mercoledì 27 febbraio 2013

Domenica del Figliol Prodigo di Roberto Pagani


Domenica del Figliol Prodigo

di Roberto Pagani

 

La preparazione alla Grande Quaresima prosegue con la domenica del Figliol Prodigo, anch’essa debitrice del nome dalla parabola raccontata da Luca (Lc 15, 11-32).

Disse ancora: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in sé stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Il paese lontano verso cui si incamminò il secondogenito definisce la nostra condizione. Difficilmente un uomo che non ha mai fatto, seppur brevemente, questa esperienza di sentirsi esiliato, lontano da Dio e dalla vera vita, comprenderà cosa sia il cristianesimo. Così come chi si sente perfettamente a casa sua in questo mondo, che non è mai stato ferito dal desiderio nostalgico di un’altra realtà, difficilmente comprenderà cosa sia il pentimento. Se il pentimento fosse solo un elenco di peccati e trasgressioni, con l’ammissione di colpevolezza di fronte all’accusa formulata da un qualsiasi tribunale, la confessione e l’assoluzione assumerebbero una connotazione giuridica, perdendo una qualsiasi efficacia.

Dio ci ha donato ricchezze meravigliose: la vita e la possibilità di goderne, di darle un senso, di riempirla di amore e di conoscenza; perdendo tutto continuamente, non solo nei peccati e nelle trasgressioni particolari, ma nel peccato di tutti i peccati: preferire il paese lontano alla bellezza della casa del Padre. Per questo la Chiesa, con la pedagogia liturgica, richiama alla memoria quanto ho abbandonato e perduto. E nella memoria posso ritrovare il desiderio e la forza di ritornare.


 


Particolarmente significativo a questo riguardo è il fatto che nel mattutino, dopo i consueti salmi 134 e 135 che costituiscono il Polyeleos (Lodate il Nome del Signore), le rubriche prevedano il canto del salmo 136 (Lungo i fiumi di Babilonia), cosa che avviene per sole tre domeniche l’anno: questa e la due successive.

È il salmo dell’esilio. Gli ebrei lo cantavano durante la loro prigionia a Babilonia, pensando a Gerusalemme, la loro città santa. È il canto dell’uomo consapevole del suo esilio lontano da Dio: non può sentirsi pienamente appagato da nessuna cosa in questo mondo, perché si sente attratto dall’Assoluto. Nostalgia che viene commoventemene espressa dalla melodia su cui il salmo viene usualmente cantato nella Chiesa russa.

“Mi leverò e andrò da mio padre”: forse la cosa più difficile è ammettere di avere sbagliato, e quante conseguenze ha questa incapacità nella vita familiare, nell’educazione dei figli, nella comunità cristiana, nella società. “Ho peccato contro il cielo e contro di te”: inizia una nuova vita, da quel momento preciso. La disperazione che porta al suicidio, più o meno cosciente ed esplicito, lascia il posto ad una pace serena, piena di gioia e di riconoscenza. La confessione non è solo nei propri confronti, quasi cercando un’autoassoluzione: è necessario andare davanti al Padre, nella confidenza certa che egli ci accoglierà a braccia aperte; anzi, ci sta aspettando.

Negli uffici liturgici, il soggetto liturgico si identifica con il tipo evangelico: sono io il figlio che si era perduto.

La prima strofa del Lucernario è una metafora agricola. “Dopo aver mietuto le spighe della negligenza, ho ammassato i mucchi di covoni delle mie opere, che ho anche disteso, ma non sull’aia della penitenza. Col vento della tua benevola compassione, disperdi come pula la paglia delle mie opere, e dà alla mia anima il frumento della remissione, rinchiudendomi nel tuo celeste granaio”. Sono io il seminatore di zizzania e il cattivo mietitore: il peccato non viene dal mondo, viene da me; il peccato non è il paese lontano, ma è l’aver abbandonato completamente la propria casa, nella presunzione di un’autosufficienza, mentre la propria sostanza si consuma progressivamente fino ad esaurirsi quando si rimane lontani dal datore della vita. Il figlio dissipa la sua sostanza, tutto quello che aveva, vivendo da dissoluto. Ma sciupa anche sé stesso, esaurisce il suo essere, la sua persona. Il dono paterno viene dilapidato in un paese lontano, dove sopraggiunge una carestia, in cui il figlio, estenuato, non può trovare altra risorsa che servire qualcuno diverso da suo padre, con una occupazione vergognosa per un ebreo, in quanto l’allevamento dei porci era proibito (Lv 11 e Dt 14). Egli avrebbe voluto saziarsi, riempirsi il ventre, la parte fisica della sua sostanza dilapidata, ma nessuno gliene dava. Dal paese lontano che non nutre la persona se non omogeneizzandola fino a ridurla a pascolare i porci, il figlio matura il proposito di avviarsi sulla strada del ritorno alla casa del Padre. Il ritorno in sé stesso provoca l’esame di coscienza e il desiderio di salvarsi.

La seconda strofa passa dalla prima persona singolare alla prima plurale: non è più il peccatore che parla, ma la Chiesa: “Riconosciamo, fratelli, la potenza del mistero: il Padre buono va incontro per primo al figlio dissoluto che dal peccato stava ritornando nella casa paterna; lo abbraccia e gli ridona i segni distintivi della propria gloria. Colma di gioia mistica coloro che sono in alto, immolando il vitello grasso affinché noi stessi conduciamo una vita degna del Padre, filantropo che sacrifica, e della vittima gloriosa, il Salvatore delle nostre anime”.





Nella strofa degli Aposticha, ammettiamo che “sono finito a pascermi insieme alle bestie senza ragione e, pur bramando il loro cibo, soffrivo la fame senza potermi saziare”. Tutto ciò che il mondo può darci, pur nella sua desiderabilità, non arriva a saziarci della fame più profonda. Sant’Ambrogio, nel suo commento all’evangelo di Luca, relaziona le carrube, cibo che all’inizio sembra saziare ma che poi ci lascia più vuoti di prima perché privo di sostanza, al “pane di vita, quello che Gesù, il dispensiere del Padre”, ci dona continuamente. Così il vitello grasso diviene immagine di Cristo, l’Agnello immolato: il figlio confessa apertamente al Padre il proprio peccato, e “restituito dal sacramento alla comunione dei misteri, egli potrà nutrirsi della carne del Signore”.

Sia il brano evangelico che i testi dell’ufficiatura presentano il pentimento del peccatore, seguito dal perdono di Dio, come una risurrezione. La volontà del peccatore precede l’attuarsi della salvezza; il movimento è di duplice natura: ritornare in sé, voler ritornare presso il Padre, perché “io qui muoio di fame”. Il peccato porta immediatamente l’uomo alla morte, il cui sinonimo è la perdizione. La rinuncia al diritto di figliolanza comporta la servitù a un ordine politico in cui non c’è più nessun dono, in cui il cibo si deve comprare. Fuori dalla presenza di Dio, l’uomo perde ciò che ha e ciò che è. Presso il Padre, il figlio possiede tutto, anche ciò che è del Padre. Le conseguenze del pentimento e della confessione provocano subito lo sguardo e la compassione di Dio. Dio fa ancora una volta dipendere da una facoltà umana il suo intervento, preferisce aspettare, vigilare nell’attesa, per poi correre incontro.

La terza strofa lucernale ritorna alla prima persona singolare, riassumendo al contempo un tono penitenziale: il peccato è lo stesso di Adamo e comporta l’esclusione dal Regno. Le nostre opere non possono che portarci al fuoco eterno, e prima del Giudizio dobbiamo invocare la misericordia divina, unica nostra possibilità di salvezza. “Oh me infelice, di quali beni mi sono privato! Me misero, da quale regno sono decaduto! Ho dilapidato la ricchezza che avevo ricevuto, ho trasgredito il comandamento. Ahimè, anima miserabile! Sei condannata al fuoco eterno: perciò, prima della fine, grida a Cristo nostro Dio: accogli anche me come il figlio dissoluto, e abbi pietà di me!”. L’uomo può voler sottrarsi allo sguardo di Dio, come Adamo ed Eva avevano fatto nel paradiso terrestre, cercando di nascondersi agli occhi del Signore prima di venire esiliati. Ogni peccato è un allontanamento dal Regno, da qui può essere collegato al peccato adamitico, e comunque al fare buon uso dei doni del Regno. La salvezza che accompagna il perdono è un ristabilimento nella dignità originale: la conversione è un ritorno nella casa del Padre, il peccatore pentito e assolto non riceve qualcosa di nuovo, ma è restaurato nella gioia e nella gloria che erano la sua eredità prima della sua partenza. Se rientrare in sé stesso per ritrovarvi il ricordo della casa paterna porta alla conversione verso Dio, questa fa scattare lo slancio di Dio verso il peccatore, qualunque possa essere la distanza che li separa. Il ritorno del figlio suscita una uscita di Dio fuori dalla sua casa per accoglierlo nelle dimore eterne: questa processione divina corrisponde per il peccatore a una restaurazione regale: il Padre gli ridà la dignità di figlio, prima ancora di ristabilirlo nel Regno. Questo movimento verso l’uomo, l’abbraccio, il bacio, manifestano l’amore divino che annulla gli effetti del peccato, della lontananza colpevole. Il Padre non dice nulla, mostra il suo perdono con una accoglienza non solo spirituale, ma anche fisica. Non c’è nessuna parola di assoluzione. Ma per il peccatore, e sotto la visuale sacramentale, la confessione rimane necessaria, come parte integrante della conversione che è il fine del pentimento: anche dopo essere stato ricevuto con amore nelle braccia del Padre e dopo essere stato perdonato di fatto, il figlio peccatore gli confessa la sua colpa. E pronuncia su di sé un giudizio che è una confessione di umiltà: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Dopo essere stato abbracciato, perdonato e riconosciuto dal Padre, il figlio confessa il suo duplice peccato, oggettivo e personale, e la sua umiltà, in sottomissione totale. Un secondo effetto della conversione del peccatore è la gioia, non solo quella del Padre, ma anche quella di tutta la casa di Dio che viene invitata a far festa e rallegrarsi. Il Regno celebra la conversione del peccatore, la sua risurrezione.

Il canone del mattutino è opera di Giuseppe l’Innografo, e riprende amplificandoli i temi già emersi nel Vespero. Essere fuori di sé è un carattere dominante del figlio: sciupare i propri beni in una maniera insensata nel mondo significa svuotare il proprio cuore, non essere più sé stessi, e ci si dispera, se non si ha più sufficiente energia spirituale per ritornare in sé e intraprendere il ritorno alla sorgente della vita. Questo è chiarissimo nella terza ode: “Interamente fuori da me stesso”, “alienato”, “mi sono attaccato allo straniero”.

Sempre nella terza ode viene evidenziato anche il rapporto tra bene e bello: etica ed estetica sono profondamente uniti. “Rendi fertile di virtù il mio intelletto reso sterile, o coltivatore del bello, giardiniere di bontà, nel tuo compassionevole bene”. Così chiediamo a Maria “bella fra le donne”, di “arricchirci di forme di bellezza, noi che ci siamo impoveriti dai molti peccati”.

Il peccato è il brutto, il deforme, e porta a dilapidare anche la bellezza. “Ho dissipato nel male la ricchezza di bene che mi hai data, asservendomi agli stranieri” (quarta ode). Quando si è fuori dal Regno si perde la libertà. La persona che abbandona la casa paterna per poi uscire da sé stessa, cade nella servitù. L’uomo è libero solo presso Dio: solo lì egli è in sé stesso ed è sé stesso, mentre essere fuori di sé vuol dire farsi schiavi del mondo. “Sono schiavo di tutti i vizi, perché mi sono disgraziatamente sottomesso agli artefici di passioni, e sono fuori di me stesso per la negligenza” (quarta ode).

L’atteggiamento del penitente descritto in questi inni richiama non solo quello del Pubblicano ma anche quello di Adamo. “Sono tutto pieno di vergogna, e non oso fissare la volta dei cieli” (quarta ode), “non oso fissare in alto lo sguardo, o Cristo, perché ti ho enormemente provocato” (quinta ode).

Ma gli accenti penitenziali sono sapientemente alternati a quelli della speranza nella bontà di Dio: “Passata la notte, il giorno si avvicina, e risplende la luce sul mondo” (quinta ode); “sono chiuso nell’abisso dei peccati, o Salvatore, e affondo nell’oceano della vita: ma tu, come hai tratto Giona fuori dal mostro marino, così trai anche me fuori dalle passioni, e salvami” (sesta ode).

Nella nona ode troviamo il tema della kènosi: “Tu che volontariamente ti sei fatto povero per me, arricchiscimi, o Signore, ora che sono divenuto povero di ogni opera buona, con l’abbondanza dei beni”. La consapevolezza del mio stato deve coesistere con la fiduciosa speranza nella misericordia di Dio: “Guarda, o Cristo, la tribolazione del mio cuore, guarda alla mia conversione, guarda le mie lacrime, o Salvatore, e non mi disprezzare. Nella tua amorosa compassione, accoglimi di nuovo nelle tue braccia, associandomi alla moltitudine degli eletti”. “Come il ladrone ti dico: ricordati di me! Come il pubblicano confuso mi batto il petto e grido: siimi propizio! Come il figliol prodigo, liberami, o pietosissimo, da tutti i miei mali”.

La strofa che si canta al Gloria delle Lodi ricapitola quanto precede e stabilisce un parallelo tra le braccia spalancate del Padre e quello di Cristo distese sulla croce, facendo così un evidente riferimento pasquale che si personalizza in ciascuno di noi col sacramento del battesimo: “Padre buono, mi sono allontanato da te: non abbandonarmi, non dichiararmi inadatto per il tuo Regno. Il nemico maligno mi ha spogliato, togliendomi la mia ricchezza; ho dissipato da dissoluto le grazie della mia anima, ma ora mi sono risollevato, e tornando a te grido: trattami come uno dei tuoi mercenari, tu che per me hai disteso sulla croce le tue mani immacolate per strapparmi alla belva tremenda, e rivestimi della prima veste, perché tu solo sei pieno di misericordia”.

La moderna esegesi, riprendendo alcuni temi patristici, ha sottolineato come non sia il solo figlio ad essere prodigo; ciascuno dei tre protagonisti della parabola, il padre e i due figli, è a suo modo prodigo: il padre lo è sicuramente di amore, di perdono, di misericordia, il figlio minore è prodigo di peccato e di pentimento, ma anche il figlio maggiore è sicuramente prodigo di orgoglio, cui però, invece del pentimento, accompagna il risentimento e l’invidia. Egli non riesce ad accettare come colui che ha dissipato il patrimonio familiare sia riaccolto in casa, gli sia ridata la dignità di figlio (l’anello), la libertà (i calzari, dato che gli schiavi andavano scalzi), e che addirittura si festeggi. Se il vitello grasso ha una valenza eucaristica, il capretto richiesto dal figlio maggiore, nella sua memoria dell’agnello pasquale, può essere il segno di una perdita di consapevolezza: l’eucaristia è un dono più che un diritto. La rigida logica del merito che il figlio maggiore rivendica, basata sul rigoroso rispetto di diritti e doveri e il conseguente disprezzo per trasgressori e trasgressioni, è diametralmente opposta alla logica del padre, che è la logica dell’amore, dove giustizia e diritto sono positivi solo se si compiono nell’amore, nel dono, nella comunione.

Dal Sermone 115 del beato Agostino d’Ippona


Settimana del Fariseo e del Pubblicano

 

Dal Sermone 115 del beato Agostino d’Ippona

 

Poiché la fede non è dei superbi, ma degli umili, “disse per alcuni che credevano di essere giusti e disprezzavano gli altri, questa parabola. Due uomini andarono al tempio a pregare; un fariseo e un pubblicano. Il fariseo diceva: Ti ringrazio, Dio, che non sono come tutti gli altri uomini” (Lc 18, 9s). Avesse detto almeno: come molti uomini. Che cosa dice questo “tutti gli altri”, se non tutti, eccetto lui? Io, afferma, sono giusto; gli altri son tutti peccatori. “Non sono come tutti gli altri uomini, ingiusti, ladri, adulteri”. Ed eccoti dalla vicinanza del pubblicano un motivo di orgogliosa esaltazione. Dice, infatti: “Come questo pubblicano”. Io sono solo, dice; questo è uno come tutti gli altri. Non sono come costui, per la mia giustizia, per cui non posso essere un cattivo, io. “Digiuno due volte la settimana, pago le decime su tutte le mie cose”. Cerca nelle sue parole, che cosa abbia chiesto. Non trovi niente. Andò per pregare; ma non pregò Dio, lodò sé stesso. Non gli bastò non pregare, lodò sé stesso; e poi insultò quello che pregava davvero. “Il pubblicano se ne stava invece lontano”; ma si avvicinava a Dio. Il suo rimorso lo allontanava, ma la pietà lo avvicinava. “Il pubblicano se ne stava lontano; ma il Signore lo aspettava da vicino. Il Signore sta in alto”, ma guarda gli umili. Gli alti, come il fariseo, li guarda da lontano; li guarda da lontano, ma non li perdona. Senti meglio l’umiltà del pubblicano. Non gli basta di tenersi lontano; “neanche alzava gli occhi al cielo”. Per essere guardato, non guardava. Non osava alzare gli occhi; il rimorso lo abbassava, la speranza lo sollevava. Senti ancora: “Si percoteva il petto”. Voleva espiare il peccato, perciò il Signore lo perdonava: “Si percuoteva il petto, dicendo: Signore, abbi compassione di me peccatore”. Questa è preghiera. Che meraviglia che Dio lo perdoni, quando lui si riconosce peccatore? Hai sentito il contrasto tra il fariseo e il pubblicano, senti ora la sentenza; hai sentito il superbo accusatore, il reo umile, eccoti il giudice. “In verità vi dico”. È la Verità, Dio, il Giudice che parla. “In verità vi dico, quel pubblicano uscì dal tempio giustificato a differenza di quel fariseo”. Dicci, Signore, il perché. Chiedi il perché? Eccotelo. “Perché chi si esalta, sarà umiliato, e chi si umilia, sarà esaltato”. Hai sentito la sentenza, guardati dal motivo; hai sentito la sentenza, guardati dalla superbia.

 

Dal Contra Celsum di Origine


Settimana del Fariseo e del Pubblicano

 

Dal Contra Celsum di Origine

3, 64

 

Dato che egli aggiunge: «Perché dunque questa preferenza accordata ai peccatori?» e cita opinioni analoghe, per rispondere dirò: il peccatore non è assolutamente preferito a chi non ha peccato. Capita che un peccatore che ha preso coscienza della sua colpa, e per tal motivo progredisce sulla via della conversione umiliandosi per i suoi peccati, venga preferito ad un altro che si riguarda come meno peccatore, e che, lungi dal credersi peccatore, si gonfia di orgoglio per certe qualità superiori che crede di possedere. È quel che rivela a chi legge lealmente l’Evangelo la parabola del pubblicano che dice: “Abbi pietà di me peccatore”, mentre il fariseo, con sufficienza perversa, si gloriava dicendo: “Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e neppure come quel pubblicano”. Gesù, infatti, conclude il suo discorso sui due uomini: “Il pubblicano scese a casa sua giustificato, al contrario dell’altro, poiché chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18, 13; 1, 14).

            Siamo ben lontani, perciò, «dal bestemmiare Dio e dal mentire», insegnando ad ogni uomo, chiunque esso sia, a prendere coscienza della propria umana piccolezza in rapporto alla grandezza di Dio, e a chiedere incessantemente ciò che manca alla nostra natura a Colui che solo può colmare le nostre insufficienze.

 

Dalle Omelie di san Basilio il grande




Settimana del Fariseo e del Pubblicano

 

Dalle Omelie di san Basilio il grande

Hom. «Attende tibi ipsi», 5

 

Mi verrebbe meno il giorno, se volessi elencare gli studi di quelli che s’interessano dell’Evangelo e quanto esso si adatti a tutti. Pensa a te stesso; sii sobrio, ascolta i consigli, controlla il presente, prevedi il futuro. Non trascurare, per indolenza, il presente e non t’illudere d’aver già in mano cose future, che ancora non sono e forse non si avvereranno mai. Non è questa la malattia propria dei giovani, che per leggerezza di mente credono di avere già le cose che sperano? Infatti in un momento di riposo o nella pace della notte costruiscono delle immagini di cose inesistenti e si ripromettono splendore di vita, illustri matrimoni, figli fortunati, lunga vecchiaia, tributi di onore. Poi, incapaci come sono di fermarsi a una qualsiasi speranza si lasciano trasportare dall’ardore del loro animo alle cose più grandi della terra. Comprano case belle e grandi e le riempiono di preziosa e vaga suppellettile; e aggiungono tutto quanto è fuori del mondo. Aggiungono greggi, folle di servi, magistrature civili, principati, comandi militari, guerre, trofei, regno. Passate queste cose in rassegna, per eccesso di stoltezza, credono presenti queste cose sperate e se le vedono già innanzi ai piedi. È la malattia dell’ignavo, veder nella veglia gli oggetti d’un sogno. Per reprimere questa sfrenatezza di mente, la Scrittura enunzia il sapiente precetto: “Pensa a te stesso” e non promette mai ciò che non esiste e dirige le cose presenti alla tua utilità. Penso che il legislatore si sia servito di questo monito, per eliminare un tal vizio dalle abitudini degli uomini. Perché a noi è più facile curiosare nelle cose altrui, che pesare le proprie cose. Perciò finiscila di andare a scovare nei mali altrui, guardati dal frugare nelle malattie altrui, volgi gli occhi e scruta te stesso. Non son pochi coloro che, secondo la parola del Signore (Mt 7, 3), vedono la pagliuzza nell’occhio del fratello e non s’accorgono della trave che è nel loro occhio. Non cessar mai di esaminarti se la tua vita si attiene al precetto; ciò che è intorno a te, non lo guardare, perché non ti si presenti l’occasione di imitare quel fariseo, che giustificava se stesso e disprezzava il pubblicano (Lc 18, 11). Chiediti sempre se hai peccato in pensieri, se la lingua sia stata troppo facile, se la mano sia stata temeraria. E se troverai che hai peccato molto (e lo troverai, perché sei uomo), usa le parole del pubblicano: “Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18, 13). Bada a te stesso. Questa parola ti starà bene nel felice successo, quando la tua nave è portata dalla corrente, e ti gioverà nei momenti difficili, in modo che non diventi orgoglioso nel fasto e non disperi nell’avversità. Ti senti grande perché sei ricco? T’inorgoglisci per la nobiltà dei tuoi antenati? Ti glorii della tua nazione, bellezza, onori ricevuti? Pensa a te stesso: Sei mortale; vieni dalla terra e tornerai nella terra (Gn 3, 19)

 

Dal Discorso 136 del beato Agostino d’Ippona


Settimana del Fariseo e del Pubblicano

 

Dal Discorso 136 del beato Agostino d’Ippona

 

Qual è la speranza degli uomini, se Dio non ascolta i peccatori? Non salirono in due al tempio a pregare, l’uno Fariseo e l’altro Pubblicano? E non diceva il Fariseo: Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ingiusti, ladri, come questo Pubblicano? Nulla aveva da implorare, era salito come uno ben soddisfatto, dava in rutti da sazietà. Non disse: Soccorrimi; non disse: Abbi pietà di me, poiché mio padre e mia madre mi hanno abbandonato; non disse: Sii il mio aiuto, non lasciarmi. Ma il Pubblicano si teneva a distanza, e proprio costui si rendeva vicino al Dio del tempio. Era infatti a distanza, e non osava alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: Signore, abbi pietà di me peccatore. Abbiamo avvertito il contrasto: Cristo pronunzia la sentenza. Ecco che parla, ascoltiamo: In verità - egli afferma - quel Pubblicano si allontanò dal tempio giustificato, a differenza di quel Fariseo. È certo che Dio non ascolta i peccatori. Quando si batteva il petto puniva i suoi peccati, si rendeva somigliante a Dio giudice. Dio odia infatti i peccati; se anche tu li avrai in odio ti avvicinerai a immedesimarti con Dio e a potergli dire: Distogli il tuo volto dai miei peccati. Distogli il tuo volto: ma da che cosa? Dai miei peccati; non distogliere da me il tuo volto. Che vuol dire, invece, il tuo volto dai miei peccati? Non vederli, non li notare così che tu li possa perdonare. Quindi c’è speranza per il peccatore; preghi Dio, non disperi, si batta il petto, espii in sé stesso con la penitenza, per ovviare a che egli proceda a punire con la condanna. Chi si umilia va verso l’Eccelso.

Ma quanto al perché abbia affermato: Quel Pubblicano si allontanò dal tempio giustificato a differenza di quel Fariseo, il Signore nostro immediatamente su che si fondava, non te lo nascose, quasi gli dicessimo: Com’è questo, asserì infatti: Poiché chi si esalta - disse - sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato. Hai udito il perché: se hai udito ed hai compreso, fa’ ciò che hai ascoltato, umiliati, prega Dio, di’ al Signore Dio tuo che sei peccatore; cosa che egli vede, quantunque tu non lo dica. Tu dici forse: Se lo vede prima che io parli, che bisogno c’è che io dica? Uomo, hai dimenticato che è cosa buona confessare al Signore ? Hai dimenticato: Celebrate il Signore perché è buono? Anche se non confessi ad un giudice uomo perché è infido, confessa al Signore perché è buono; confessa, gemi, prova pentimento, battiti il petto. Dio si compiace di un tale spettacolo: la vista di un peccatore che accusa il suo peccato. Da parte tua riconosci ed egli non ne fa conto; tu espia ed egli ti risparmia. Ma perché egli ti perdoni non devi indulgere con i tuoi peccati. Rispondi: Non risparmi, cancelli la mia malizia.

Se Dio non avesse ascoltato i peccatori, quel Pubblicano sarebbe uscito mortificato dal tempio. Si allontanò, invece, giustificato, a differenza di quel Fariseo. Ma com’è che costui si allontanò giustificato? Perché mise in pratica ciò che dice la Scrittura: Ho riconosciuto il mio peccato e non ho nascosto la mia perversità. Ho detto: Confesserò la mia colpa al mio Signore e tu hai rimesso la malizia del mio cuore. È certo allora che Dio non ascolta i peccatori? Credete dunque quello che credono quanti hanno già ricevuto la luce: Dio ascolta i peccatori. Veramente può turbare molti che non intendono ciò che afferma il Signore che è venuto in questo mondo per il giudizio affinché i ciechi vedano e coloro che vedono diventino ciechi. Cristo è venuto infatti come Salvatore. In un certo passo afferma pure: Il Figlio dell’uomo non è venuto infatti per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Di conseguenza, se è venuto per questo, per salvare, trova pieno consenso l’affermazione che sia venuto perché quelli che non vedono vedano. Quello invece che resiste al buon senso è il perché quelli che vedono diventino ciechi. Se giungiamo a comprendere, non è impenetrabile, è semplice. Ma perché intendiate come sia stato detto in tutta verità, tornate a guardare proprio quei due che pregavano nel tempio. Il Fariseo vedeva, il Pubblicano era cieco. Che significa: “vedeva”? Si riteneva uno con gli occhi aperti, si vantava della sua vista, cioè della giustizia. Quello, invece, era cieco perché confessava i suoi peccati. Quello vantò i suoi meriti, costui confessò i suoi peccati. Il Pubblicano si allontanò giustificato, a differenza di quel Fariseo, perché Cristo è venuto nel mondo affinché i ciechi vedano e quelli che vedono diventino ciechi. Pertanto, avendo detto i Farisei che allora ascoltavano il suo dire: Siamo forse ciechi anche noi? senza dubbio erano simili a colui che era salito al tempio e diceva a Dio: Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini: ingiusti, adulteri, ladri, quasi a dire: “Ti ringrazio perché non sono cieco, come gli altri uomini del genere di questo Pubblicano, ma vedo”. Che dissero quelli? Siamo forse ciechi anche noi? E il Signore a loro: Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma per il fatto che ora dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane. Non disse: “entra il peccato”, ma: rimane. C’era infatti. Poiché non confessate, non viene tolto, ma rimane.

 

martedì 26 febbraio 2013

Dall’Omelia II di san Giovanni Crisostomo




Settimana del Fariseo e del Pubblicano

 

Dall’Omelia II di san Giovanni Crisostomo

La penitenza, Om. 2, 4-5

 

Ho descritto molte forme di penitenza per renderti facile l’accesso alla salvezza attraverso la varietà delle vie. Qual è dunque la terza via? L’umiltà: sii umile e avrai sciolto i legami del peccato. Anche di questo ci porta una prova la Scrittura nel racconto del pubblicano e del fariseo. Salirono al tempio, dice, un fariseo e un pubblicano per pregare e il fariseo cominciò a elencare le sue virtù, Io non sono, disse, peccatore come gli altri, né come questo pubblicano. Misera e infelice anima: hai condannato tutto il mondo, perché hai contristato anche il tuo prossimo? Non ti bastava tutto il mondo senza voler condannare anche quel pubblicano?

E che fece il pubblicano? Adorò a capo chino con gli occhi fissi in terra, dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore», (Lc 18, 13) e poiché si mostrò umile fu giustificato.

Quando dunque il fariseo uscì dal tempio aveva perduto la sua giustizia, il pubblicano invece l’aveva ottenuta: le sue parole furono più forti delle opere. Quello, nonostante le sue opere, perse la giustizia; questo invece con parole di umiltà la conquistò, benché la sua non fosse propriamente umiltà. Infatti è umiltà quando uno che è grande si fa piccolo; l’atteggiamento del pubblicano non fu umiltà, ma verità: erano vere quelle parole, perché egli era peccatore. Chi peggiore di un pubblicano? Cercava il suo vantaggio nelle disgrazie del prossimo, approfittava delle fatiche altrui e senza rispetto per le loro pene giungeva a procurarsi il guadagno. È dunque grandissimo il peccato del pubblicano. Perciò se il pubblicano, pur essendo peccatore, dando prova di umiltà ha ricevuto così gran dono, quanto maggiore potrà riceverlo chi sia virtuoso e umile? Se riconosci i tuoi peccati e sei umile, diventi giusto.

lunedì 25 febbraio 2013

Aprimi le porte della penitenza - Покаяния отверзи ми двери



Покаяния отверзи ми двери


Aprimi le porte della penitenza, o tu che dai la vita,

poiché il mio spirito si solleva presto

a pregare rivolto al tuo tempio,

portando il tempio del mio corpo contaminato;

ma per la tua comprensione purificami

con l’amabile benevolenza della tua grazia.


Guidami sui sentieri della salvezza, Madre di Dio,

poiché ho profanato la mia anima con peccati vergognosi

ed ho sprecato la mia vita nell’indolenza.

Ma per la tua intercessione liberami da ogni impurità.


Quando penso alle numerose cattive azioni da me compiute,

disgraziato che sono, tremo al pensiero del tremendo giorno del giudizio.

Ma confidando nella tua benevolenza amorevole, come David ti grido:

“Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua grande misericordia!”

 
 
Canto Znamenny del XVI sec., Coro del Monastero del Misericordiosissimo Salvatore in Yekaterinburg
 
 
 
"Покаяния отверзи ми..." Хор сестер монастыря г.Ровно


Dai Moralia in Iob di san Gregorio il Dialogo



Settimana del Fariseo e del Pubblicano

 

Dai Moralia in Iob di san Gregorio il Dialogo, papa di Roma antica

 

Con quale attitudine il fariseo, che saliva al Tempio per farvi la sua preghiera, e aveva fortificato la cittadella della sua anima, si disponeva a digiunare due volte la settimana e pagare le decime di quanto possedeva. Dicendo «O Dio, ti ringrazio», è ben chiaro che aveva messo in atto tutte le precauzioni immaginabili per premunirsi. Ma lascia una breccia aperta ed esposta al suo nemico aggiungendo: «Che non sono come questo pubblicano». Così, con la vanità, ha concesso al suo nemico di poter entrare nella città del suo cuore, che purtuttavia egli aveva chiuso con i chiavistelli dei suoi digiuni e delle sue elemosine.

Tutte le altre precauzioni sono dunque inutili, quando rimane in noi qualche apertura attraverso la quale il nemico possa entrare... Questo fariseo aveva vinto la gola con l’astinenza; aveva superato l’avarizia con la generosità... Ma quanti sforzi in vista di questa vittoria sono stati annientati da un solo vizio? dalla breccia di una sola colpa?

Per questo, bisogna non soltanto pensare a praticare il bene, ma anche vegliare con cura sui nostri pensieri, per tenerli puri nelle nostre opere buone. Perché se sono fonte di vanità o di superbia nel nostro cuore, combattiamo allora soltanto per vana gloria, e non per la gloria del nostro Creatore.

 

 

Dalle Lettere di Barsanufio e Giovanni di Gaza. Lettera 92


Dalle Lettere di Barsanufio e Giovanni di Gaza

Lettera 92. Ad Andrea.

Barsanuphe et Jean de Gaza,Correspondance. Solesme,1972,8586.

 

Fratello desideratissimo, tu mi scrivi riguardo a una faccenda superiore alle tue forze e mi chiedi di comandarti una cosa che tu non puoi portare.

Mi dici, infatti, di prescriverti una regola come a un novizio che non ha ancora preso l’abito. E la regola del novizio è questa: vivere in molta umiltà, senza far conto di sé stesso in nulla, senza dire: Che cosa è questo? oppure: Perché questo? ma restando in molta obbedienza e sottomissione, senza far confronti fra sé e altri, senza dire: Il tale è onorato, perché io non lo sono? Egli è agevolato in tutto e perché io no? Disprezzato in tutto, egli non si adira.

Queste sono le opere del novizio vero che vuole veramente essere salvo. E queste cose è difficile per te sopportarle, sia per la malattia del corpo, sia perché sei ormai giunto alla vecchiaia. Tu hai chiesto di portare qualcosa di pesante, e io invece ti imporrò, non per costrizione, ma per consiglio, qualcosa di più leggero.

Infatti, attraverso la pazienza nelle tribolazioni noi acquistiamo le nostre anime. E non si diventa compartecipi delle sofferenze di Cristo se non per mezzo della sopportazione nelle tribolazioni. Tienti saldo, rendendo grazie in tutto, poiché questo intercede per la nostra impotenza davanti a Dio.

La tua regola è quella di startene seduto nella tua cella, attento ai tuoi pensieri, con timore di Dio, domandandoti: Come andrò incontro a Dio? Come ho trascorso il tempo che è passato? Mi convertirò almeno ora che è vicino il mio esodo, e sopporterò il prossimo e le afflizioni che mi vengono da lui e le prove, finché il Signore faccia con me misericordia. Allora egli mi porterà ad una pacatezza stabile, e caccerà da me l’invidia, questo frutto del diavolo.

Trascorri dunque i tuoi pochi giorni, esaminando i tuoi pensieri e contraddicendo a quelli che ti portano turbamento. E la pace di Dio sarà con te.

 

domenica 24 febbraio 2013

Domenica del Fariseo e del Pubblicano di Roberto Pagani



Domenica del Fariseo e del Pubblicano

di Roberto Pagani

 

Proseguendo il cammino di introduzione alla Grande Quaresima, la domenica successiva a quella di Zaccheo prende il nome di Domenica del Fariseo e del Pubblicano. La parabola raccontata da Luca (Lc 18, 9-14) ci pone davanti ad una seconda dimensione da acquisire affinché il nostro cammino di conversione sia fruttuoso e ci conduca a celebrare la Pasqua di Risurrezione nella nostra vita: la dimensione dell’umiltà.

Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.

Abbiamo due persone. Da un lato il fariseo, un membro di quella comunità religiosa osservante contro cui Gesù si è frequentemente scontrato, nonostante fosse la corrente più spirituale del Giudaismo. Dall’altro lato un pubblicano, dal latino publicanus, esattore di denaro pubblico: occupazione alquanto disprezzata nell’antichità, ancora di più in quella sperduta provincia dell’impero romano nella quale le tasse andavano a finire nelle casse dell’odiato invasore, opportunamente alleggerite della quota di spettanza, più o meno lecitamente convenuta, allo stesso esattore. Gesù li paragona ponendoli allo stesso livello: paragone alquanto sorprendente, perché come esempio da seguire Gesù presenta un individuo considerato spregevole e sceglie il modello da evitare tra i membri di uno dei movimenti religiosi più vivaci del momento.

Con questa domenica inizia ad essere utilizzato il Triodion Katanyktikon (della contrizione, del pentimento), il libro liturgico proprio del periodo quaresimale, le cui specifiche preghiere si vanno ad aggiungere a quelle dell’ufficio domenicale che celebra settimanalmente la risurrezione di Cristo dai morti.

La Quaresima, prima ancora delle sue pratiche esteriori, inizia con una preghiera per ottenere l’umiltà, che è l’inizio del vero pentimento, che è prima di tutto un ritorno all’ordine autentico delle cose, il ristabilimento della giusta prospettiva. Esso è dunque radicato nell’umiltà. Che ne è frutto e compimento. La cultura della nostra società infonde in noi costantemente il sentimento dell’orgoglio, dell’auto-glorificazione e dell’auto-giustificazione, caratteristiche che appaiono per lo più come virtù, soprattutto in ambito lavorativo, ma non solo. Ne siamo così prigionieri che ascoltando la parabola lucana non siamo nemmeno sfiorati dal dubbio che gran parte della nostra vita sia assorbita da queste dimensioni così poco evangeliche. Tutto questo si fonda sul presupposto che l’uomo è capace di realizzare ogni cosa da se stesso, perfino la propria salvezza. Siamo disposti ad accettare l’umiltà solo come ammissione della nostra ignoranza o incompetenza su un determinato argomento. Ma allora cos’è l’umiltà? Non possiamo che rispondere partendo da Dio. Dio stesso è umile! La nostra mentalità umana tende ad opporre gloria ed umiltà. Dio è umile perché è perfetto, la sua umiltà è la sua gloria, sorgente di ogni vera bellezza, perfezione e bontà. Chiunque si avvicina a Dio e lo conosce, partecipa immediatamente della sua umiltà ed è rivestito della sua bellezza. Questo è avvenuto per Maria, la Madre di Dio: la sua umiltà ha fatto di lei la gloria di tutta la creazione e la più grande rivelazione della bellezza sulla terra. Questo vale per ciascun santo, e quindi anche per ciascuno di noi nei rari momenti dei nostri contatti con Dio. Si diventa umili contemplando Cristo, l’umiltà divina incarnata, colui nel quale Dio ha rivelato una volta per tutte la sua gloria come umiltà e la sua umiltà come gloria. L’umiltà si impara contemplando Cristo che dice: “imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 29), si impara valutando ogni cosa secondo Cristo, riferendo tutto a lui. Perché senza Cristo la vera umiltà è impossibile: così per il fariseo persino la religione diventa orgoglio delle realizzazioni umane. Questo continuo riferimento a Gesù umile, come vedremo, è ampiamente sviluppato nell’ufficiatura, affinché il fedele possa radicare il proprio essere sul fondamento che è Cristo, e non su un falso moralismo.





Il senso della parabola non è solo una lezione di morale: come Dostojevskij ha raccontato nel suo “I fratelli Karamazov”, si tratta del grande conflitto che Dio e il diavolo combattono nel e per il cuore dell’uomo, senso di tutta la storia dell’umanità. Si tratta di due tipi di peccatori, opposti secondo l’intimità del loro cuore, di due tipi di atteggiamenti e di comportamenti spirituali, sia nei riguardi di Dio che degli altri uomini.

Innanzitutto entrambi salgono al tempio, si separano cioè dal mondo, entrano in uno spazio e in un tempo nel quale possono fermarsi, guardarsi dentro, e rivolgersi al loro Signore.

Il fariseo si presenta “in piedi”, che si potrebbe anche intendere “a testa alta”, pregando come qualsiasi altro pio israelita, e tra le righe possiamo intravedere anche una componente di orgoglio nel fatto che questo suo stare ritto lo poneva in qualche modo in posizione di essere notato da altri. Pregava per essere visto, lodato, celebrato, riconosciuto, quasi che la sua preghiera fosse più rivolta a se stesso che a Dio, congratulandosi a se stesso per le sue pratiche devozionali. Usava il ringraziamento a Dio per esaltare se stesso. Ringraziava Dio per non essere come gli altri uomini, che con ogni probabilità disprezza e condanna, per essere onesto, per non aver mai fatto male a nessuno, per essere andato in chiesa a tutte le feste comandate, e così via.

Anche il pubblicano sceglie la solitudine, si ferma in fondo, col capo chino, in un atteggiamento di contrizione che è ben diverso dalla superbia arrogante del fariseo. Anch’egli si rivolge a Dio: non per vantarsi, ma per implorare misericordia: confessa la sua indegnità interiore. Sia stato un buon padre di famiglia o un buon amico, non ci è dato sapere: sappiamo solo che si sentiva davanti allo sguardo di Dio, e che Dio lo vedeva. Questi due tipi fondamentali dello spirito umano, l’umile e il superbo, dimostrano il loro vero valore: lo spogliamento, la povertà di spirito che introduce alle ricchezze del regno opposto all’arroganza egoista, manifestata con il complesso della superiorità morale. L’orgoglio autosufficiente è un luogo privilegiato per il principe di questo mondo. Il testo greco ci suggerisce che il pubblicano non si sentiva un peccatore, ma il peccatore, il peccatore per eccellenza. Non ha null’altro in cui confidare se non la misericordia di Dio. Non cerca aiuto da nessun altro, se non da Dio. Sa benissimo che gli altri uomini, farisei di ogni genere in testa, non lo degnano nemmeno di uno sguardo, ma crede fermamente nella misericordia di Dio. Il cuore umiliato ha il sopravvento sul trionfo del diritto: la contrizione sarà esaltata, mentre la soddisfazione canonica sarà condannata.

L’ufficiatura, per la verità, non è molto lunga, ma l’essenzialità nella liturgia è segno di una intensità spirituale impressionante: i temi della parabola evangelica diventano una opportunità che ci viene offerta per un arricchimento spirituale in grado di farci amare il cammino della nostra conversione. È caratteristico per la maggior parte degli inni propri della Quaresima il rimandare a me, a noi che abbiamo peccato, al soggetto liturgico.

Così al Lucernario l’invocazione alla misericordia di Dio viene da subito accostata al digiuno, anche se questa inizierà qualche settimana dopo: “Fratelli, non preghiamo come il fariseo, perché chi si esalta sarà umiliato, (ma) umiliamoci dinanzi a Dio come il pubblicano, invocando con il digiuno: "O Dio, abbi pietà di noi, peccatori". "Il fariseo, dominato dalla vanagloria, e il pubblicano, piegato dal pentimento, si accostarono a te, unico Sovrano: ma l’uno, per essersi vantato, fu privato di ciò che aveva di bene; mentre all’altro, che neppure aveva aperto bocca, furono elargiti i doni (carismi)".”. Il peccato di superbia porta ad una umiliazione che colpisce la mancanza di carità e di discernimento; la superiorità morale, oggi così sbandierata, è una colpa spirituale ed intellettuale, diviene un peso opprimente. Invece l’umiliazione come riconoscimento di povertà e quindi di insufficienza, alleggerisce l’anima e la illumina. Una tale indigenza consente allo Spirito Santo di operare nell’uomo senza costringerlo. È la arricchente “mendicità” spirituale delle beatitudini: il povero di spirito non è il semplice, il limitato, lo stupido di turno, quanto piuttosto lo spirito dell’uomo che va elemosinando lo Spirito, e che si arricchisce al di là di ogni misura umana dell’energia pneumatica, i carismi appunto richiamati dalla strofa appena cantata. “Rendi degni della tua beatitudine coloro che per te si trovano mendicanti di spirito”, dice un tropario della nona ode del canone.

La strofa cantata dopo il Gloria, sempre al Lucernario, fa emergere un altro elemento in relazione al pentimento e alla contrizione, anch’esso riccamente sviluppato nel corso del cammino quaresimale: le lacrime. “Signore onnipotente, so quanto possono le lacrime: hanno fatto risalire Ezechia dalle porte della morte, hanno liberato la peccatrice dalle sue colpe inveterate; hanno reso il pubblicano più giusto del fariseo”.

“Anima mia, comprendi la differenza tra il fariseo e il pubblicano”, dice la strofa alla processione rogazionale. “Infatti lo stato di peccato rende i miei occhi accasciati sotto il peso delle mie iniquità. Non posso volgermi a guardare la volta del cielo: ma tu accoglimi nel pentimento come il pubblicano”, dice la strofa degli aposticha finali del Vespero.

Nel mattutino domenicale, dopo la proclamazione dell’Evangelo risurrezionale, si canta il consueto inno “Avendo contemplato la risurrezione di Cristo”, seguita dall’altrettanto consueto salmo 50, espressione del pentimento di Davide dopo l’accusa di peccato rivoltagli dal profeta Natan. Subito dopo cantiamo i tropari che ci accompagneranno fino alla Domenica delle Palme e che sono stati oggetto di bellissime e commoventi composizioni musicali che portano molto spesso alle lacrime i fedeli che le ascoltano in ginocchio, o, là dove c’è più spazio, prostrati completamente con la fronte a terra: “Aprimi le porte del pentimento, Datore di vita, perché fin dall’alba si leva il mio spirito, si volge in preghiera al tuo santo tempio, portando con sé il tempio contaminato del mio corpo. Ma nella tua compassione purificami, per la tenera benevolenza della tua misericordia”. Subito, consapevoli delle difficoltà del cammino, si chiede l’intercessione della Vergine: “Guidami sulla via della salvezza, o Madre di Dio, perché ho profanato la mia anima con peccati vergognosi e ho dissipato la mia vita nella negligenza. Ma per la tua intercessione liberami da ogni impurità”. Consapevoli del giudizio che ci attende, si fa ricorso all’unico rimedio possibile, l’amore di Dio: “Quando penso, me miserabile, a tutto il male che ho commesso, tremo per il terribile giorno del giudizio. Ma confidando nella tua tenera benevolenza, come Davide ti grido: abbi pietà di me o Dio, secondo la tua grande misericordia”.

È interessante la relazione tra il “tuo tempio santo” e “il tempio contaminato del mio corpo”. L’uomo è uno spirito incarnato; se il primo tropario parla dell’impurità del corpo, il secondo, con l’intercessione alla Madre di Dio, parla dell’impurità dell’anima: è l’uomo tutto intero a peccare, anzi, come dicono i Padri, il corpo pecca solo perché lo spirito è debole e gli consente di peccare.

Nella prima ode del canone, opera di Giorgio (figura che può indicare un vescovo di Nicomedia del IX secolo o un monaco dell’XI), si ritorna al tema dell’umiltà e della superbia, dando subito la tonalità tropologica: “Cristo induce con le sue parabole a correggere la propria vita”. “Emula quanto ha di bello il pubblicano, e detesta la malizia farisaica”. “A te affido, o Sovrana, mente, volontà, speranze, corpo, anima e spirito”.

Nella terza ode siamo messi di fronte, senza giri di parole, alla nostra reale situazione: “L’umile è sollevato dal letame delle passioni, chiunque sia invece altero di cuore cade invece paurosamente dalla vetta delle virtù”. “La vanagloria devasta tesori di giustizia, mentre l’umiltà disperde il cumulo delle passioni”. Mitezza, umiltà, pianto e preghiera vengono indicati come via verso il perdono in un incoraggiamento fraterno: “Diamoci allo zelo, fedeli, agendo con mitezza, vivendo insieme con umiltà, nel gemito del cuore, nel pianto e nella preghiera, per ottenere il perdono da Dio”.

La quarta ode ci mette di fonte a Cristo: “Il Verbo ha reso l’umiltà una perfetta via di elevazione, umiliando se stesso sino ad assumere forma di servo. E chiunque imita questa umiltà, umiliandosi viene innalzato”. “L’umiltà guadagna la giustizia proprio con l’estrema indigenza di questa: anche noi possiamo acquisirla!”. “Il Salvatore e Sovrano, come mezzo per elevarci, ci ha indicato l’umiltà: egli infatti ha lavato con le proprie mani i piedi dei discepoli”.

La quinta ode ci può forse mettere a disagio: non dobbiamo credere che nel pubblicano tutto sia buono a priori e che nel fariseo tutto sia cattivo: “Sforziamoci di imitare le virtù del fariseo, e di emulare l’umiltà del pubblicano, ma detestando in entrambi ciò che è male: tanto la folle arroganza che la sozzura delle colpe”. La parabola non parla di perdizione o di salvezza, quanto piuttosto della posizione dell’uomo di fronte alla giustizia di Dio, che guarda più al cuore umano che non alla osservanza di una legge che preveda delle sanzioni automatiche. Per contro, esiste il rischio di una falsa umiltà, il piacere malsano dell’umiliazione che, per quanto poco frequente nella nostra società, è comunque un fenomeno molto noto agli asceti e, forse, anche a qualche psicologo. Per questo siamo invitati a essere ragionevoli, anche nell’esercizio delle virtù, per non pervertirle mediante l’esagerazione, e ci ricorda che, al di là di tutto, osservare la legge è cosa buona: del resto il pubblicano si riconosce peccatore per la propria colpa nei riguardi di una legge che ha comunque trasgredito. “La corsa della giustizia si è dimostrata vana per il fariseo, che l’ha compiuta unendovi la presunzione; il pubblicano, al contrario, si è preso l’umiltà come compagna della virtù che innalza”.

La sesta ode segnala il capovolgimento dei valori: né il peccato, né la sua remissione sono in funzione di fattori esterni, tanto meno dipendono dall’opinione pubblica: “Il fariseo viveva tra le virtù e il pubblicano tra le colpe. Ma il primo si sobbarcò quella folle umiliazione che viene dall’orgoglio, mentre l’altro fu esaltato mostrandosi di umile sentire”. Per non essere indotti in errore, siamo rimessi di fronte al Cristo umile: “Cerchiamo con zelo le vie del Salvatore Gesù e la sua umiltà, noi che desideriamo trovare la dimora infinita della gioia venendo ad abitare la terra dei viventi”.





A differenza dell’usuale, ci vengono offerti due kontàkia: se nel primo c’è la semplice riproposizione del tema dominante: “Fuggiamo il superbo parlare del fariseo, e impariamo l’elevatezza delle parole umili del pubblicano”, nel secondo ci viene mostrato il carattere sacramentale del pentimento: “Come il pubblicano, offriamo gemiti al Signore, e gettiamoci ai suoi piedi come peccatori davanti al Sovrano: egli vuole la salvezza di tutti gli uomini e concede la remissione a tutti quelli che si pentono, perché per noi si è incarnato, lui che è Dio, coeterno al Padre”. Il fondamento cristologico è garanzia contro ogni sentimentalismo emotivo.

La chiave di lettura della settima ode può essere considerata la scala di Giacobbe, figura sia della scala ascetica di Giovanni Climaco (gr: della scala) sulla quale i monaci salgono verso il regno mentre i diavoli cercano di farli piombare a terra, così come di Maria, scala “dalla quale è disceso il Dio incarnato per portare in alto a loro volta i mortali”. “Il pubblicano, sollevato agilmente dall’ala dell’umiltà, giunse vicino a Dio”. “Servendosi di umili modi come di una scala, il pubblicano fu sollevato alle altezze del cielo”. “L’ingannatore, quando insidia i giusti, li depreda con sentimenti di vanagloria, mentre lega i peccatori con i lacci della disperazione”.

L’ottava ode, quasi a rincuorarci, ci invita a riporre la nostra speranza in Dio e nella sua misericordi: “Dio ascoltò il gemito del pubblicano e, giustificandolo, mostrò a tutti che egli si lascia sempre piegare se gli chiediamo il perdono delle colpe con gemiti e lacrime”.

Nella nona ode, l’invito alla nostra conversione si fa, se possibile, più esplicito, ponendo il testo in prima persona, in modo da coinvolgere direttamente colui che prega: “Oppresso da un nugolo di colpe, ho superato il pubblicano per eccesso di malizia, e ho assunto per giunta la boria millantatrice del fariseo, rendendomi da ogni parte privo di qualsiasi bene. Signore, usami indulgenza”.

Nelle strofe delle Lodi, gli stessi innografi conducono il fedele a una sintesi personale: “Poiché hai appreso, anima, la differenza tra il pubblicano e il fariseo, detesta dell’uno le parole superbe, dell’altro emula la preghiera compunta”.

Non possiamo lasciare che questo invito alla sintesi personale rimanga inascoltato.

Sotto un certo punto di vista, questa è una parabola pericolosa: è facile condannare il fariseo per il suo atteggiamento, ponendoci così al suo stesso livello, come se avessimo il diritto di considerarci più giusti, come se, considerato le opere compiute, avessimo fatto quanto dovevamo fare. È tuttavia ancor più pericoloso porci sullo stesso piano del pubblicano: siamo capaci della stessa umiltà e dello stesso pentimento?

È un processo senza fine, perché l’uomo non può mai raggiungere la perfetta umiltà di Cristo, che spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, che si è abbassato fino alla tomba caricando su di sé tutti i peccati del mondo. Non per niente i santi sono sempre maggiormente consapevoli della loro indegnità e del loro peccato: essi sono convinti di essere i più grandi peccatori!

Noi dipendiamo sempre dalla misericordia di Dio. Non potremmo avvicinarlo nemmeno senza chiedere la sua misericordia. Chiunque la chiede non sarà mai respinto, è una preghiera di sicuro effetto. Per questo il Kyrie elèison è così insistentemente ripetuto nella Divina Liturgia e in qualsiasi ufficio della tradizione bizantina.

La famosissima preghiera di Gesù (Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore) altro non è se non un adattamento di questa preghiera: detta con un briciolo di fede, ci aprirà la via verso il perdono di Dio e per la venuta del suo regno nel nostro cuore. Se stessimo di fronte al trono di Dio chiedendo che ci sia dato quanto meritiamo, saremmo perduti irrimediabilmente. Solo la misericordia di Dio ci può salvare.

Una volta un peccatore disse al proprio padre spirituale: “Se fossi Dio, non perdonerei mai un uomo che ha peccato come ho peccato io”. L’altro rispose: “Per fortuna non sei Dio: la sua misericordia è più grande di qualsiasi cosa possiamo immaginare”.

Isacco il Siro scrisse nel sesto secolo: “Non dire mai che Dio è giusto. Se lo fosse, saresti all’inferno. Confida solo nella sua ingiustizia, che è misericordia, amore, perdono”.

Signore, abbi pietà di me, il peccatore. Amen.

 

sabato 23 febbraio 2013

Santa Scolastica di Norcia


Santa Scolastica di Norcia, sorella di san Benedetto (543)

10 (23) febbraio

 

Era la sorella gemella di san Benedetto, patriarca del monachesimo in Occidente (14 marzo), e  sua assidua collaboratrice nella vigna di Cristo. Vivevano in monasteri vicini, anche se si amavano profondamente, si incontravano solo una volta all’anno, e trascorrevano la giornata in preghiera e colloquio spirituale, per separarsi dopo aver condiviso un pasto frugale. Nel loro ultimo incontro nel 543, ottenne con un miracolo che il fratello e il monaco che lo aveva accompagnato rompessero la regola che imponeva loro di rientrare al monastero e restassero con lei a vegliare per tutta la notte. Tre giorni dopo, mentre Benedetto guardava fuori dalla finestra della cella, vide l’anima di sua sorella, sotto forma di una colomba che ascendeva al cielo.

 

 

Estratto da “Monachesimo benedettino femminile” a cura di Anna Maria Cànopi

- edito dall’Abbazia San Benedetto - Seregno (MI)

 

«Poté di più colei che amò di più»

Dialoghi, 11, 33

 

La sua sorella di nome Scolastica, consacrata al Signore onnipotente fin dalla più tenera età, soleva fargli visita una volta all’anno. L’uomo di Dio scendeva ad incontrarla in una dipendenza del monastero, non molto lontano dalla porta. Un giorno, dunque, come di consueto ella venne, e il suo venerabile fratello, accompagnato da alcuni discepoli, scese da lei. Trascorsero l’intera giornata nella lode divina e in colloqui spirituali, e quando ormai stava per calare l’oscurità della notte, presero cibo insieme. Sedevano ancora a mensa conversando di cose sante, e ormai s’era fatto tardi, quando la monaca sua sorella lo supplicò dicendo: «Ti prego, non lasciarmi questa notte; rimaniamo fino al mattino a parlare delle gioie della vita celeste». Ma egli le rispose: «Che dici mai, sorella? Non posso assolutamente trattenermi fuori dal monastero».

Il cielo era di uno splendido sereno: non vi si scorgeva neppure una nuvola.

Udito il rifiuto del fratello, la monaca pose sulla mensa le mani intrecciando le dita e reclinò il capo su di esse per invocare il Signore onnipotente. Quando rialzò la testa, si scatenarono tuoni e lampi così violenti e vi fu un tale scroscio di pioggia, che né il venerabile Benedetto, né i fratelli che erano con lui poterono metter piede fuori della casa in cui si trovavano. La vergine consacrata, reclinando il capo sulle mani, aveva sparso sulla mensa un tale fiume di lacrime da volgere in pioggia, con esse, il sereno del cielo. E la pioggia torrenziale non seguì di qualche tempo la sua preghiera, ma fu ad essa simultanea, a tal punto che mentre ancora la donna alzava il capo dalla tavola, già scoppiava il tuono; tutto avvenne nel medesimo istante; col sollevare del capo la pioggia incominciò a scrosciare.

L’uomo di Dio, vedendo che in mezzo a tali lampi, tuoni e tanta inondazione d’acqua non poteva affatto ritornare al monastero, cominciò a rammaricarsene e, rattristato, le disse:

«Dio onnipotente ti perdoni, sorella. Che hai fatto?». Ma ella rispose: «Vedi, io ti ho pregato, e tu non hai voluto ascoltarmi. Ho pregato il mio Signore, ed egli mi ha esaudita. Ora esci, se puoi; lasciami pure e torna al monastero».

Ma egli, non potendo uscire dal coperto, fu costretto a rimanere suo malgrado là dove non aveva voluto fermarsi di sua spontanea volontà.

Passarono così tutta la notte vegliando e saziandosi reciprocamente di sante conversazioni concernenti la vita dello spirito.

Per questo ti avevo detto che vi fu qualcosa che l’uomo di Dio, pur volendolo, non poté ottenere. Se infatti consideriamo la sua intenzione, appare in tutta evidenza il suo desiderio che il cielo si mantenesse sereno come quando era sceso dal suo monastero. Ma contrariamente a quanto desiderava, egli si trovò davanti a un miracolo operato per la potenza di Dio dal cuore ardente di una donna. E non c’è da meravigliarsi se in quell’occasione poté di più la sorella, che desiderava trattenersi più a lungo con lui. Secondo la parola di Giovanni, infatti, Dio è amore; per giustissimo giudizio, dunque, poté di più colei che amò di più (SAN GREGORIO MAGNO, Dialoghi, libro II, c. 33).



 

Il volto di santa Scolastica è per sempre scolpito da queste ultime parole del racconto di san Gregorio Magno: «... quia enim juxta Johannis vocem, Deus caritas est, justo valde judicio illa plus potuit, quae amplius amavit». Poté di più, presso Dio, colei che amò di più. Amore e preghiera e desiderio del Cielo costituiscono il fascino spirituale di questa donna che, secondo la tradizione, fu sorella gemella del grande patriarca dei monaci d’Occidente, Benedetto da Norcia.

«Consacrata a Dio onnipotente fin dall’infanzia», la troviamo - al tramonto della sua santa esistenza - in un monastero di sanctimoniales nelle vicinanze di Montecassino, all’ombra, quindi, del grande fratello di cui certamente osservano la Regola.

Null’altro sappiamo al di fuori di questo e di quanto san Gregorio Magno dice nel capitolo 34° del secondo libro dei Dialoghi, cioè che dopo tre giorni da quel prolungato incontro (c. 33), san Benedetto, stando alla finestra della sua cella, vide l’anima della sorella Scolastica, in forma di colomba, penetrare nelle altezze dei cieli.

L’esordio della vita e della vocazione di Scolastica lo si può, quindi, rintracciare seguendo le orme del fratello. Se veramente furono gemelli anche per nascita naturale, quale sarà stato il loro crescere insieme nell’ambito della famiglia, in quella cittadina umbra, dolcemente adagiata nel verde e tutta pervasa di religioso senso della vita?

Nata verso il 480, Scolastica è - come il fratello - fin dalla fanciullezza attratta verso la vita interamente consacrata a Dio. È probabile che la risoluta partenza di Benedetto l’abbia spinta a seguirlo in una forma di vita consona alla sua indole e al suo ideale cristiano. Perciò l’indistruttibile legame di sangue esistente tra lei e Benedetto divenne ancor più forte e definitivo nella comune vocazione che li rendeva uno in Cristo per l’eternità.

La nativa Norcia, dunque, la famiglia satura di fede e aperta ai progetti di Dio plasmarono l’animo di Scolastica, preparandola a quell’austera e insieme serena vita monastica che san Benedetto propone con la sua Regola ai più generosi seguaci di Cristo.

 



Per questo non ci sembra arbitrario fare in certo modo una rilettura della «santa Regola» attraverso la figura stessa di santa Scolastica quale traspare dall’unico episodio - unico, ma assai emblematico! - che della sua vita ci è rimasto.

Notiamo anzitutto la «consuetudine» dei due fratelli di vedersi una volta all’anno. Forse - e ci piace pensarlo - nel tempo pasquale per la gioia di incontrarsi nella luce del Signore risorto.

In quest’ultimo incontro, la sorella è quanto mai avida di stare con il fratello per parlare delle gioie del cielo; ma deve premere su Benedetto ligio alla norma che prevedeva il rientro in monastero prima di sera. Scolastica compie un prodigio in forza dell’intensità del suo amore e della sua preghiera. È un miracolo che si iscrive sotto il segno della gratuità, quasi come quello ottenuto da Maria alle nozze di Cana, per prolungare la gioia conviviale.

San Benedetto nella Regola per i monaci dà il primato alla ricerca di Dio - Si revera Deum quaerit... (Se veramente cercano Dio) (RB 5 8, 7), all’amore di Cristo - Nihil amori Christi praeponere (Nulla anteporre all’amore di Cristo) (RB 4, 2 1), e conseguentemente alla preghiera - Nihil Operi Dei praeponatur (Niente venga anteposto all’Opera di Dio) (RB 43, 3). Scolastica realizza pienamente la sua vita in questo senso. Giunta ormai in vista della meta, altro non desidera che Dio, la comunione con lui nella luce del suo Regno. È di questo che desidera ardentemente parlare con il santo fratello supplicandolo: «Ti prego... rimaniamo fino al mattino a parlare delle gioie della vita celeste».

Non stava forse anche scritto nella Regola: «Desiderare con tutto l’ardore dell’animo la vita eterna»? (RB 4, 46). Il forte afflato escatologico che caratterizza la spiritualità della Regola benedettina raggiunge in questa santa monaca la massima intensità. Traspare inoltre da questo unico episodio la consuetudine che Scolastica aveva alle sante veglie di meditazione e di preghiera. Proprio la preghiera, sgorgante da un cuore puro e ardente, è la forza con la quale la sorella vince… la sfida con il fratello, più attento all’austera disciplina. Ma anche questa, anche la preghiera di Scolastica è la realizzazione splendida e fedele di quanto Benedetto ha proposto nella sua Regola: «... non dobbiamo forse elevare con tutta umiltà e sincera devozione la nostra supplica a Dio, Signore dell’universo? E rendiamoci ben consapevoli che non saremo esauditi per le nostre molte parole, ma per la purezza del nostro cuore e la compunzione fino alle lacrime» (RB 20, 2-3). Con l’intensità della sua supplica e l’abbondanza delle sue lacrime, Scolastica ottiene dal Signore dell’universo un repentino mutamento di atmosfera. La pioggia scrosciante impedisce a Benedetto di ripartire e dona a Scolastica la gioia di rimanere più a lungo con lui per pregustare, nella contemplazione, le gioie del cielo.

Per essere pervenuta a tale intensità di vita interiore e di preghiera da poter essere esaudita dal Signore all’istante e oltre misura, la santa sorella del patriarca dei monaci aveva certamente compiuto un generoso e alacre cammino di fede, di umiltà, di povertà, di obbedienza, di carità, di essenzialità e di unificazione interiore. Aveva vissuto fedelmente la vocazione monastica secondo le direttive della Regola di Benedetto e «per ducatum evangelii» si era lasciata condurre là dove l’unica legge è quella dello Spirito che è amore e libertà.

Colpisce, nel racconto dei Dialoghi, la personalità di Scolastica. È veramente donna, con tutte le caratteristiche della femminilità: dolcezza e affettività, costanza e persino audacia nell’intento di ottenere quanto desidera; ma presenta anche una vena di simpatica ilarità, quando dal fiume di lacrime passa al radioso sorriso per il miracolo avvenuto: «Vedi - risponde al fratello rammaricato per il temporale - io ti ho pregato e tu non hai voluto ascoltarmi. Ho pregato il mio Signore, ed egli mi ha esaudita. Ora esci, se puoi; lasciami pure e torna al monastero». È una rivincita che non dispiace certamente a Benedetto, poiché proprio lui le aveva insegnato a rivolgersi - nelle difficoltà - a Colui cui tutto è possibile (cfr. Prologo 4, 4 1; RB 68, 5). Per coloro che servono il Signore con totale dedizione si realizza la promessa: «I miei occhi saranno su di voi, le mie orecchie si faranno attente al vostro grido, e ancor prima che mi invochiate, dirò: Eccomi!» (Prol. 18). Dio obbedisce prontamente a coloro che gli hanno totalmente sottomessa la loro propria volontà.

Scolastica ha consumato la sua esistenza in assoluta fedeltà alla vocazione che le era sbocciata nel cuore fin dall’infanzia; ora, giunta alla piena maturità, dimostra di avere conservato la stessa fede semplice e sicura in un animo fresco come polla d’acqua sorgiva.

In lei si incarna splendidamente la tensione escatologica che percorre tutta la Regola benedettina. Dire Scolastica è immergere lo sguardo nelle azzurre «misteriose profondità del cielo» dove la sua anima, sotto la candida sembianza della colomba, è penetrata, attratta dalla forza dell’Eterno Amore. Così la poté contemplare - con quali occhi? - il santo padre Benedetto mentre pregava affacciato alla finestra della sua cella, specola del cielo. L’itinerario tracciato dalla Regola si era concluso per Scolastica con il «miracolo» segno della «perfetta carità» raggiunta. Carità verso Dio ardentemente desiderato, e carità verso i fratelli teneramente amati (cfr. RB 72). La preghiera - subito esaudita dal Signore - appare come il puro ed efficace linguaggio dell’Amore.

Non è forse questo il messaggio essenziale che ci viene, ancora oggi, dalla santa sorella del patriarca dei monaci d’Occidente? Perché rammaricarci di non avere di lei altre notizie per poterne scrivere una biografia? Tutto quello che ella visse prima della «santa notte» del fraterno colloquio e dell’ora del suo altissimo «volo» non poteva che essere cammino decisamente orientato alla meta, così come tutto il lavoro della radice, dello stelo e delle foglie è ordinato allo sbocciare del fiore.

Scolastica, la prima monaca benedettina, è una docilissima «scolara» alla scuola del divino servizio nella quale apprende la sapienza del cuore a tal punto da... vincere il Maestro ed arrivare prima là dove insieme, correndo, erano diretti.

San Gregorio riferisce che Benedetto volle deporre il corpo della sorella «nel sepolcro che aveva preparato per sé» sulla santa montagna di Cassino. «E così, essendo sempre stati un solo spirito in Dio, neppure i loro corpi furono separati nella sepoltura» (Dialoghi, II, 34). La comunione dei Santi inizia sulla terra, nel tempo, e si compie in cielo, nell’eternità.

Chi sale oggi - dopo quindici secoli di storia -, alla maestosa abbazia di Montecassino, non può non essere preso da un fremito di commozione nel trovarsi davanti alla tomba dei Santi fratelli che stanno all’origine di una numerosa stirpe di cercatori di Dio.

 

(voce di A. Lentini, in Bibliotheca Sanctorum, XI, Roma 1968, col. 742-749; B. Fiore, Santa Scolastica, Montecassino 1981).

  

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