Fronte di sarcofaco presso il museo Lateranense
Malattia e guarigione nell’arte paleocristiana
Quel mantello «alla cinica» che copre il terapeuta
di Fabrizio Bisconti
L’immaginario iconografico paleocristiano accoglie molto presto gli episodi
evangelici legati alla malattia e ai relativi miracoli, che vedono il Cristo
come terapeuta e guaritore, tanto è vero che, in molti casi, il Salvatore
assume le caratteristiche fisionomiche di Asklèpios e veste il pallio dei
sapienti, ovvero il cosiddetto mantello "alla cinica", come succede
in un singolare sarcofago romano ora conservato al museo di Palazzo Massimo
riferibile all’età tetrarchica, ossia al grave momento della persecuzione
dioclezianea. È sintomatico che, in questo rilievo, il Cristo guaritore compaia
contemporaneamente come protagonista del sermone della montagna (Luca,
6, 20, Marco, 5, 1-3) e come guaritore della mulier inclinata, del
cieco nato, del lebbroso, del paralitico, dell’ossesso, quasi per indicare che
è proprio dal Lògos e dalle sue parole che si muovono le vie della salvezza del
corpo e dell’anima, in perfetta coerenza con quanto evidenziano i Padri della
Chiesa: da Tertulliano (Adversus Marcionem, 4, 14) a Clemente
Alessandrino (Stromata, 5, 70, 1). Ma la traduzione figurata dei
miracoli di guarigione si affaccia ancora prima all’orizzonte figurativo
paleocristiano, sin dagli esordi del III secolo, quando, simultaneamente, nel
battistero di Dura Europos, in Siria, e in uno dei cubicoli della più antica
area del complesso romano di San Callisto, compare l’immagine del paralitico
già guarito, mentre solleva il suo lettuccio da infermo sulle spalle.
Dura Europos, il paralitico
Come è noto, i sinottici rievocano un miracolo occorso a un paralitico a
Cafarnao (Matteo, 9, 1-8, Marco, 2, 3-12, Luca, 5, 18-26),
mentre Giovanni ricorda un prodigioso risanamento di uno storpio presso la
piscina probatica di Gerusalemme (Giovanni, 5, 1-15).
Lo schema iconografico molto semplice, che - come si è detto - comporta la
figura del malato che risponde all’ordine perentorio del Cristo di alzarsi e
camminare, rende bene l’idea dell’urgenza e dell’eccezionalità dell’evento,
talora arricchito dal sacro gesto dell’impositio manuum del Salvatore,
che vuole significare la potenza taumaturgica del Lògos. Il miracolo, che si
verifica presso la piscina di Bethesda, rappresentato molto spesso, specialmente
nei sarcofagi romani di età teodosiana, sottolinea il collegamento naturale che
l’idea della guarigione intrattiene con il concetto di purificazione.
Catacombe di San Callisto, Mosè apre le acque, battesimo del Signore e il paralitico
Presso la piscina, situata ai piedi della collina che si alzava nei pressi
del Tempio, si affollavano, infatti, molti infermi, che si precipitavano nelle
acque non appena un angelo ne sollevava il livello, con la speranza di essere i
primi a immergersi per essere risanati. Il miracolo del paralitico - per questo
motivo - è stato spesso interpretato in chiave battesimale, come sottolinea
efficacemente Tertulliano (De baptismo, 5), quando ricorda che il bagno
nell’acqua lustrale monda i fedeli dal peccato, restituendo l’integrità fisica
e spirituale.
La stessa associazione semantica sostiene la fortuna iconografica degli
episodi relativi alle guarigioni dei non vedenti. Oltre al risanamento di
ciechi in massa (Luca, 7, 21, Matteo, 15, 30-31 e 21, 14),
il Nuovo Testamento ricorda altri miracoli relativi ai non vedenti guariti dal
Cristo, che possono essere ricondotti a uno verificatosi a Cafarnao, che
interessò una coppia di ciechi (Matteo, 9, 28-31); a un altro accaduto
in una via di Gerico, ancora in favore di una coppia di non vedenti (Matteo,
20-29-34); a quello celebre relativo al mendicante Bartimeo (Marco, 10,
46-52); a uno ancora ambientato a Bethesda (Marco, 8, 22-26) e a quello,
sopra ricordato, della piscina di Siloe. Specialmente in riferimento a
quest’ultimo miracolo rievocato da Giovanni, i Padri della Chiesa sottolineano,
appunto, il simbolismo battesimale, per la chiara allusione al sacramento
dell’illuminazione, come afferma esplicitamente ancora Tertulliano (De
baptismo, 5, 5).
Frammento di sarcofaco nel museo di Arles
Altri si soffermano sull’assimilazione cieco nato-uomo peccatore dalla
nascita e cieco illuminato-uomo risanato dalla grazia del Battesimo e anzi, per
Ireneo (Adversus haereses, 5, 15, 13), il lavaggio della piscina di
Siloe si riferisce sicuramente al lavacro battesimale e il momento precedente è
da identificarsi con il catecumenato, mentre per Ambrogio (Epistulae,
80) l’uomo, che aveva un cuore cieco, dopo Siloe, ha aperto gli occhi.
Questo logico e naturale passaggio simbolico nutrì una fortuna assai
considerevole della guarigione del cieco nell’arte cristiana più antica, che
rappresenta l’infermo nel momento del miracolo con le braccia sollevate nel
gesto orante del ringraziamento, mentre il Cristo impone solennemente le mani
sul suo capo a sui suoi occhi. Piuttosto fortunato risulta, nella produzione
figurativa paleocristiana, anche il miracolo della guarigione operata dal
Cristo nei confronti di un’emorroissa (Matteo, 9, 20-22, Marco,
5, 25-29, Luca, 8, 43-48), che assurge, anzi, ad emblema paradigmatico
della fede nella potenza divina e taumaturgica del Cristo. L’arte, sin dalle
prime manifestazioni, fissa il momento in cui la donna inginocchiata sfiora il
pallio del Salvatore che, talora, si volge verso di lei per interpellarla.
Lo schema iconografico, assai sintetico ed estremamente simile a quello
relativo alla guarigione della figlia della cananea (Matteo, 15, 21-28,
Marco, 7, 24-30), rende molto bene il forte concetto del peccato annullato
dal perdono, per il tramite del pentimento, alludendo, in senso più lato, alla
Chiesa, che mette a nudo le sue piaghe e chiede di essere guarita, come
specifica chiaramente Ambrogio (De poenitentia, 1, 7, 31).
Sarcofago nel museo di Algeri
Più rara risulta la traduzione figurata della guarigione della donna curva (Luca,
13, 10-13), che, però, trova un’interessante manifestazione in un affresco del
cimitero dei santi Pietro e Marcellino, dove la scena compare insieme a quella
dell’emorroissa e della samaritana al pozzo, quasi per declinare al femminile
tutto il programma decorativo di un arcosolio, dove, probabilmente, era sepolta
una defunta.
Tutte queste rappresentazioni miracolose si inseriscono naturalmente nelle
intenzioni significative di tutta l’arte cristiana delle origini, sempre tesa a
trasmettere un messaggio positivo, poco incline a raccontare le storie del
dolore, ma preoccupata a indicare le strade della guarigione, della speranza,
della soluzione del problema, del superamento delle situazioni negative.
Questa generale atmosfera gioiosa investe anche gli episodi che vedono come protagonisti i malati, gli infermi e i sofferenti: a loro la "Bibbia figurata" riserva la soluzione finale della guarigione miracolosa, del superamento dell’imperfezione fisica, della purificazione, della salvezza, che tanto ha da condividere con l’idea soterica del Battesimo.
Questa generale atmosfera gioiosa investe anche gli episodi che vedono come protagonisti i malati, gli infermi e i sofferenti: a loro la "Bibbia figurata" riserva la soluzione finale della guarigione miracolosa, del superamento dell’imperfezione fisica, della purificazione, della salvezza, che tanto ha da condividere con l’idea soterica del Battesimo.
da: © L’Osservatore Romano 11 febbraio 2010
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