martedì 23 ottobre 2012

La crescita nella preghiera dell’Archimandrita Sofronio

 
San Silvano dell'Athos e il diacono Sofronio Sakharov
(settembre 1933)
 
 
La crescita nella preghiera dell’Archimandrita Sofronio
 
 
Il fine ultimo della preghiera rimane immutato nei secoli, ma questa, senza perdere l’unità della sua aspirazione iniziale, cambia continuamente contenuto nella vita di un uomo. Talvolta abbraccia tutto il mondo, nella sua incertezza, talaltra si concentra invece sulla necessità di un momento particolare. Situazioni diverse possono alimentarla: un pentimento personale, la pietà per il prossimo, la richiesta che ad altri sia concessa la grazia, la ricerca della luce nei momenti d’incertezza, le manifestazioni di riconoscenza a Dio per il suo amore previdente o di estasi davanti a Dio salvatore, e ancora molte altre.
Come raffigurare la sete di Dio, la luce che da lui scaturisce e la sua forza che agisce in noi? Riconosco la mia totale incapacità, poiché vedo che non riesco a evitare di ripetere la stessa cosa.
Più di una volta la mia preghiera (se così si può chiamare ciò che in realtà mi accadeva) ha toccato limiti di inammissibile superbia. Vedendo che non cessava l’incubo delle violenze perpetrate dai signori e dai principi della terra sui “propri fratelli” (cf. Mt 23, 8), con l’amaro nel cuore ho detto: “Se tu hai creato tutto quello che esiste, se senza di te niente ha iniziato a esistere (cf. Gv 1, 3), allora tutti questi abominevoli criminali, capaci di versare il sangue di milioni e milioni di uomini in tutta la terra per i pochi giorni in cui possono godere il piacere perverso di esercitare il potere su povera gente, non devono essere sottoposti a giudizio e non sono responsabili… Tu, creatore di tutto, sei l’unico colpevole del dolore incommensurabile sulla terra…”. Forte è stata questa tentazione, in quanto mi trovavo al limite tra la disperazione e quasi la pazzia, una lugubre disperazione in cui non si vedeva alcuna via d’uscita. E il Signore mi ha visitato di nuovo: la sua pace ha toccato il mio cuore, e il mio pensiero ha cominciato a fluire per un altro corso: il Padre ha mandato suo Figlio nel mondo perché il mondo si salvi, il suo Unigenito Figlio che è stato ucciso. Ma ecco che egli è risorto vittorioso sulla morte e, come sovrano dell’eternità, “giudicherà i popoli secondo giustizia” (Sal 9,9; Eb 10, 31).
E allora? Non è entro i confini della terra che si risolve la questione del bene e del male. Coloro che sono andati in olocausto come pecore “senza opporsi al male” (Mt 5, 39) saranno simili al Figlio del Padre (cf. Is 53, 7) e risorgeranno con lui nella gloria imperitura.
Ahimè, ho lottato per la seconda volta con Dio nella stessa prospettiva. Ma tutta la mia vita successiva ha avuto bisogno che fosse risolta in maniera categorica la questione, che è il problema cardine di cristianesimo: come reagire alle persecuzioni compiute dal principe (dai principi) di questo mondo? Il Signore ci ha dato la grazia di avere i suoi stessi pensieri: Pietro nell’orto del Getsemani si è comportato “da uomo” (cf. Mt 16, 22-23). Ma Cristo gli ha detto: “Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?” (Gv 18, 11).
Questa è stata per me la via per la quale ho ricevuto direttamente dall’alto l’insegnamento attraverso la preghiera. Così mi si è svelato il senso della Lettera agli Efesini sulla profondità, l’ampiezza e l’altezza del disegno divino che ci riguarda (cf. Ef 3). La nostra vita terrena, in effetti, non è più di un breve momento, datoci dal Padre buono, perché possiamo penetrare nell’amore kenotico per Cristo, superiore a ogni comprensione. Al di fuori di questa strada nessuno potrà “realizzarsi in tutta la pienezza divina”. Qui siamo posti sulla croce, sia pur invisibile, ma solo in questo modo possiamo cogliere la grandezza dell’uomo e l’abisso inesplorabile dell’essere divino. È impossibile esprimere a parole la ricchezza che il Padre ci ha consegnato per mezzo della croce.
Dio è in sé indivisibile. Quando viene, viene tutto e quale è nel suo essere eterno. Noi non lo possiamo comprendere. Egli svela a noi se stesso attraverso il “punto” in cui noi bussiamo: “Bussate e vi sarà aperto” (Lc 11, 9). Dio pronuncia una breve frase, ma la vita non basta a esaurirne il contenuto. Pieni di venerazione percepiamo il suo luogo d’origine, poiché vediamo che egli desidera trasmetterci la sua vita che non ha inizio, che vuole renderci, fino alla perfezione, simili a suo Figlio, l’“impronta con la stessa immagine del Padre”. Incomprensibile è il suo disegno d’amore su di noi. Dal “nulla” egli crea dèi simili a lui. E tutto il nostro essere si inchina commosso davanti a lui, senza temere il signore severo, ma amando umilmente il padre.
Il Signore mi ha preservato da tutti quei legami, che sarebbe stato difficile spezzare. E così, quando ho avuto bisogno di essere esente da qualsiasi responsabilità per un’altra vita, disponevo già di questa libertà. Ho ringraziato Dio per questo suo disegno a mio riguardo. Ero tranquillo al pensiero che, se fossi morto, nessuno avrebbe subito una perdita. Grande era la mia felicità, in quanto potevo affrontare senza timore ogni rischio, persino la morte. La mia mente si è raccolta con tutta la sua attenzione, e così è rimasta irrimediabilmente per degli anni. La preghiera cambiava in forma e intensità: non sempre mi attraeva, infatti, con lo stesso potere, e di tanto in tanto mi abbandonavo a essa senza esserne sazio. E se allora (ero ancora in Francia, prima della mia partenza per l’Athos) avessi voluto fermarla, non avrei potuto. In quei giorni benedetti ero il più infelice sulla terra e, al contempo, beato fino all’eccesso.
Talvolta un fuoco invisibile mi lambiva la sommità del capo, penetrando velocemente nel corpo fino ai piedi, e una preghiera ardente, accompagnata a un gran pianto per il mondo, si impadroniva di me. Allora pregavo soprattutto stando in ginocchio e con la fronte sul pavimento. Quando il corpo era stremato mi addormentavo, ma chiaramente nella mia coscienza non cessavo di pregare e sentivo che stavo dormendo. Solo dopo essermi destato potevo rendermi conto che il mio corpo aveva dormito, dato che non era sempre nella posizione che avevo assunto quando ero in preghiera.
Due volte, per le strade di Parigi, a causa della intensità della preghiera persi coscienza del mondo materiale attorno a me, pur riuscendo ad arrivare là dove ero diretto. In un certo senso mi dispiace che non ci sia stato con me un testimone che potesse descrivere il mio comportamento in quei momenti.
Una volta (a Parigi) presi parte a una serata di un poeta molto famoso, che leggeva le sue opere. Era presente un pubblico raffinato, e tutto era stato organizzato proprio come si doveva, dal punto di vista mondano. A mezzanotte tornai a casa. Per strada pensavo a come si potesse mettere in relazione questa espressione della creazione dell’uomo, una delle più nobili, con la preghiera. Entrato in camera iniziai a pregare: “Dio santo, santo e forte, santo e immortale”… Ed ecco che un qualcosa di leggero come l’aria, diverso dallo Spirito divino, accese una sottile fiamma invisibile e dolce sulla superficie del mio viso e del mio petto.
Ho vissuto dentro di me il processo sorprendente della lotta tra l’inclinazione per l’arte e l’inclinazione per la preghiera. Quest’ultima ha vinto sulla passione del pittore, ma non è stato facile né rapido. Poi, all’istituto teologico, essa non mi ha aiutato a concentrarmi sulle materie insegnate. Mi è toccato lottare con questo particolare ostacolo, di per sé prezioso. All’istituto la vita mi è stata facilitata dall’avere la camera sopra gli appartamenti dei professori, nella quale potevo pregare nella mia posizione abituale. E tuttavia, pur con tutto il mio interesse per le scienze religiose, mi accorgevo che il mio bisogno spirituale, quello di permanere nella preghiera, restava inappagato, e così partii per l’Athos.
Là, sulla Santa Montagna, la mia vita è entrata nei suoi binari. Quasi tutti i giorni, dopo la liturgia, la gioia pasquale mi ricolmava. E, per quanto possa sembrare strano, la mia preghiera incessante, come un’eruzione vulcanica, scaturiva dalla profonda disperazione che mi si era insediata nel cuore. Due condizioni, in apparenza diametralmente opposte, si mischiavano dentro di me. Scrivo la pura verità. Io stesso non riuscivo a capire che cosa mi stesse succedendo. Esteriormente non ero meno fortunato della maggioranza degli uomini.
Più tardi mi si è chiarita la situazione: il Signore mi aveva dato la grazia del pentimento (cf. Lc 24, 47). Sì, era una grazia. Appena dentro di me la disperazione si indeboliva e la preghiera perdeva interesse, la morte mi stringeva il cuore. Attraverso il pentimento il mio essere si è dilatato a tal punto, che con lo spirito ho toccato l’inferno e il regno dei cieli. Dall’inizio della prima guerra mondiale (1914) la notizia delle migliaia di morti al fronte faceva sprofondare, nella mia coscienza, tutto l’essere cosmico nella tenebra impenetrabile dell’assurdo. Non potevo accettare né la morte né l’assurdo. Allora dentro di me si insinuò un pensiero (loghismòs): tutto ciò che avevo amato, che vive e mi ispira, tutto ciò che è buono e giusto, persino Dio, muore in me e per me, se io sparisco del tutto… Forte è stata questa esperienza, ed è diventata convinzione che l’Io umano può diventare il centro ricettivo dell’universo intero.
Vivevo in due mondi: uno lo percepivo attraverso la vista, l’udito e gli altri sensi, ma nell’altro io ero solo spirito, ero tutto “udito”, tutto attesa… Sforzai la “vista”, ma vedevo in altro modo. Questi due mondi, così diversi, nella preghiera non si separarono. Di giorno la preghiera fluiva nel mondo percepibile, mentre di notte mi trasportava nella “sfera mentale” (non so come chiamare quell’infinità che mi abbracciava). Leggendo l’evangelo mi sembrava di conoscere tutte le parole, ma non potevo cogliere ciò che si cela dietro ciascuna di esse nell’Essere divino. Una cosa mi era sorprendentemente chiara, e cioè che tutto è in Cristo, Figlio di Dio, e solo in lui. E io pregavo lui. Mi appellavo anche al Padre, perché lo Spirito di verità, che da lui scaturisce, scendesse fino a me, per guidarmi a tutta la verità (cf. Gv 16, 26; 16, 13). La mia ricerca del Dio nascosto trovava eco nell’Antico Testamento, dove incontravo molte parole per esprimere le mie necessità. Mi erano vicine le esplosioni di sdegno di Giobbe, e anch’io mi lamentavo come i profeti che erano stati prima di Cristo; attingevo ispirazione per la preghiera dai salmi, ma, in effetti, ho studiato solo sul Nuovo Testamento, attraverso il prisma dal quale ho appreso tutto il resto, indipendentemente da dove provenisse. La mia fame di conoscere Dio era inesauribile: per quanto pregassi ed emettessi profondi sospiri, non riuscivo a saziarmi. Questo è stato sull’Athos il mio “calice”: dolore e gioia vi si mescolavano sciogliendosi l’uno nell’altra. La mia mente non aveva davanti a sé delle strade, in quanto ero del tutto sconcertato, e il dolore mi pervadeva. Ma è proprio in questa atmosfera di dolore spirituale che ho compreso la grandezza dell’uomo. E non è forse questo dolore santo uno dei canali attraverso cui Dio l’Altissimo si rivolge direttamente alla sua creatura facendogli gradatamente conoscere non solo la natura del creato e del cosmo, ma anche se stesso?
Il beato starec Silvano, quando gli apparve il Signore vivente, poté conoscere con tutto il suo essere l’“indescrivibile umiltà divina”. La parola dello starec è stata efficace per molti, e anche per uno come me, debole di comprendonio. E così, grazie a lui, mi si è chiarito che alla base di tutte le tragedie del genere umano sta la caduta nella superbia. Questa passione è la vera essenza dell’inferno e, in verità, rappresenta le profondità sataniche. Ora che scrivo, mi ricordo con profonda vergogna che questo spirito sacrilego e invidioso, molto prima del mio incontro con lo starec, una volta mi aveva indotto a pensare: “Perché Cristo è l’unigenito, e non io?”. È stato un momento, ma il perfido fuoco mi aveva bruciato il cuore… Dio mi ha salvato, e inoltre mi si è svelato il mistero di tutte le cadute.
Dio mi ha salvato, e il mio amore per lui è cresciuto. Ma è rimasta per sempre in me la coscienza che nessuno si salva con le proprie forze. Nessuno può essere sicuro che un pensiero, venutogli in mente, non si impadronisca di lui per l’eternità. Nel deserto il Signore è uscito vincitore su tutte le tentazioni di questo spirito (Mt 4, 1-11). Dio mi ha salvato. Ma io ero terrorizzato dal fatto che potessero venire pensieri simili. Pensavo: “Non ho speranza di salvarmi… Per Dio non è possibile accogliermi per l’eternità così come sono (cf. Gv 17, 21-23). E anche per me sarebbe troppo gravoso essere con lui, se è necessario lottare sempre con le passioni”.
Il disegno divino è stato sorprendentemente sollecito nei miei riguardi, in quanto proprio al tempo opportuno il Signore ha fatto sì che incontrassi Silvano. È grazie a lui che nella mia vita interiore è avvenuta una rottura decisiva. È lui che mi ha insegnato a “Tenere la mente nell’inferno e a non disperare”. Grande è la mia riconoscenza al mio padre e starec. Mi sono reso conto che in passato il Signore aveva condotto anche me a questo stesso punto, ma ero stato troppo ottuso per comprendere la guida divina. Grazie a Silvano anche per me è stato possibile iniziare a conoscere le vie del Signore, e con trepidazione benedico il suo nome.
“Se uno mi ama, osserverà la mia parola… Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama… Chi non mi ama non osserva le mie parole… Chi mi respinge ha chi lo condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell’ultimo giorno” (Gv 14, 23.21.24; 12, 48).
Anche sull’Athos, e prima di farmi monaco, più di una volta la mia preghiera era stata interrotta da pensieri contrari a Dio. Così, in un momento in cui ero sottoposto dolorosamente al giudizio della parola divina, ho percepito la mia totale incapacità a mantenermi nello spirito dei suoi comandamenti, pur con tutti i miei tentativi, e ho pronunciato queste folli parole: “Tu non hai il diritto di giudicarmi. Per essere veramente il mio giudice tu stesso devi essere posto in condizioni uguali alle mie… Tu sei infinito nella potenza dell’essere che non ha inizio, mentre io, essendo una creatura, sono simile a un verme”.
La mia preghiera era rivolta a Dio “in genere”, tuttavia ho ricevuto una risposta nel mio cuore: “Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio, perché è  Figlio dell’uomo” (Gv 5, 22-27). Fino a quel momento avevo letto queste parole moltissime volte, ma non le avevo mai considerate con questo significato. Ero stato coperto d’infamia, e provai vergogna. Ero sempre vissuto in condizioni più facili di quelle in cui si era svolta la vita terrena di Cristo. Invero egli ha il diritto di giudicare tutto il mondo. Non vi è nessuno che con le sue sofferenze possa superarlo. Esteriormente molti hanno sopportato e sopportano fino a ora terribili torture nelle camere delle prigioni moderne, ma qualitativamente il suo inferno, “l’inferno dell’amore”, è più doloroso di tutti gli altri.
“Il Padre … ha rimesso ogni giudizio al Figlio perché è Figlio dell’uomo”. Ma in che cosa consiste questo giudizio? Nell’aver mostrato che l’uomo può osservare il comandamento del Padre in ogni situazione in cui ci possiamo trovare. Non ho giustificazione quando mi richiamo alla mia impotenza “umana”. Allo stesso modo coloro che hanno seguito Cristo nella sua vita terrena hanno ricevuto il diritto di giudicare il mondo assieme a lui: “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo?” (ICor 6, 2). Pietro ha chiesto al Signore: “‘Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?’. E Gesù disse loro: ‘In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, sederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele’”. (Mt 19, 27-28).
Perché accade questo? La risposta la troviamo nell’evangelo. I genitori del cieco nato avevano paura di quei giudei che avevano deciso che “se uno lo avesse riconosciuto come Cristo (cioè il Messia), fosse espulso dalla sinagoga” (Gv 9, 22 e 34). E ancora: “Anche tra i capi, molti credettero in lui, ma non lo riconoscevano … per non essere espulsi dalla sinagoga” (Gv 12, 42). “Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (Gv 16, 2). Non era piccolo il rischio di sottoporsi a quell’epoca all’ostracismo sociale. Gli apostoli, tuttavia, si erano decisi a questa impresa; quasi tutti furono uccisi per aver diffuso l’evangelo; da questa loro sequela deriva anche il “diritto” di giudicare.
 
 
Da: ARCHIMANDRITA SOFRONIO, La preghiera un’opera infinita, Magnano (BI), 2001, 44-56.

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