dalla bocca di lattanti e di bimbi innocenti che ti vedono entrare, o Cristo, nella città santa, sei giorni prima della pasqua”. I sei giorni prima della pasqua sono elemento tipico della lettura giovannea, che pone la morte del Signore la vigilia della pasqua di quell’anno, a differenza dei sinottici per i quali la morte di Gesù avviene proprio nel giorno di pasqua. Con audacia ermeneutica, l’ultima strofa del Lucernario integra la lettura dell’ingresso in Gerusalemme di Giovanni (il brano evangelico che si legge nella Divina Liturgia) con quella di Marco (il brano evangelico che si legge nel Mattutino al posto di quello risurrezionale): “Sei giorni prima della pasqua Gesù venne a Betania, e gli si avvicinarono i suoi discepoli per dirgli: “Signore, dove vuoi che ti prepariamo per mangiare la pasqua? Ed egli li mandò: Andate nel villaggio di fronte e troverete un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo, e dite al padrone di casa: il Maestro dice: da te farò la pasqua insieme ai miei discepoli”.
 

 
 

È così che l’ingresso in Gerusalemme di Gesù, che per chi lo sa vedere e accogliere ha un carattere trionfale mentre per chi ha il cuore indurito è scandaloso e addirittura ridicolo, oltre all’intronizzazione del Re simboleggia la preparazione dell’Agnello per l’immolazione, come si evince da due delle tre letture che si leggono al Vespero. Nella prima (Gn 49, 1-2; 8-12) Giacobbe raduna attorno a sé i suoi figli e dice loro: “…Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello e a scelta vite il figlio della sua asina, lava nel vino la veste e nel sangue dell’uva il manto; lucidi ha gli occhi per il vino e bianchi i denti per il latte….”. La seconda lettura (So. 3, 14-20) è un canto di gioia per il ritorno degli esiliati, per la consolazione del piccolo resto di Israele, un annuncio della imminente vittoria sul male, la celebrazione del Salvatore: “Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non vedrai più la sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente. Esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa». … La terza lettura (Zc 9, 9-15) è una profezia messianica: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra. Quanto a te, per il sangue dell’alleanza con te, estrarrò i tuoi prigionieri dal pozzo senz’acqua...”. Durante la processione rogazionale, mentre i celebranti e i fedeli si portano nel luogo convenuto, si cantano alcune strofe, nella prima delle quali “lo Spirito Santo, come insegnò agli apostoli a parlare lingue sconosciute, così ispira i fanciulli a cantare: Osanna nel più alto dei cieli, benedetto colui che viene come Re di Israele!”. Una strofa successiva considera l’incomprensibilità dell’economia divina: “Il Figlio e Verbo di Dio, colui che condivide l’eternità col Padre, oggi viene seduto su un asino senza ragione nella città di Gerusalemme; colui che i Cherubini non osano guardare, è celebrato da fanciulli con rami di palma”. In una duplice antinomia, Dio si fa incontro all’uomo, non esita a cavalcare una bestia senza ragione, simbolo della razionalità che vince l’irrazionale idolatria delle nazioni pagane, e colui che suscita rispetto e timore nelle schiere angeliche si lascia festeggiare dai bambini, che nella società del tempo erano davvero i meno considerati. D’altra parte le palme prefigurano la vittoria della risurrezione, mentre “il Signore entra nella città santa, affrettandosi a camminare verso la sua passione, per compiere la Legge e i Profeti”. Ora la divina economia si rivela in tutta la sua cruda realtà, e il fine è la nostra salvezza: “Gloria a te, o Cristo, che siedi nel più alto dei cieli e ora sei atteso con la tua venerabile Croce; la figlia di Sion si rallegra, i popoli della terra esultano di gioia, i fanciulli impugnano rami di palme, i discepoli stendono i loro mantelli, e tutto l’universo impara a cantare: Benedetto sei tu, o Salvatore, abbi pietà di noi”. Nelle strofe che si cantano alla conclusione del Vespero si riprende la profezia di Zaccaria: “Gioisci e rallegrati, città di Sion, tripudia ed esulta, chiesa di Dio”, ma anche quella di Isaia: “tu che cavalchi i cherubini e sei celebrato dai serafini, sei montato su un asinello alla maniera di Davide, o buono” e si ribadisce che “sedendo su un asinello, prefiguravi il passaggio delle genti indomabili dall’incredulità alla fede”. Oggi c’è un secondo tropario, in aggiunta a quello già riportato in precedenza, che conclude l’ufficio del Vespero, e che unisce il tema della risurrezione a quello battesimale (durante la divina liturgia celebrata il sabato, commemorando la risurrezione di Lazzaro, sono stati celebrati anche i battesimi): “consepolti con te per il battesimo, o Cristo Dio nostro, per la tua risurrezione siamo stati resi degni della vita immortale”.

 
 
Ragazzi copti nella Domenica delle palme


 
Al Mattutino, dopo la prima lettura del Salterio, una strofa ricollega la festa oggi celebrata al cammino di preparazione quaresimale e al compimento di tutto: “Con rami di palme spirituali, con l’anima purificata, come i fanciulli esaltiamo con fede Cristo, acclamando a gran voce il Sovrano: Benedetto tu, che sei venuto nel mondo per salvare Adamo dall’antica maledizione, divenendo il nuovo Adamo spirituale, o amico degli uomini, secondo il tuo beneplacito. O Verbo che tutto disponi per il bene, gloria a te!”. Dopo il canto del Polyeleos (Salmi 134 e 135), l’icona della festa, posta al centro della chiesa, viene incensata e venerata attraverso una danza rituale dei celebranti che, sincronicamente, girano intorno all’icona spostandosi su ciascuno dei lati, mentre il coro canta il Megalinario: “Noi ti magnifichiamo, o Cristo che doni la vita, e ti cantiamo: Osanna nel più alto dei cieli, benedetto colui che viene nel nome del Signore”, intercalato da un florilegio di versetti salmici che, per il loro contenuto, sono legati alla festa. Il tropario che segue sembra quasi esprima l’impazienza di giungere al compimento: “Affrèttati, Figlio di Davide, a salvare coloro che hai plasmato, o Gesù benedetto! Per questo infatti sei venuto, affinché conoscessimo la tua gloria”.

Al posto del vangelo risurrezionale (che si legge dall’altare), oggi si legge dal centro della chiesa, davanti all’icona della festa, la versione di Matteo (Mt 21, 1-17) dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme:

 

Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: “Andate nel villaggio che vi sta di fronte: subito troverete un’asina legata e con essa un puledro. Scioglieteli e conduceteli a me. Se qualcuno poi vi dirà qualche cosa, risponderete: Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà subito”. Ora questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta: Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma. I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via. La folla che andava innanzi e quella che veniva dietro, gridava: Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli! Entrato Gesù in Gerusalemme, tutta la città fu in agitazione e la gente si chiedeva: “Chi è costui?”. E la folla rispondeva: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea”. Gesù entrò poi nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e disse loro: “La Scrittura dice: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri”. Gli si avvicinarono ciechi e storpi nel tempio ed egli li guarì. Ma i sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio: “Osanna al figlio di Davide”, si sdegnarono e gli dissero: “Non senti quello che dicono?”. Gesù rispose loro: “Sì, non avete mai letto: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurata una lode?”. E, lasciatili, uscì fuori dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte”.

 



 
Dopo la proclamazione del brano evangelico, il celebrante recita la preghiera per la benedizione delle palme da distribuire. L’eucologio Barberini gr. 336, il più antico testimone delle preghiere della liturgia bizantina risalente all’VIII secolo, contiene due varianti di questa preghiera, la prima delle quali è grossomodo quella rimasta nell’uso comune: “Signore nostro Dio, assiso sui cherubini, che hai risvegliato la tua potenza e hai mandato il tuo unigenito Figlio e nostro Signore Gesù Cristo per salvare il mondo per mezzo della croce, della sepoltura e della risurrezione; venuto egli a Gerusalemme per la volontaria passione, il popolo che abitava nelle tenebre e nell’ombra di morte, prendendo rami di alberi di palme, simboli di risurrezione, annunciava la risurrezione. Tu stesso, Signore, proteggi anche noi che imitandoli, in questo giorno che inaugura le festività pasquali, rechiamo nelle mani palme e rami di alberi, e, allo stesso modo di quella folla e di quei bambini, a te offriamo l’Osanna, così che con salmi, inni e cantici spirituali, siamo fatti degni della vivificante risurrezione il terzo giorno”. Interessante anche la variante di questa preghiera, forse meno sviluppata teologicamente ma con un maggior numero di riferimenti biblici: “ Signore nostro Dio, onnipotente, al tempo del giusto Noè tu hai reso l’arca simbolo della Chiesa, e nella colomba che recava un ramoscello di ulivo hai prefigurato la venuta dello Spirito Santo. I bambini ebrei hanno dato compimento a questo passo, e ti vennero incontro con rami di ulivo e di palma, gridando e dicendo: “Osanna nell’alto dei cieli, benedetto colui che viene nel Nome del Signore, osanna nell’alto dei cieli! Anche noi, tuoi servi, gridiamo ed esclamiamo: Osanna! Benedetto colui che viene e che di nuovo verrà a giudicare con giustizia, con il Padre e lo Spirito Santo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli”. A questo punto, come ogni domenica, i fedeli si recano al centro della chiesa per la venerazione dell’Evangeliario, dove ricevono, al posto dell’unzione, un ramo di ulivo. Inizia quindi il canto del canone, opera di san Cosma vescovo di Maiuma, città della Palestina, vissuto nella prima metà dell’VIII secolo. Il testo, estremamente sintetico dal momento che ogni ode ha solo dai tre ai quattro tropari, è quasi interamente costituito da citazioni scritturistiche: sarebbe bello elencarle, ma il loro numero renderebbe davvero improbo qualsiasi tentativo di lettura, dato che sono circa 100 in soli 28 tropari! Ci limiteremo quindi ad evidenziare solo alcuni temi per poter assaporare la grande qualità della composizione. “Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai fatto salire la lode dei tuoi servi, che ti sei composta per abbattere l’avversario e riscattare, con la passione della Croce la caduta dell’antico Adamo, e far risorgere, mediante un albero, Adamo che ti canta l’inno di vittoria, o Signore”. “La chiesa dei tuoi santi ti offre una lode, o Cristo che abiti in Sion; in te, suo Creatore, si rallegra Israele, e i monti, figura delle genti dal cuore di pietra, al tuo cospetto hanno esultato”. “Il popolo di Israele bevve alla dura roccia da cui sgorgava l’acqua per un tuo comando: ma la roccia sei tu, o Cristo, e la vita, e su questa pietra è stata consolidata la Chiesa”. “Il re dei secoli, il Signore, verrà rivestito di potenza: in Sion è l’incomparabile bellezza del suo splendore e della sua gloria”. Il Signore è qui, colui che ha misurato cielo e terra col palmo della mano: egli infatti ha eletto Sion per abitare in essa, e ha scelto si regnare sul popolo che acclama con fede: Gloria, Signore, alla tua potenza”. “Sali sul monte, tu che rechi la buona novella a Sion, e tu che dai l’annuncio a Gerusalemme, alza con forza la voce: cose gloriose sono state dette di te, città di Dio. Pace su Israele e salvezza alle genti”. “Sion, monte santo di Dio, leva intorno gli occhi e guarda, o Gerusalemme, e vedi i figli radunati in te: ecco, sono venuti da lontano per adorare il tuo re”. “Gli spiriti dei giusti gridarono di gioia: ora si conclude col mondo una nuova alleanza, il popolo si rinnova con l’aspersione del sangue divino”. “Cavalcando un giovane asinello, giunge a te il tuo re, o Sion, il Cristo. È venuto ad annientare l’irrazionale seduzione degli idoli, e a domare l’indomabile impeto di tutte le genti”. “Cristo giunge mite e per salvare, seduto su un asinello, il giusto Redentore nostro, per abbattere la tracotanza equina del nemico”. “L’iniquo sinedrio degli increduli è escluso dalla cinta divina, perché ha fatto della casa di preghiera di Dio una spelonca di ladri, cacciando dal loro cuore il Redentore”. “Egli è Dio, nessuno è pari a lui. Egli ha scrutato ogni via giusta e l’ha data a Israele, suo diletto; poi ha vissuto con gli uomini e si è fatto vedere”. “Perché, o ribelli, ponete inciampi sulla via? Sono veloci i vostri piedi per versare il sangue del Sovrano! E tuttavia egli risorgerà, per salvare quanti acclamano: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, nostro Salvatore”.

L’ipakoi, che si canta dopo la terza ode, guarda con timore al peccato all’ingratitudine dell’uomo: “Prima lo acclamano con le palme, poi lo catturano con i bastoni”, ma prosegue con fiducia: “ma con fede immutabile gridiamo incessantemente: Benedetto sei tu che vieni per richiamare Adamo dall’esilio”.

L’ikos che segue il kontakion rilegge l’episodio della strage degli innocenti in chiave pasquale: “I bambini ti esaltavano con palme, o Cristo, come vincitore perché hai legato l’ade, o immortale, ucciso la morte e risuscitato il mondo. Essi dicono: I bimbi non saranno più sgozzati per il bimbo di Maria, perché per tutti, bimbi e vecchi, tu solo sarai crocifisso. La spada non si volgerà più contro di noi, perché il tuo fianco sarà trafitto dalla lancia”. Il sinassario si conclude dicendo: “nella tua ineffabile misericordia, o Cristo Dio nostro, rendici vincitori delle passioni irrazionali, e facci degni di vedere la tua splendida vittoria contro la morte, la tua luminosa e vivificante risurrezione”.

  
 
Bergamo, Accademia Carrara, il Cristo Sposo della Chiesa
 

In una strofa delle Lodi si sottolinea il tema dello Sposo (sarà quello dominante nei primi giorni della Settimana Santa): “Uscite, genti, uscite, popoli, contemplate oggi il Re dei cieli che si avvicina a Gerusalemme su un povero asinello come su un trono eccelso. Generazione adultera e incredula dei giudei, vieni e contempla colui che vide Isaia, venuto per noi nella carne. Vedi come egli sposa la nuova Sion quale sposa casta, e respinge la sinagoga riprovata. Come a nozze senza macchia né corruzione, accorrono acclamanti i fanciulli senza macchia e ignari del male: con loro anche noi acclamiamo, cantando l’inno angelico: Osanna nel più alto dei cieli, a colui che possiede la grande misericordia”.

La pericope evangelica cantata durante la Divina Liturgia è Gv 12, 1 -18:

 

Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”. Intanto la gran folla di Giudei venne a sapere che Gesù si trovava là, e accorse non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. I sommi sacerdoti allora deliberarono di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù. Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina. Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto. Intanto la gente che era stata con lui quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro e lo risuscitò dai morti, gli rendeva testimonianza. Anche per questo la folla gli andò incontro, perché aveva udito che aveva compiuto quel segno”.

 

 

La domenica sera, durante il Vespero, viene ripreso il tema del Cristo Sposo, citando il profeta Osea: “Sinagoga malvagia e adultera che non hai serbato fedeltà al tuo sposo, perché tieni un testamento di cui non sei l’erede? Perché ti vanti nel Padre, tu che hai disonorato il Figlio? Non hai accettato i profeti che hanno annunciato il Figlio; ma allora vergognati, sentendo i tuoi figli acclamare: Osanna al figlio di Davide, benedetto colui che viene nel nome del Signore”.

Ora siamo proprio sulla soglia: la settimana santa sta per iniziare, siamo portati a contemplare la manifestazione più profonda dell’amore folle di Dio: “Dalle palme e dai rami, quasi passando da una festa divina all’altra, corriamo, o fedeli, alla venerabile solennità salvifica dei patimenti del Signore: contempliamolo mentre volontariamente si assoggetta per noi alla passione e dà la sua vita in riscatto di tutto l’universo. Cantiamogli grati un inno melodioso, acclamando: O fonte di misericordia e porto di salvezza, Signore, gloria a te!”.

Dal Sermone 27 La risurrezione di Lazzaro di san Cromazio

 

Dal Sermone 27 La risurrezione di Lazzaro
di san Cromazio vescovo di Aquileia
Sermo 27, 1-4

 

Il Signore e Salvatore nostro Cristo Gesù ha certo manifestato la potenza della sua divinità con numerosi segni e con miracoli di ogni specie, ma particolarmente alla morte di Lazzaro, come avete appena udito, carissimi, nella presente lettura, mostrando di essere colui del quale era stato scritto: “Il Signore della potenza è con noi, nostra rocca è il Dio di Giacobbe” (Sal 45, 8). Questi miracoli, il Signore e Salvatore nostro li ha operati sotto due aspetti: materiale e spirituale, cioè producendo un effetto visibile e un altro invisibile, manifestando per mezzo dell’effetto visibile la sua invisibile potenza. Prima, con un’opera visibile, rese al cieco nato la vista della luce (cf. Gv 9, 1-38) per illuminare con la luce della sua conoscenza, per mezzo della sua invisibile potenza, la cecità dei Giudei. Nella presente lettura, egli rese la vita a Lazzaro che era morto (cf. Gv 11, 1-44), al fine di risuscitare dalla morte del peccato alla vita i cuori increduli dei Giudei. Di fatto molti Giudei credettero a Cristo Signore a causa di Lazzaro: riconobbero nella sua risurrezione una manifestazione della potenza del Figlio di Dio, poiché comandare alla morte in forza della propria potenza non rientra fra le capacità della condizione umana, ma è proprio della natura divina. Leggiamo invero che anche gli apostoli hanno risuscitato dei morti, ma essi hanno implorato il Signore perché li risuscitasse (cf. At 9, 40; 20, 9-12); essi li hanno sì risuscitati, non però con le loro forze, o per virtù propria, ma dopo aver invocato il nome di Cristo che comanda alla morte e alla vita: il Figlio di Dio invece ha risuscitato Lazzaro per virtù propria. Infatti appena il Signore disse: “Lazzaro, vieni fuori” (Gv 11, 43), quegli uscì subito dal sepolcro: la morte non poteva trattenere colui che veniva chiamato dalla Vita. Il fetore della tomba era ancora nelle narici dei presenti allorché Lazzaro era già in piedi e vivo. La morte non attese di sentirsi ripetere il comando dalla voce del Salvatore, perché essa non era in grado di resistere alla potenza della Vita; e pertanto a una sola parola del Signore la morte fece uscire dal sepolcro il corpo di Lazzaro e la sua anima dagli inferi, così tutto Lazzaro uscì vivo dal sepolcro, dove non era completo ma solo col suo corpo. Ci si risveglia più lentamente dal sonno che non Lazzaro dalla morte. Il fetore del cadavere era ancora nelle narici dei Giudei che già Lazzaro stava in piedi e vivo. Ma consideriamo ora l’inizio della stessa lettura.

Il Signore disse dunque ai suoi discepoli, come avete udito carissimi, nella presente lettura: “Lazzaro, l’amico nostro, dorme ma io vado a risvegliarlo” (Gv 11, 11). Il Signore disse bene. “Lazzaro, l’amico nostro, dorme”, perché in realtà egli stava per risuscitarlo da morte come da un sonno. Ma i discepoli, ignorando il significato delle parole del Signore, gli dicono: “Signore, se dorme, guarirà” (Gv 11, 12). Allora in risposta “disse loro chiaro: Lazzaro è morto, ma sono contento per voi di non essere stato là affinché crediate” (Gv 11, 14-15). Se il Signore qui afferma di rallegrarsi per la morte di Lazzaro in vista dei suoi discepoli, come si spiega che in seguito pianse sulla morte di Lazzaro? (cf. Gv 11, 35). Occorre, al riguardo, badare al motivo della sua contentezza e delle sue lacrime. Il Signore si rallegrava per i discepoli, piangeva per i Giudei.

Si rallegrava per i discepoli, perché con la risurrezione di Lazzaro egli sapeva di confermare la loro fede nel Cristo; ma piangeva per l’incredulità dei Giudei, perché neppure di fronte a Lazzaro risorto avrebbero creduto a Cristo Signore. O forse il Signore pianse per cancellare con le sue lacrime i peccati del mondo. Se le lacrime versate da Pietro poterono lavare i suoi peccati, perché non credere che i peccati del mondo siano stati cancellati dalle lacrime del Signore? In effetti, dopo il pianto del Signore, molti fra il popolo dei Giudei credettero. La tenerezza della bontà del Signore vinse in parte l’incredulità dei Giudei e le lacrime da lui teneramente versate addolcirono i loro cuori ostili. E forse per questo la presente lettura ci riferisce l’uno e l’altro sentimento del Signore, cioè la sua gioia e il suo pianto, perché “chi semina nelle lacrime”, com’è scritto, “mieterà nella gioia” (Sal 125, 5). Le lacrime del Signore sono dunque la gioia del mondo: infatti per questo egli versò lacrime, perché noi meritassimo la gioia. Ma ritorniamo al tema. Disse dunque ai suoi discepoli: “Lazzaro, l’amico nostro, è morto; ma io sono contento per voi di non essere stato là, affinché crediate”. Rileviamo anche qui un mistero: come il Signore può dire di non essere stato là [dove Lazzaro era morto]? Infatti quando dice chiaramente: “Lazzaro è morto” dimostra all’evidenza di essere stato lì presente.

Né il Signore avrebbe potuto parlare così, dal momento che nessuno l’aveva informato, se non fosse stato lì presente. Come il Signore poteva non essere presente nel luogo dove Lazzaro era morto, lui che abbraccia con la sua divina maestà ogni regione del mondo? Ma anche qui il Signore e Salvatore nostro manifesta il mistero della sua umanità e della sua divinità. Egli non si trovava lì con la sua umanità, ma era lì con la sua divinità, perché Dio è in ogni luogo.

Quando il Signore giunse da Maria e da Marta, sorelle di Lazzaro, alla vista della folla dei Giudei, chiese: “Dove l’avete messo?” (Gv 11, 34). Forse che il Signore poteva ignorare dove era stato posto Lazzaro, lui che, sebbene assente, aveva preannunciato la morte di Lazzaro e che con la maestà del suo essere divino è presente dappertutto? Ma il Signore, così facendo, si attenne a un’antica sua consuetudine. Infatti, allo stesso modo chiese ad Adamo: “Adamo, dove sei?” (Gen 3, 9). Egli interrogò Adamo non perché ignorava dove si trovasse, ma perché Adamo confessasse il suo peccato con le proprie labbra e potesse così meritarne il perdono.

Interrogò anche Caino: “Dov’è tuo fratello Abele?” ed egli rispose: “Non so” (Gen 4, 9). Dio non interrogò Caino quasi che non sapesse dove si trovava Abele, ma per potergli imputare, sulla base della sua risposta negativa il delitto commesso contro il fratello. Di fatto Adamo ebbe il perdono perché confessò il peccato commesso al Signore che lo interrogava; Caino invece fu condannato alla pena eterna, perché negò il suo delitto. Così anche nel nostro caso, quando il Signore chiede: “Dove l’avete messo?” non pone la domanda quasi che ignori dove sia stato sepolto Lazzaro, ma perché la folla dei Giudei lo segua fino al suo sepolcro e, constatando nella risurrezione di Lazzaro la divina potenza di Cristo, essi divengano testimoni contro sé stessi qualora non credano a un miracolo così grande. Infatti il Signore aveva loro detto in precedenza: “Se non credete a me, credete almeno alle mie opere e sappiate che il Padre è in me e io sono in lui” (Gv 10, 38). Quando poi giunse presso il sepolcro, disse ai Giudei che stavano intorno: “Levate via la pietra” (Gv 11, 39). Che dobbiamo dire? Forse che il Signore non poteva rimuovere la pietra dal sepolcro con un semplice comando, lui che, con la sua potenza, ha rimosso le sbarre degli inferi? Ma il Signore ha ordinato agli uomini di fare ciò che era nelle loro possibilità; ciò che invece appartiene alla virtù divina, lo ha manifestato con la propria potenza. Infatti rimuovere la pietra dal sepolcro è possibile alle forze umane, ma richiamare un’anima dagli inferi è solo in potere di Dio. Ma, se l’avesse voluto, avrebbe potuto rimuovere facilmente la pietra dal sepolcro con una sola parola chi con la sua parola creò il mondo.

Quand’ebbero dunque rimosso la pietra dal sepolcro, il Signore disse a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori”, dimostrando così di essere colui del quale era stato scritto: “La voce del Signore è potente, la voce del Signore è maestosa” (Sal 28, 4), e ancora: “Ecco che darà una voce forte alla sua potenza” (Sal 67, 34). Questa voce che ha subito richiamato Lazzaro dalla morte alla vita è veramente una voce potente e maestosa, e l’anima fu restituita al corpo di Lazzaro prima che il Signore avesse fatto uscire il suono della sua voce. Sebbene il corpo fosse in un luogo e l’anima in un altro, tuttavia questa voce del Signore restituì subito l’anima al corpo e il corpo obbedì all’anima. La morte infatti fu rimossa alla voce di una così grande potenza. E nulla di strano, certamente, che Lazzaro sia potuto risorgere per una sola parola del Signore, quando ha dichiarato egli stesso nell’Evangelo che quanti sono nei sepolcri risorgeranno alla sola e unica parola, dicendo: “Viene l’ora in cui i morti ascolteranno la voce del Figlio di Dio e risorgeranno” (Gv 5, 25). Senza dubbio, all’udire la parola del Signore, la morte avrebbe potuto allora lasciar liberi tutti i morti, se non avesse capito che era stato chiamato soltanto Lazzaro. Dunque, quando il Signore disse: “Lazzaro, vieni fuori, subito egli uscì legato piedi e mani e la faccia ravvolta in un sudario” (Gv 11, 44). Che diremo qui ancora? Forse che il Signore non poteva spezzare le bende nelle quali Lazzaro era stato sepolto, lui che aveva spezzato i legami della morte? Ma qui il Signore e Salvatore nostro manifesta nella risurrezione di Lazzaro la duplice potenza della sua operazione per tentare d’infondere almeno così la fede nei Giudei increduli.

Infatti non desta minor meraviglia veder Lazzaro poter camminare a piedi legati che vederlo risuscitare dai morti...

 

Sabato di Lazzaro - Dai Detti dei Padri del deserto



 
Dai Detti dei Padri del deserto

L’abate Giovanni ha detto: “Questa parola è scritta nell’Evangelo: Quando Gesù chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro, le sue mani e i suoi piedi erano legati e il suo viso cinto da un lino; Gesù lo sciolse e lo congedò. Noi dunque abbiamo le mani e i piedi legati e il nostro viso è stato coperto con un lino dalle mani del nemico? Se dunque ascoltiamo Gesù, Egli ci slegherà da tutto questo e ci libererà dalla schiavitù di tutti questi cattivi pensieri. Saremo allora figli del Signore, riceveremo le promesse in eredità e saremo figli del Regno Eterno”.

Sabato di Lazzaro

 

Protopresbitero Alexander Schmemann
[1. Il preludio della Croce]
Sabato di Lazzaro

Duccio di Buoninsegna, Risurrezione di Lazzaro, 1308-11
Fort Worth, Kimbell Art Museum

 
La gioia che permea e illumina il servizio del Sabato di Lazzaro sottolinea uno dei temi principali: la vittoria prossima di Cristo sull’Ade. “Ade” è il termine biblico per indicare la morte ed il suo potere universale, per indicare quell’ineludibile tenebra che fagocita tutta la vita e con la sua ombra avvelena il mondo intero. Ma ora – con la risurrezione di Lazzaro – “la morte comincia a tremare”. Un duello decisivo tra la Vita e la Morte comincia a darci la chiave di lettura per l’intero mistero liturgico della Pasqua. Già nel IV secolo il Sabato di Lazzaro era chiamato “l’annuncio della Pasqua”. Perché, infatti, si annuncia e si anticipa la splendida luce e la pace del prossimo Il Grande Sabato, giorno della Tomba portatrice di vita.
Lazzaro, l’amico di Gesù, personifica l’umanità intera e anche ogni uomo, come Betania la casa di Lazzaro, sta per il mondo intero la casa dell’uomo. Ogni uomo è stato creato come un amico di Dio ed è stato chiamato a questa amicizia: per la conoscenza di Dio, per la comunione con Lui, per partecipare della vita con lui: In lui era la Vita e la Vita era la luce degli uomini (Giovanni 1, 4). E ancora questo Amico, che ama Gesù, che Egli ha creato nell’amore, è distrutto, annientato da un potere che Dio non ha creato: la morte. Nel suo proprio mondo, il frutto del Suo amore, della saggezza e della bellezza, Dio incontra un potere che distrugge il Suo lavoro e annienta il Suo disegno. Il mondo “è”, ma è lamento e dolore, è accusa e rivolta. Come è possibile? Come è potuto succedere? Queste sono le domande implicite in Giovanni, nel lento e dettagliato racconto di Gesù che procede verso la tomba del Suo amico. E una volta lì, Gesù scoppiò in pianto, dice l’evangelo (Giovanni 11, 35). Perché Egli pianse se sapeva che pochi momenti più tardi avrebbe chiamato Lazzaro nuovamente alla vita? Gli Innografi Bizantini non riescono a cogliere il vero significato di queste lacrime. “Come uomo Tu piangi colui che è nella tomba, e come Dio Tu lo risusciti...”. Essi classificano le azioni di Cristo secondo la Sue due nature: quella divina e quella umana. Ma la Chiesa Ortodossa insegna che tutte le azioni di Cristo sono entrambe divino-umane, sono azioni di una sola e medesima persona, il Figlio di Dio incarnato. Colui che piange non è solo uomo ma anche Dio, e Colui che chiama Lazzaro fuori dalla tomba non è solo Dio, ma anche uomo. Ed Egli piange perché contempla il miserabile stato in cui versa il mondo, creato da Dio, e la miseria dell’uomo, il re della creazione... Esso puzza, dicono gli Ebrei a Gesù, cercando di evitare di avvicinarsi al corpo, e questo “esso puzza” può essere riferito a tutta la creazione. Dio è Vita ed ha chiamato l’uomo a questa realtà di vita Divina, ed “egli puzza”. Alla tomba di Lazzaro Gesù incontra la Morte – il potere del peccato e della distruzione, dell’odio e della disperazione. Conosce il nemico di Dio. E noi, che lo seguiamo siamo ora introdotti nel cuore di questa ora di Gesù, l’ora che Egli ha così spesso menzionata. L’imminente buio della Croce, la sua necessità, il suo significato universale, tutto questo ci è dato nel versetto più breve dell’evangelo: “e Gesù pianse”.
Ora sappiamo cosa egli pianse, vale a dire, il suo amato amico Lazzaro ed ha pietà di lui, Lui che aveva il potere di ridargli la vita. La potenza della risurrezione non è una Divina “potenza in sé”, ma la potenza dell’amore, o meglio, l’amore come potenza. Dio è Amore, ed è questo amore che genera la vita; è questo amore che piange alla tomba ed è, pertanto, questo amore che ridona la vita... Questo è il senso di queste Divine lacrime. Sono lacrime d’amore e, pertanto, in loro c’è il potere della vita. Amore, che è il fondamento della vita e della sua fonte, che è al lavoro ricreando nuovamente, redimendo, risanando la tenebrosa vita dell’uomo: “Lazzaro, vieni fuori!”. E questo è il motivo per cui il Sabato di Lazzaro è il vero inizio di entrambi: la Croce, come il supremo sacrificio d’amore, e la Comune Risurrezione, come il trionfo ultimo dell’amore.
“Cristo – la Gioia, la Verità, la Luce e la Vita di tutti e la risurrezione del mondo, nel Suo amore si manifestò a questi sulla terra e fu l’immagine della Resurrezione, garantendo a tutti il perdono Divino”.
 
Arciprete Alexander Schmemann, The Christian Way, 1961.

traduzione di E. M. © Tradizione Cristiana Aprile 2009
 

mercoledì 24 aprile 2013

24 aprile, Il genocidio armeno - Memoria del Metz Yeghèrn


24 aprile
memoria del Metz Yeghèrn
IL GENOCIDIO ARMENO
Civili armeni in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, sorvegliati da soldati turchi armati. Kharpert, Impero Ottomano, aprile 1915.

L'espressione Genocidio armeno, talvolta Olocausto degli Armeni[1][2] o Massacro degli Armeni (in lingua armena Հայոց Ցեղասպանութիւն Hayoc’ C’eġaspanowt’yown o Մեծ Եղեռն Medz Yeghern "Grande Crimine", in turco Ermeni Soykırımı "Genocidio armeno", a cui talvolta viene anteposta la parola "sözde", "cosiddetto") si riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo è relativo alla campagna contro gli armeni condotta dal sultano ottomano Abdul-Hamid II negli anni 1894-1896; il secondo è collegato alla deportazione ed eliminazione di armeni negli anni 1915-1916. Il termine genocidio è associato soprattutto al secondo episodio, che viene commemorato dagli Armeni il 24 aprile. Il 24 aprile 2010 è stato commemorato il 95º Anniversario del Genocidio Armeno[3].
Nello stesso periodo storico l'Impero Ottomano aveva condotto (o almeno tollerato) attacchi simili contro altre etnie (come gli assiri e i greci), e per questo alcuni studiosi credono che ci fosse un progetto di sterminio.[4]
Sul piano internazionale, ventuno stati[5] hanno già ufficialmente riconosciuto un genocidio negli eventi descritti.[6][7][8][9]
Primo massacro armeno
Nel 1890 nell'Impero ottomano si contavano circa 2 milioni di armeni, in maggioranza cristiani-ortodossi monofisiti (non avevano partecipato al Concilio di Calcedonia e non avevano aderito alla professione di fede che riconosce anche la piena umanità di Gesù insieme alla sua piena divinità, e dunque considerano Gesù come entità unicamente divina). Gli armeni erano sostenuti dalla Russia nella loro lotta per l'indipendenza, poiché la Russia aspirava ad indebolire l'Impero ottomano per annetterne dei territori ed eventualmente appropriarsi di Costantinopoli. Per reprimere il movimento autonomista armeno, il Governo ottomano incoraggiò fra i curdi, con i quali condivideva il territorio nell'Armenia storica, sentimenti di odio anti-armeno.
L'oppressione che dovettero subire dai curdi e l'aumento delle tasse imposto dal governo turco esasperò gli armeni fino alla rivolta, alla quale l'esercito ottomano, affiancato da milizie irregolari curde, rispose assassinando migliaia di armeni e bruciandone i villaggi (1894).
Due anni dopo, probabilmente per ottenere visibilità internazionale, alcuni rivoluzionari armeni occuparono la banca ottomana a Istanbul. La reazione fu un pogrom anti-armeno da parte di turchi ottomani in cui persero la vita 50.000 armeni.
Secondo massacro armeno
Nel periodo precedente la prima guerra mondiale all'impero ottomano era succeduto il governo dei «Giovani Turchi». Costoro temevano che gli armeni potessero allearsi coi russi, di cui erano nemici. Il 1909 registrò un eccidio di almeno 30.000 persone nella regione della Cilicia[10].
Nel 1915 alcuni battaglioni armeni dell'esercito russo cominciarono a reclutare fra le loro fila armeni che in precedenza avevano militato nell'esercito ottomano. Intanto l'esercito francese finanziava e armava a sua volta gli armeni, incitandoli alla rivolta contro il nascente potere repubblicano.[11] Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 vennero eseguiti i primi arresti tra l'élite armena di Costantinopoli. L'operazione proseguì l'indomani e nei giorni seguenti. In un solo mese, più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e perfino delegati al Parlamento furono deportati verso l'interno dell'Anatolia e massacrati lungo la strada.
Arresti e deportazioni furono compiute in massima parte dai «Giovani Turchi». Nelle marce della morte, che coinvolsero 1.200.000 persone, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento. Queste marce della morte furono organizzate con la supervisione di ufficiali dell'esercito tedesco in collegamento con l'esercito turco, secondo le alleanze ancora valide tra Germania e Impero Ottomano (e oggi con la Turchia) e si possono considerare come "prova generale" ante litteram delle piu' note marce ai danni dei deportati ebrei durante la seconda guerra mondiale.[12][13][14] Altre centinaia di migliaia furono massacrate dalla milizia curda e dall'esercito turco. Le fotografie di Armin T. Wegner sono la testimonianza di quei fatti.[15]
Malgrado le controversie storico-politiche, che saranno trattate nella sezione che segue, un ampio ventaglio di analisti concorda nel qualificare questo accadimento come il primo genocidio moderno,[16][17][18] e soprattutto molte fonti occidentali enfatizzano la "scientifica" programmazione delle esecuzioni.[19]
Numero dei morti
L'esatto numero di morti è controverso. Le fonti turche tendono a minimizzare la cifra, quelle armene a gonfiarla.
Nel 1896 il governo ottomano registrava in 1.440.000 gli Armeni residenti in Anatolia. Secondo il Patriarcato armeno di Costantinopoli, nel 1914 gli Armeni anatolici andavano da un minimo di 1.845.000 ad un massimo di 2.100.000. Le stime variano da un minimo di 950.000 secondo le fonti scritte turche fino a 3.500.000 secondo le ipotesi degli Armeni.
Lo storico Arnold J. Toynbee, che fu ufficiale dell'intelligence britannica in Anatolia nella prima guerra mondiale, stima in 1.800.000 il numero complessivo degli Armeni di quel paese. L'Enciclopedia Britannica indica come probabile il numero di 1.750.000.[20][21]
Il numero degli armeni morti nel secondo massacro è ancora più controverso. Fonti turche stimano il numero dei morti in 200.000, mentre quelle armene arrivano a 2.500.000. Talat Pasha, Gran Visir nel 1917-1918 e importante Giovane Turco, stima la cifra in 300.000 morti.
Toynbee ritiene che i morti furono 600.000, come pure McCarthy. Gli storici stimano che la cifra vari fra i 500.000 e 2.000.000 di morti, ma il totale di 1.200.000/1.300.000 è quello più diffuso e comunemente accettato.

Note

  1. ^ Richard G. Hovannisian, The Armenian holocaust: a bibliography relating to the deportations, massacres, and dispersion of the Armenian people, 1915-1923, Armenian Heritage Press, 1980. ISBN 9780935411058
  2. ^ Alberto Rosselli, a cura di M. Cimmino, L'olocausto armeno. Breve storia di un massacro dimenticato, Editore Solfanelli, 2010. ISBN 8889756977.
  3. ^ United Nations Sub-Commission on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities, July 2, 1985
  4. ^ Schaller, Dominik J. and Zimmerer, Jürgen (2008) Late Ottoman genocides: the dissolution of the Ottoman Empire and Young Turkish population and extermination policies – introduction, Journal of Genocide Research, 10(1):7–14
  5. ^ Recognition of the Armenian Genocide: List of countries
  6. ^ Kamiya, Gary. Genocide: An inconvenient truth salon.com. October 16, 2007.
  7. ^ Letter from the International Association of Genocide Scholars to Prime Minister Recep Tayyip Erdoğan, June 13, 2005
  8. ^ Jaschik, Scott. Genocide Deniers. History News Network. October 10, 2007.
  9. ^ Kifner, John. Armenian Genocide of 1915: An Overview. The New York Times.
  10. ^ Hagop H. Terzian, Giligie Aghedu, Istanbul, 1912. Il libro, allora proibito dalle autorità è stato ristampato in traduzione inglese con il titolo Cilicia 1909: The Massacre of Armenians, Taderon Press e Gomidas Institute, 2009, ISBN 978-1-903656-95-2. Cfr Book Review Cilicia 1909 su asbarez.com
  11. ^ Che sorgerà ufficialmente nel 1923 dopo la lotta anti-imperialista di liberazione nazionale e la vittoria di Mustafa Kemal Atatürk.
  12. ^ Samuel Totten, Paul Robert Bartrop, Steven L. Jacobs (eds.) Dictionary of Genocide. Greenwood Publishing Group, 2008, ISBN 0-313-34642-9, p. 19
  13. ^ Noël, Lise. Intolerance: A General Survey. Arnold Bennett, 1994, ISBN 0-7735-1187-3, p. 101
  14. ^ Encyclopedia of Race, Ethnicity, and Society, by Richard T. Schaefer, 2008, p. 90
  15. ^ Collegamenti esterni sulla figura e sull'opera di Wegner:
    Brief an Hitler Armin Wegner's letter to Adolf Hitler, 1933 (German language)
  16. ^ Council of Europe Parliamentary Assembly Resolution, April 24, 1998
  17. ^ Ferguson, Niall. The War of the World: Twentieth-Century Conflict and the Descent of the West. New York: Penguin Press, 2006, p. 177. ISBN 1-59420-100-5
  18. ^ A Letter from The International Association of Genocide Scholars
  19. ^ Senate Resolution 106 — Calling on the President to ensure that the foreign policy of the United States reflects appropriate understanding and sensitivity concerning issues related to Human Rights, Ethnic Cleansing, and Genocide Documented in the United States Record relating to the Armenian Genocide. Library of Congress
  20. ^ Encyclopædia Britannica: Death toll of the Armenian Massacres
  21. ^ The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire 1915-16: Documents presented to Viscount Grey of Fallodon, Secretary of State for Foreign Affairs By Viscount Bryce. (New York and London: G.P. Putnam's Sons, for His Majesty's Stationary Office, London, 1916), pp. 637–653.
Brani tratti dall’articolo di Wikipedia