domenica 31 marzo 2013

P. Evdokimov - La nozione biblica della Luce nella tradizione orientale

 

LA NOZIONE BIBLICA DELLA LUCE

NELLA TRADIZIONE ORIENTALE

 

La Chiesa d'Oriente si è legata in modo del tutto particolare a questo tema mettendo insieme un tesoro immenso proprio riguardo al tema della luce interiore - vita illuminativa - dell'esperien­za mistica.


Tradizione liturgica

La seconda settimana della Grande Quare­sima porta il titolo, appunto, di settimana del­la Luce e, in consonanza con questo nome, la Chiesa prega il Signore di "far risplendere la santificazione". Così il tempo di quaresima, nel suo intento ascetico, ricco in modo del tutto particolare di insegnamento liturgico, si volge decisamente verso il fine stesso della vita che è indicato proprio in termini di luce. Il testo che si legge alla domenica, tratto dalla prima lettera di san Pietro, prepara già all'iniziazione:

 

E fu rivelato ai profeti che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo (1Pt 1,12).

 

Ma, come recita un'antica preghiera liturgica, davanti a questo mistero, gli angeli "colti dal più profondo stupore si velano il volto".

Nel corso della liturgia si ascolta l'invocazio­ne del celebrante: "fa' risplendere il tuo volto su quelli che si preparano alla santa illuminazione, rischiara il loro spirito". Questo testo rimanda ai primi tempi della Chiesa in cui il battesimo, si chiamava: "sacramento dell'illuminazione" e i nuovi venuti alla fede portavano il nome di "il­luminati".

 

Se un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signo­re (Ef 5, 8).

 

Nel Battesimo l'uomo si fa adottare dal Pa­dre, il Figlio prende il posto dell'uomo affinché l'uomo prenda il posto del Figlio e così venga il­luminato, introdotto cioè nella Luce della comu­nione del Padre e del Figlio, veramente "figlio della luce". Se la prima settimana di Quaresima è consacrata al "trionfo dell'ortodossia", la se­conda - detta della Luce - non fa che esplicitare l'essenza di questo trionfo e canta la grande esperienza ortodossa della Luce divina. Nelle celebrazioni si commemorano i Dottori della Chiesa che parlano di questa Luce: il più grande tra loro è il vescovo di Tessalonica, san Gregorio Palamas[1]. Il sinassario lo indica come "il lumino­so dottore della Grande Luce".


La dottrina di san Gregorio Palamas
 
Nel suo Dialogo Théophanès, san Gregorio si sofferma sulla parola di san Pietro (2Pt 1, 4) che è una parola fondamentale per la spiritualità ortodossa in quanto indica nel modo più esatto il fine ultimo di ogni vita cristiana: perché diven­taste per loro mezzo partecipi della natura divina, che la Tradizione preciserà nei termini di "parte­cipi della Luce divina". È uno dei testi più para­dossali contenuti nelle Scritture che, quando si cerca di attenuarne la portata paradossale, piom­ba in inestricabili difficoltà teologiche. San Gre­gorio lo percepisce in modo ammirabile quando fa notare:

 

La natura divina deve essere definita al contempo impartecipabile, totalmente inaccessibile e, in un certo senso, partecipabile. Bisogna che si affermino le due cose contemporaneamente e che si mantenga la loro antinomia come un criterio della pietà.

 

Il criterio non è logico ma il frutto dell'evi­denza che sgorga dal testo biblico colto nel con­testo dell'esperienza ecclesiale:

 

Dal momento che le due affermazioni sono vere si può affermare sia una cosa che l'altra; quanto al fatto che le affermazioni si contraddicano questo è il sen­tire di uomini completamente privi di intelligenza.

 

Difatti tutte le soluzioni logiche si rivelano false: essere partecipi della natura divina in un senso immediato equivarrebbe a diventare Dio, mentre l'essenza divina è radicalmente inacces­sibile: unirsi a una delle Ipostasi è impossibile poiché l'Incarnazione di Cristo rimane un caso unico; unirsi ad una potenza creata da Dio (an­che quando la si chiama grazia) non è certo la comunione con Dio stesso.

La questione non è per nulla astratta e sta in­vece al cuore della fede: la comunione tra Dio e l'uomo è reale oppure no? La Luce in quanto comunione è, in quanto tale, alla portata dello spirito umano? L'Ortodossia afferma la sempli­cità assoluta di Dio - all'interno della vita stessa di Dio non c'è alcuna separazione o divisione - ma riconosce la distinzione delle Tre Persone Divine e "la differenza dei modi d'esistenza" in sé e nel mondo. Dio è presente nel mondo per mezzo delle energie divine o della grazia. Queste energie non sono una particella dell'essenza di­vina ma, al contempo, non sono separate da es­sa. Dio vi è interamente presente e sono proprio queste energie ad essere conoscibili, accessibili e comunicabili all'uomo. Esse appartengono a tutte le Tre Persone e portano il nome di Sapien­za, Gloria, Vita... Sono proprio queste energie a riempire il Tempio dell'Antico Testamento, è in esse che Dio si mostrava ai Giusti, si tratta della luce increata del Tabor ed è la grazia che deifica i santi della Chiesa. Così la comunione più reale non è né sostanziale né ipostatica ma "energe­tica". Quando Cristo dice: noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14, 23) non è l'essenza di Dio che si sposta per venire verso l'uomo ma si tratta delle Tre Persone che attra­verso le energie si fanno presenti nell'uomo.

Queste precisazioni offerte dal "dottore lu­minoso" chiariscono il frutto infinitamente pre­zioso dell'Espiazione che rappresenta il grado sommo della comunione tra Dio e l'uomo di cui parla san Pietro. Questa via di elevazione costi­tuisce la stessa essenza della vita ecclesiale che l'Ortodossia, al punto più alto della sua teolo­gia, definisce come "théosis/divinizzazione" e, in termini mistici, indica come "illumuiazione": Dio discende apparendo nell'interiorità dell'uo­mo per illuminarvi tutto il suo essere. Si tratta del medesimo contenuto indicato dalla teologia biblica della Presenza o della Luce.


L'insegnamento patristico

L'insegnamento liturgico e patristico sin dagli inizi mette in rilievo il fatto che la Luce non si da alla sola comprensione né alla semplice con­templazione ma alla vita. Qui "la ragione non trova né parole né pensieri" (san Gregorio) e re­sta racchiusa nell'indicibile. In merito san Gre­gorio, commentando il testo di Platone secondo cui "lo stupore è l'inizio della sapienza", indica il solo atteggiamento corretto: "sperimentando la luce dentro di sé, l'intelligenza rimane stupita".

Pur non essendo né sensibile né intelligibile, nondimeno la luce penetra tutto intero l'uomo illuminandone tutte le sue facoltà, ma non si offre nella sua realtà di grazia se non allo stato mistico e alla vista interiore. Questo stato non è per nulla un'esaltazione repentina e passeggera e, pur essendo inesprimibile in quanto esperienza, rimane comunque uno stato di partecipazione abituale: "la semplicità primitiva della conoscen­za cristiana" (san Serafino[2]) al di sopra di ogni forma e di ogni concetto. La luce si erge come principio stesso dell'esistenza e, misticamente, essa è ciò che si vede e ciò attraverso cui si vede: rappresenta l'organo della comunione e la so­stanza della comunione.

Per opera della luce l'uno comincia ad esistere per l'altro, o ancora come dice san Simeone, essa è "il pane, la camera nuziale, lo sposo, l'amico, il fratello, il padre". Apparentata alle operazioni dello Spirito Santo, la luce è la venuta della parusia nell'anima che la trasforma in questa venuta. Se gli angeli sono le "seconde luci" (phosphoros-Lucifer) poiché riflettono Dio e la sostanza del mondo spirituale di cui si nutrono, "gli apo­stoli superano gli stessi angeli poiché illuminano le potenze celesti" (san Gregorio). La scienza mistica introduce sperimentalmente in questa grande verità: non si è "seconda luce" perché si riflette la Luce, ma la si riflette perché si è "si­mili" e quindi si viene come trasmutati in luce. La trasfigurazione di Cristo ha fatto sgorgare la luce increata del Tabor, infatti si tratta non del­la trasfigurazione del Signore ma degli apostoli: "Attraverso la trasmutazione dei loro sensi, gli apostoli passano dal regime della carne a quello dello Spirito" (san Gregorio) e, per questo, con­templano la luce eterna della divinità senza il ve­lo della kenosis. L'illuminato è colui che "è unito alla luce e, con la luce, vede in piena coscienza tutto ciò che rimane nascosto a quanti non hanno questa grazia" (san Gregorio).

Mosè scendendo dal Sinai è obbligato a copri­re con un velo il suo volto raggiante. La comunione con Dio, infatti, lo segna della sua stessa luminosità e, mutando le apparenze materiali, indica come il senso nascosto della parola - Voi siete la luce del mondo (Mt 5, 14) o Risplenda la vostra luce davanti agli uomini (Mt 5, 16) - non è per nulla allegorico:

 

Dio è luce e quanti sono resi da lui degni di vederlo, lo vedono come Luce; coloro che lo hanno ricevuto, lo hanno ricevuto come Luce... che illumina... e tra­sforma in luce coloro che illumina (san Simeone).

 

La preghiera di Prima dice così:

 

O Cristo, Luce vera, che illumina e santifica ogni uomo che viene nel mondo: la luce del Tuo volto risplenda su di noi perché nella sua luce possiamo vedere la Luce inaccessibile.

 

La Théotokos liturgicamente porta il nome di "Madre della Luce", e l'Apocalisse ci fa contem­plare l'immagine della donna vestita di sole. E san Giovanni dice: Saremo simili a lui perché lo vedre­mo così come egli è (1Gv 3, 2). E in quel giorno i giusti risplenderanno come scintille (Sap 3, 7).

Se l'ateismo non è altro che sordità spiritua­le esso allora è anche oscurantismo ostinato per cui si comprende come non è solo una metafora il modo di dire: "l'immagine di Dio si è oscurata nell'uomo". L'immagine velata, l'icona annerita rappresenta l'eclisse della presenza di Dio e l'al­lentamento dei legami della comunione con lui. Questo è l'aspetto più toccante nella parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte. Queste vergini sono in attesa della Storia e tengono in mano le lampade "ardenti di luce". Il commento liturgico della parabola sottoli­nea che non si tratta della verginità: infatti alle stolte la verginità non serve a nulla. San Giovan­ni Crisostomo fa notare il gioco significativo della parola greca eleos: olio, ma anche carità. Un'antica icona segue questa tradizione raffigu­rando le vergini che portano tra le mani il loro cuore: la luce è quindi quella della comunione. Solo la luminosità dell'essere umano, la sua aper­tura alla comunione è capace di forzare la porta del Banchetto e spiega il senso evangelico della violenza che esige la ricerca del Regno di Dio. Solo la luce conquista la Luce e ciò avviene in modo reciproco come dice il grande asceta San Diadoco: "il fuoco della grazia penetra nel cuore e lo trasforma in luce".

Da parte sua, san Giovanni Crisostomo, com­mentando le parole del Cantico dei cantici:

 

Forte come la morte è l'amore, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore (Ct 8, 6),

 

afferma questa verità assai sconvolgente secon­do cui Dio è presente nella stessa sostanza delle cose. Si tratta dello stesso gioco reciproco delle luci. In effetti, ogni amore umano sembra essere una risposta sempre inadeguata alla chiamata di Dio. Una capacità di presenza permette comun­que di rimanere nel raggio della chiamata: essere attento, infatti, dipende dall'uomo. Pur essen­do un essere senza più risorse, povero e nudo, nondimeno ha sempre qualcosa da dare. Questo perché l'Altro divino è implicato nella situazione dell'uomo. Cosicché, se l'atto emana dall'uomo, la sua fonte è ben più profonda. Il dono della vi­ta che viene da Dio diventa dono di sé attraverso un'esistenza donata agli altri. La presenza di Dio in quanto "terzo" presente in ogni comunione fa scattare il movimento verso questo dono e, alla fine, vi è lo scoccare della luce, con la venuta dell'amato.

 
L'ascensione dei santi
 
Presso i mistici l'elevazione dell'anima è indi­cata dall'acquietarsi di ogni movimento, persino la preghiera cessa e l'anima si ritrova a pregare "al di fuori della preghiera". Si tratta del gran­de silenzio che si crea nel momento in cui la lu­ce scende nel cuore facendone la sua dimora: è 1'illuminazione interiore che è il frutto dell'ap­profondimento ultimo della grazia battesimale nella sua forma di grande luce apparsa presso il Giordano. L'antica tradizione della preghiera continua fa parte della stessa esperienza. Il no­me di Gesù risuona incessantemente nell'anima e l'energia della presenza che, attraverso l'invo­cazione del nome si radica e si trasfonde nella persona che prega, tutto l'essere umano non fa che essere trasformato in questa presenza. L'"esicasmo"[3] viene definito quale metodo di silenzio e di interiorizzazione e si presenta come arte e scienza della luce. I "perfetti" attingono da questo insegnamento e "vengono istruiti nel­le realtà divine non solo attraverso la parola ma - misteriosamente - attraverso la luce della paro­la". Si tratta dello stato carismatico vissuto sotto il segno delle Spirito Santo che viene chiamato "portatore della Luce" e ancora "donatore della Luce". San Macario precisa: "La luce è illuminazione attraverso la potenza dello Spirito Santo". L'azione pneumatica si esprime sempre in termi­ni di luce. San Gregorio Palamas aggiunge che tra le diverse forme di manifestazione dell'energia divina - che è una sola e raccoglie l'azione delle Tre Persone - indubbiamente quella della luce è centrale.

Ma la regola ascetica combatte fortissima­mente contro ogni tentazione di visione ottica. La luce può materializzarsi, ma l'essenziale non è in questo, ma altrove e la sua visibilità non è che una fenomenologia possibile. Essere nella luce, infatti, significa essere in comunione e ve­dere dal di dentro le icone degli esseri e delle co­se. L'ascetica pone una costante attenzione alla purezza di cui parla il Vangelo di san Matteo:

 

La lucerna del corpo è l'occhio, se dunque il tuo oc­chio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce (Mt 6, 22).

 

Svuotarsi della propria oscurità per farsi inon­dare dalla luce è la grandiosa lotta che si perse­gue per tutta la durata della vita e che prepara l'inabitazione di Dio. In questo cammino il pa­ne amaro di ogni istante è la morte dell'uomo vecchio che è in noi. Vista dal basso della vita quotidiana si tratta di una tensione mai allentata, mentre, dal punto di vista dell'alto, è proprio la luce della Presenza.

L'occhio, quale lucerna del corpo, scopre la Comunione dei santi nel peccato; l'anima attraversa il Calvario e si eleva a quest'altra visione che la rende nuda di ogni giudizio: "Stendi sul peccato del tuo fratello il manto del tuo amore"; "la purezza del cuore consiste nell'amore verso i fratelli che cadono". La comunione si amplifi­ca! È come se l'uomo "cadesse in alto" per rag­giungere così il livello del cuore divino. L'anima è sempre più avvolta dalla Presenza. Nella cella segreta dell'uomo interiore risuona la voce: "Sei diventata bella avvicinandoti alla mia Luce". Nel cammino di santità si tratta di ben altra cosa che raccogliere informazioni su Dio: "La scienza diventa Luce". Ecco un testo sublime di san Simeone:

 

Spesso vedevo la Luce. Talvolta mi appariva nella mia stessa interiorità... o meglio non mi appariva che da lontano... Così Tu, Invisibile... presente in ogni cosa, Tu scomparivi e Tu mi apparivi di giorno e di notte. Lentamente tu dissipavi la tenebra che era dentro di me... Infine, avendomi fatto quello che Tu volevi, Tu ti rivelasti alla mia anima ormai lustra, venendo a me, ancora invisibile. E improvvisamente Tu apparisti come un Sole. Oh, ineffabile condiscen­denza divina.

 

L'anima trasformata in colomba di luce sale continuamente e ogni acquisizione non è che un punto di partenza, grazia su grazia. Il tempo sprofonda nell'eternità quando Dio viene nel­l'anima e l'anima emigra in Dio. Nel celebre dia­logo di san Serafino di Sarov con Motovilov, ab­biamo l'esatta descrizione di questa esperienza. Interrogato su quello che è lo stato di coloro che vivono nello Spirito, san Serafino così risponde al suo interlocutore:

 

- Amico di Dio, siamo entrambi nella pienezza, dello Spirito Santo. Perché non mi guardi?

- Non posso, Padre. Dei lampi brillano nei suoi oc­chi, il suo volto è diventato più luminoso del sole. Mi fanno male gli occhi.

- Non avere paura, amico di Dio; anche tu sei diven­tato luminoso come me. Anche tu adesso sei nella pienezza dello Spirito Santo, altrimenti non avresti potuto vedermi.

- A queste parole alzai gli occhi sul suo volto ed una paura ancora più forte si impadronì di me. Provate ad immaginarvi un uomo che vi parla mentre il suo volto è come in mezzo al sole di mezzogiorno. Riu­scite a vedere le labbra che si muovono e l'espressio­ne del volto che cambia: riuscite a sentire il suono della sua voce, avvertire le sue mani che vi stringono le spalle, ma nello stesso tempo non potete scorgere né le sue mani né il suo corpo né il vostro: nient'altro che luce sfolgorante che si diffonde all'intorno, a diversi metri di distanza, rischiarando la neve che copriva il prato e che continuava a cadere su di me e sullo staretz...[4]

 

In questi termini una persona santa ci mostra in una maniera che si potrebbe definire empirica il Sole, inaccessibile ma così prossimo, del­l'Amore Dio e ce lo fa contemplare in mezzo ai suoi raggi che lo circondano e che sono i giusti e i santi.

Di questo amore Dante, nel suo Paradiso, racconta:

 

Nella profonda e chiara sussistenza

Dell'alto lume parermi tre giri

Di tre colori e d'una contenenza;

e l'uno dall'altro come iri da iri

parea reflesso,

 

Non era altri che

 

L'Amor che move il sole e l'altre stelle.

 


Tratto da: P. EVDOKIMOV, Il roveto che arde, Milano 2007, 56-69.

 





[1] Per approfondire vedi: J. Meyendorff, San Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, Milano 1997.
[2] Per approfondire vedi: I. Gorainoff (edd), Serafino di Sarov, Vita, colloquio con Motovilov, insegnamenti spirituali, Milano 2002.
[3] Per approfondire vedi: J.Y. Leloup, L'esicasmo, Che cos'è, come lo si vive, Milano 1992; e A. e R. Goettmann, Preghiera di Gesù, preghiera del cuore, di Milano 1998.
[4] I. Gorainoff, Serafino di Sarov, op. cit., p. 177.

sabato 30 marzo 2013

Seconda domenica di Quaresima di Roberto Pagani

 
 
La più antica immagine di san Gregorio Palamas
Monastero di Vatopedi – Monte Athos
 

Seconda domenica di Quaresima

di Roberto Pagani

 

La seconda domenica della Grande Quaresima è intitolata a san Gregorio Palamàs, monaco del Monte Athos e poi arcivescovo di Tessalonica che visse nella prima metà del XIV secolo. Teologo che ha saputo unire una raffinata formazione nella Costantinopoli dei Paleologi ad una intensa vita di preghiera condotta a più riprese sul Monte Athos. Al di là di quella che può essere una sua originalità, è sicuramente l’ultimo grande teologo bizantino prima della caduta di Costantinopoli in mano ai turchi che avverrà a meno di cento anni dalla sua morte. Egli ricapitola e sintetizza la teologia dei padri greci, riprecisando il rapporto tra l’inaccessibilità della Sostanza divina e la partecipabilità delle Energie divine. Nei manoscritti abbiamo traccia anche del titolo che la seconda domenica portava precedentemente alla sua consacrazione attuale, ovvero la memoria del santo martire Policarpo, vescovo di Smirne. Attraverso il Typikon della Grande Chiesa cui abbiamo già fatto riferimento, sappiamo che in questa seconda domenica, subito dopo la lettura evangelica alla Divina Liturgia si leggeva l’appello ai catecumeni. Il testo di tale appello era riportato in un manoscritto dell’XI secolo che, presente nella biblioteca reale di Dresda e trasportato poi in Russia dopo la seconda guerra mondiale, oggi risulta introvabile. Fortunatamente possiamo accedervi attraverso una traduzione russa che un noto liturgista ha pubblicato all’inizio del XX secolo.

“Figli miei amatissimi! Conoscendo la vostra sincera fede nel Cristo e come voi stimiate il Santo Battesimo, vi esortiamo ora ancora una volta, in virtù dell’uso stabilito, per domandarvi questo: coloro che desiderano condurre al Battesimo salutare di Cristo qualcuno dei propri parenti, lo conduca dunque qui, nella santa chiesa, affinché, come conviene ai catecumeni, sia possibile istruirlo degli insegnamenti divini secondo le regole della fede. A volte in effetti succede che qualcuno si avvicini al santo mistero senza comprendere gli insegnamenti che gli sono proposti: in questo modo essi partecipano alla grazia senza conoscere assolutamente nulla. Chi dunque abbia con sé qualcuno in queste condizioni, lo conduca prima della domenica di metà quaresima poiché dopo quel giorno non permetteremo a nessuno, salvo casi di estrema necessità, di essere condotto senza esame al Battesimo nella prossima festa di Pasqua”.

 

La pericope evangelica domenicale è Mc 2, 1-12:

Gesù entrò di nuovo a Cafarnao. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola. Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati”. Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?”. Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: “Perché pensate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino disse al paralitico alzati, prendi il tuo lettuccio e và a casa tua”. Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: “Non abbiamo mai visto nulla di simile!”.

 
 
 
 
C’è stato un periodo in cui l’esegesi moderna ha letteralmente strapazzato il racconto di Marco mettendone in evidenza quelle che sembrano essere delle evidenti incongruenze logico-linguistiche, così come emerge nell’analisi del brano fatta da Josè Miguel Garcìa nella sua Vita di Gesù, retroversione in aramaico del testo greco dei vangeli. Ma senza addentrarci nell’analisi storica dell’esegesi della pericope, possiamo mettere in risalto quegli elementi che si possono ben collegare al cammino verso l’iniziazione cristiana dei catecumeni e alla riconciliazione pubblica dei penitenti che avvenivano entrambi nel corso della Quaresima.

Nel commentare questo brano, i Padri sono concordi nel considerare l’integralità della guarigione operata da Gesù: il ristabilimento della salute del corpo così come quella dell’anima procedono per un’unica via, dice Clemente di Alessandria, poiché “colui che ha creato l’uomo si preoccupa di tutta quanta la creatura, e il medico che guarisce la natura umana cura sia il corpo che l’anima”. Pietro Crisologo illumina il rapporto malattia – malato: “prendi il tuo letto, cioè, mutando le parti, porta il letto che ti portava, così che la testimonianza della tua malattia diventi la prova della tua guarigione; così che il letto del tuo dolore diventi la prova della guarigione operata da me; così che la grandezza del peso dimostri la robustezza della forza riacquistata”.

Un altro elemento che viene messo in risalto è la fede non solo del paralitico ma anche, se non soprattutto, delle quattro persone che portano il piccolo letto: non fermandosi dinanzi alla folla né alle difficoltà logistiche, non hanno paura di arrivare a scoperchiare il tetto. Beda il Venerabile, ad esempio, vede allegoricamente in queste quattro persone che portano a Gesù l’uomo malato i quattro vangeli, così come il tetto da scoperchiare diviene un’immagine della crosta del peccato che paralizza la nostra vita spirituale.



 
 
È bello notare come sia la fede degli amici a rendere possibile la guarigione del paralitico operata da Gesù, che è a sua volta preoccupato di non destare nei presenti solo lo stupore dovuto al miracolo, ma di far trasparire che la guarigione esteriore è solo l’aspetto evidente di un ristabilimento globale che in ultima analisi, come vittoria sul peccato, è vittoria sulla morte.

Ancora una volta, di fronte allo scetticismo di alcuni scribi, Gesù parla di sé come il Figlio dell’uomo, che nella profezia di Daniele ha ogni potere in cielo e sulla terra, colui che nella sua venuta realizza le promesse di Dio: guarire i malati e risanare i peccati. Spirito e corpo sono così inscindibilmente legati che non si può avere guarigione del corpo senza quella dello spirito, ed è per questo che la Chiesa, sulle orme di Gesù, è attenta a entrambe le dimensioni.
 

Volgendosi ora all’Ufficiatura, è evidentemente necessario discriminare quello che è l’ufficio in onore di san Gregorio Palamàs, introdotto a partire dal 1368, da quello preesistente a tale data, del quale oggi nei libri greci moderni non si trova più traccia, mentre è ancora conservato in alcuni libri liturgici slavi stampati nel corso del XIX secolo. Tale strato più antico dell’Ufficio consiste in un Canone, opera di Giuseppe l’Innografo, e una strofa che si canta al termine delle Lodi. Il tema del Canone è il Figliol prodigo, e si capisce meglio come, essendo già stato il tema di una delle domeniche della pre-quaresima con ampia e sviluppata ufficiatura, nella prassi attuale si preferisca lasciar cadere questo tema a favore dell’Ufficio in onore del Santo.

Non è tuttavia un esercizio di archeologia liturgica quello che ci porta a rileggere, seppur brevemente, alcuni passi del Canone, dove ritorna frequentemente il tema dell’ascesi quaresimale come restaurazione della bellezza originaria dell’uomo, ovvero della riacquisizione della somiglianza divina perduta col peccato ma riofferta attraverso la Passione di Cristo e la sua Risurrezione.

“Accoglimi nella tua pietà, o Salvatore, mentre accorro con fede, come un tempo il figlio prodigo, e concedimi la liberazione dei miei mali, o Cristo: rendimi degno di recuperare con purezza la bellezza primigenia, celebrando, o Signore, la tua ineffabile compassione”. “Donami, o Verbo, la primitiva bellezza che ho stoltamente perduto compiendo il male”. “Compassionevole Signore, Padre di ogni pietà, accoglie come il figliol prodigo colui che ritorna da vie di ogni malizia, e dando bellezza con le vesti dell’impassibilità fammi aver parte, o buono, alla sorte di quanti ti hanno perfettamente servito”.

C’è quasi una differenza di tono rispetto alla pre-quaresima, in quanto il cammino di conversione è già iniziato e, pur nei nostri attuali limiti, chiediamo al Signore di non guardare a quanto ancora ci resta da fare. “Accoglimi convertito, o Padre, adornami con sacre vesti e rendimi partecipe dei tuoi beni”. “Accoglimi nella mia conversione, tu che possiedi sconfinata ricchezza di bontà”. “Nutri con pensieri divini, o Cristo, colui che ha fame della tua grazia, e fallo partecipe della tua gloria”.

Kontàkion e Ikos fanno riferimento alla “maternità” del Padre, appellandosi biblicamente alle viscere materne da cui scaturisce la divina misericordia. “Corrimi incontro ed abbracciami, per le tue viscere di misericordia”. “Aprimi le tue viscere pietose, ed abbi compassione di me che con ardore mi getto davanti a te”.

La luce può risplendere solo se in noi è eliminata l’opacità del peccato: “Fa splendere per me, giacente nella tenebra della perdizione, un raggio di pentimento, o Signore, e rendimi splendente con le vesti di azioni virtuose, perché io sia degno del talamo spirituale e annoverato tra i figli del regno”. Ma non abbiamo a disposizione un tempo illimitato per convertirci: “Lotta, affrettati, pèntiti prima che giunga il momento del taglio e tu sia reciso come albero sterile e mandato nella geenna. Dio vuole che tutti siano salvati e ti apre le sue braccia”.

Questa “cocciutaggine” di Dio nel voler salvare l’uomo valorizzando ogni minimo spunto di resipiscenza viene ribadita ulteriormente: “Tu che non vuoi che nessun uomo si perda, fammi tornare, o Verbo, perché ho deviato dal retto sentiero e come il figliol prodigo sono caduto nei precipizi e nei baratri del peccato: così io magnificherò il tuo amore per gli uomini che oltrepassa ogni pensiero”.

La conversione del peccatore non è solo un fatto che investa la sfera personale, ma ha una rilevanza cosmica, nella partecipazione festante alla gioia per il ritorno a casa: “La terra e tutto il cielo insieme faranno festa, vedendo me pentito, o pietoso, accolto dalle tue sante viscere: celebreranno il tuo amore per l’uomo e acclameranno apertamente: Gloria al solo nostro Dio, che vuole che tutti siano salvati”.

La strofa alle Lodi sottolinea la dinamicità del cammino quaresimale: “Per quanti camminano nelle tenebre dei peccati, sei sorto come luce o Cristo, nel tempo della continenza: mostraci anche il giorno solenne della tua passione, affinché a te acclamiamo: Sorgi, o Dio! E abbi pietà di noi”.

venerdì 29 marzo 2013

San Patrizio, illuminatore dell’Irlanda




San Patrizio, illuminatore dell’Irlanda

17 (30) marzo

 

Tropario, tono 3

Santo gerarca Patrizio, taumaturgo pari agli apostoli, illuminatore della terra d’Irlanda: implora il Dio misericordioso, che conceda la remissione delle trasgressioni alle nostre anime!
 

Kontakion, tono 4

Ti sei mostrato un vero pescatore di uomini, perché, diffondendo le reti della buona novella dell’Evangelo, hai attirato i pagani nel regno di Cristo, illuminando con il battesimo coloro che languivano nelle tenebre dell’idolatria, e facendoli figli del Dio vivente. Perciò ti supplichiamo, o santo gerarca Patrizio nostro padre: intercedi per noi che onoriamo la tua santa memoria.

 
 
 

San Patrizio fu arcivescovo di Armagh ed è primo patrono d’Irlanda. Le notizie circa la sua vita sono assai incerte e dipendono in buona misura dalla Confessio Sancti Patricii, che è uno scritto autobiografico. Patrizio non era irlandese di nascita, ma sarebbe nato nella Britannia romana, probabilmente nel Galles, verso il 385 nel villaggio di Benaven Taberniae, figlio di un diacono di nome Calpurnio di famiglia benestante. Come lo stesso Patrizio scrive nella sua Confessio, appena sedicenne, mentre si trovava nella sua casa di campagna, verso il 400 fu rapito da pirati irlandesi e fatto schiavo. Strappato alla sicurezza e al benessere della casa paterna, considerò la propria deportazione come un giusto castigo per essersi allontanato da Dio, avendone trascurato i comandamenti. Così digiunava in espiazione delle sue colpe.

Fu in Irlanda, dove, dopo 6 anni di prigionia, maturò il desiderio di farsi apostolo fra le genti celtiche dell’isola. Una notte udì una voce: “Fai bene a digiunare. Presto tornerai in patria. Guarda, la tua nave è pronta”. Liberatosi, dopo giorni di cammino vide la nave e lasciò l’isola per imbarcarsi per la Gallia. Rafforzatasi la sua fede cristiana, iniziò la preparazione ecclesiastica per seguire l’esempio tracciato dal padre e dal nonno. Così per meglio istruirsi, dapprima soggiornò a Lérins, poi passò in Italia e infine si stabilì ad Auxerre dove completò gli studi biblici grazie all’insegnamento di San Germano, che fu vescovo di quella città (418) dopo esserne stato il prefetto. Germano, che era stato in Britannia combattendovi l’eresia pelagiana e diffondendo la vita monastica, infine lo consacrò vescovo.





Alla morte di Palladio, che era stato inviato in Irlanda come vescovo da papa Celestino I nel 431, Patrizio, a motivo della sua conoscenza della lingua gaelica, fu designato suo successore nel duro e difficile apostolato fra quelle popolazioni ancora largamente pagane. La sua evangelizzazione ebbe un singolare successo, raggiungendo le più remote parti dell’isola. Con la sua parola ricca di sapienza conquistò i capi delle varie tribù e dell’intero popolo. Patrizio fondò nuovi vescovadi nelle città irlandesi più importanti, fra cui Armagh, di cui fu il primo vescovo.

Morì verso il 461 e le sue spoglie furono sepolte a Down Patrick. Uno dei tratti caratteristici della sua personalità e del suo apostolato fu la sincerità, che egli voleva fosse una qualità dei catecumeni ai quali ripeteva: “Dio lo sa, io non ho ingannato nessuno di voi”. Gli vengono attribuiti molti scritti, tra cui oltre alla Confessio sancti Patricii anche un’Epistola ad Coroticum, un re bretone. Attorno alla sua figura fiorirono molte leggende, fra cui la più popolare, diffusasi verso il XII secolo, è quella del famoso pozzo, cioè di una immensa voragine attraverso la quale il santo avrebbe mostrato agli increduli irlandesi il Purgatorio. Sul luogo della voragine, chiusa per volere di Alessandro VI nel 1497 e che si trova a Donegal, sorse una chiesa che è meta di frequenti pellegrinaggi.
 

 
 
San Patrizio battezza gli Irlandesi, affresco di scuola lombarda
Colzate (Bg), Santuario di San Patrizio
 
 


Per conoscere i legami tra la nostra terra e san Patrizio:


lunedì 25 marzo 2013

San Gregorio Magno, Papa: Servo dei servi di Dio di Mario Scudu

 RITRATTO DI SAN GREGORIO I MAGNO
di Franchi Giuseppe (Pinacoteca Ambrosiana)


San Gregorio Magno, Papa:

SERVO DEI SERVI DI DIO

 
di Mario Scudu sdb

 

 

Leggendo la documentazione su San Gregorio mi hanno colpito particolarmente due aspetti della sua personalità e del suo itinerario spirituale.

Il primo. Gli storici gli hanno decretato l’appellativo di Magno, cioè Grande. Non sono molti i personaggi storici con tale onore. Gregorio per i suoi meriti, per la sua intelligente opera a beneficio della Chiesa e dell’Italia stessa, ha meritato questo titolo. È quindi uno dei Grandi della storia. Eppure lui amava firmarsi dichiarandosi “servus servorum Dei” cioè “servo dei servi di Dio”.

Il secondo aspetto. Nel recente passato si discuteva, spesso a sproposito, della contrapposizione tra azione e contemplazione. Gregorio aveva una profonda nostalgia della contemplazione, voleva vivere una vita ritirata, eremitica, in solitudine, “popolata” solamente dalla presenza di Dio. Nonostante questo suo grande desiderio fu uomo di grande attività, non strettamente ecclesiale ma anche politica. Fu grande nell’azione e fu grande nella contemplazione. Forse è più corretto affermare che Gregorio fu grande nell’azione perché fu grande nella contemplazione.

 

 

Il suo impegno “politico” per Roma e per l’Italia

Uno storico ha definito Gregorio “l’ultimo grande Romano”. In effetti è proprio nato nella Città Eterna nell’anno 540. Oggi si direbbe che era “Romano de Roma”. Sua madre si chiamava Silvia e il padre Gordiano: questi era un senatore, discendente dalla nobiltà senatoria e probabilmente esercitava le funzioni di notaio regionale. Gregorio iniziò presto il suo curricolo amministrativo, che era già stato del padre, fino alla carica di “praefectus Urbis” cioè la più alta carica della città.

In seguito fu anche nominato ambasciatore o nunzio del papa a Costantinopoli. Questo “stage” all’estero gli fu prezioso doppiamente: fece ulteriore pratica di problemi amministrativi da un osservatorio non proprio romano, e, secondo, questo soggiorno fu per lui una buona scuola e un tirocinio pratico di psicologia. La conoscenza della psiche umana impegnata in politica, oggi si direbbe “in situazione di potere”, lo arricchì molto e gli fu utilissima in seguito da pontefice.

Ma il desiderio profondo di Gregorio era di farsi monaco e di dedicarsi interamente al silenzio, alla preghiera e alla contemplazione. È interessante notare che Gregorio accettò questo incarico politico portando con sé un gruppo di monaci: egli stesso ricordava come riuscisse a fare, nonostante i suoi impegni di ambasciatore del papa, una regolare vita da monaco. A questo gruppo si unì anche Leandro di Siviglia.

Richiamato a Roma nel 586 la sua vita cambiò radicalmente. Sulla Città Eterna ben presto si abbatterono una serie di calamità da metterla in ginocchio. Nel 589 ci fu una inondazione del Tevere, che allagò i depositi di grano della città, rovinando tutto, e subito dopo ci fu una terribile epidemia di peste che si portò via anche il papa Pelagio II, di cui era segretario. Il diacono Gregorio fu subito acclamato papa del popolo romano e dal clero della città. Cercò di sottrarsi all’incarico perfino ricorrendo all’imperatore e al patriarca di Costantinopoli. Inutile. Diventò papa e fu una grande grazia per Roma, per l’Italia e per la Chiesa intera.

Non solo per Roma Gregorio fu padre amorevole, pieno di sollecitudine per il benessere materiale e spirituale (celebri le sue omelie ai romani), attento alla buona e giusta amministrazione a beneficio di tutti, (donò molta parte delle sue sostanze per il sostegno dei poveri) ma il suo amore ed interesse pastorale e politico si estesero a tutta la penisola. L’Italia era allora impoverita per le continue invasioni, ultime quelle dei Goti e dei Longobardi. Il quadro sociale era fatto di città in rovine, di profughi, di distruzioni e saccheggi ovunque.

Di fronte all’impotenza di Costantinopoli, che avrebbe dovuto difendere l’Italia, Gregorio nel 592 si spinse fino ad assumere la responsabilità delle operazioni militari contro i Longobardi, dando ordini ai generali e pianificando l’attacco. Con la sua tattica non solo riuscì a liberare Roma ma da buono e abile diplomatico, per evitare altri massacri, firmò una pace separata con i Longobardi, facendo infuriare così l’imperatore di Bisanzio, che gli mandò una lettera estremamente offensiva.

Gregorio gli rispose fermamente:

“Se la schiavitù del mio paese non si aggravasse di giorno in giorno, io rimarrei in silenzio, lieto di essere disprezzato e schernito. Ma ciò che mi affligge è che la ragione per cui debbo sopportare accuse di menzogna è la stessa per la quale ogni giorno di più l’Italia è condotta prigioniera sotto il giogo dei Longobardi... Io mi aspetto più dalla misericordia di Gesù che viene, che non dalla giustizia della vostra pietà”.

Gregorio morì il 12 marzo del 604 e la sua politica verso i Longobardi si dimostrò lungimirante e vincente.
 
 

Evangelizzatore e Maestro di vita spirituale

Gregorio fu un papa grande non solo per la riorganizzazione della chiesa di Roma, del diritto canonico, per la riforma del clero ed il riordinamento dei monasteri, ma anche per la sua intelligente attività apostolica. Tutto questo nonostante una salute malferma. Si adoperò con successo per la conversione dei Longobardi e lavorò, indirettamente, con l’amico Leandro di Siviglia per assicurare alla fede cattolica i Visigoti nella Spagna.

Ma il suo capolavoro apostolico fu la conversione dei popoli anglo-sassoni. Fu infatti lui a mandare nel 596 ben quaranta monaci guidati da Agostino (diventerà sant’Agostino di Canterbury) per la evangelizzazione dell’Inghilterra.

Gregorio è anche uno scrittore importante. Ha lasciato una traccia profonda nel campo della teologia, del diritto canonico ma specialmente dell’esegesi biblica. Attività intellettuale che gli ha fatto guadagnare il titolo di “Dottore della Chiesa” cioè Maestro di vita spirituale per tutti i fedeli. Gregorio era di Roma ma è stato molto grande il suo interessamento per l’Italia intera. Questo particolare risulta non solo nella sua attività “politica” ma anche in uno dei suoi capolavori i “Dialoghi”. Gregorio li scrisse per respingere lo sfogo pessimista del diacono Pietro (in verità, in sintonia con molti... contemporanei). Questi si lamentava affermando che in Italia i tempi erano così corrotti che era ormai impossibile trovare dei santi come nel passato. Il pessimismo veniva confutato con il racconto della vita di tanti uomini virtuosi viventi allora (e anche oggi) in Italia, che lui invece riusciva a “vedere”.

Ma è nel suo amore totale alla Parola di Dio attraverso la “Lectio Divina” che Gregorio lascia un grande messaggio a tutti noi. Per lui è la Scrittura la vera guida nell’itinerario spirituale dell’anima a Dio. Non c’è vita spirituale se non attraverso la conoscenza, le meditazione, la contemplazione della Parola di Dio. È la Scrittura che fonda, stabilisce, vivifica, irrobustisce e fa crescere nell’anima la vita spirituale, cioè il rapporto amorevole con Dio. Essa è la vera ed unica “regola” spirituale. Più si assimila la Parola di Dio più si cresce spiritualmente e si arriva così alla contemplazione e all’amore perfetto per Dio ed il prossimo (alla santità).

È importante mettere in risalto che la sua insistenza sulla Parola non valeva solo per i suoi monaci ma per tutto il popolo di Dio, costituito dal clero e dai fedeli insieme. Nessuno escluso. La Scrittura è il pane per il nutrimento spirituale di tutti. La lettura della Parola di Dio “è indispensabile al Vescovo, che Gregorio vuole sempre preoccupato di tale studio... È indispensabile ai monaci. È finalmente indispensabile ad ogni fedele”.

È nella lettera a Teodoro, medico, che Gregorio ha il più profondo richiamo a questa lettura e che rimane l’aforisma più profondo di tutto il suo insegnamento a proposito:

“Impara a conoscere il cuore di Dio nella sua parola (Disce cor Dei in verbis Dei), onde tu giunga a sospirare più ardentemente le cose eterne, e la mente ti si accenda di maggior desiderio dei gaudi celesti” (B. Galati - L. Dattrino).

Un’ultima annotazione che vuole essere anche il messaggio di Gregorio per l’uomo d’oggi: il valore del silenzio. Per il grande Papa esso è condizione essenziale per poter ascoltare sé stessi e lasciar parlare Dio alla propria anima. Se non c’è questo silenzio ed un po’ di solitudine difficilmente si instaurerà quel colloquio con Dio in cui consiste la preghiera e la contemplazione.

Facendo così, dice Gregorio, sarà possibile “silenter cum Illo loqui” cioè “parlare in silenzio con Lui”. Naturalmente non si tratta qui dell’invito ad una qualche forma di esercizio o di seduta di solipsismo psichico, con risvolti e finalità (inconsce) di tipo narcisistico e autocelebrativo, ma di una solitudine e di un silenzio che renda possibile l’“habitare secum” cioè il dimorare con sé stessi per arrivare ad essere “abitati da Dio”. Si tratta in altre parole della famosa “unione con Dio”, senza la quale non c’è crescita spirituale, e tantomeno santità cristiana.

Gregorio ci raccomanda anche oggi che se vogliamo ascoltare Dio e parlare con Lui, (ritrovando come conseguenza noi stessi) dobbiamo avere il coraggio di:

 

* mettere in parentesi temporaneamente le cose esterne,

 

* arrestare per un po’ di tempo il flusso delle cose mutabili per percepire la presenza dell’Immutabile,

 

* controllare lo scorrere del nostro tempo per comunicare con l’Eterno che non passa,

 

* ascoltare la caducità e precarietà della nostra vita quotidiana per ancorarci alla Roccia che è Dio.

 

Mi pare un buon consiglio per combattere la fretta nevrotica e lo stress sempre in agguato che sembrano divorare la vita di tanti uomini e donne del nostro tempo.

 

Da: MARIO SCUDU, Anche Dio ha i suoi campioni, Ed. ELLEDICI, 2011


 
 
San Gregorio Magno papa di Monti Francesco
Bergamo, Accademia Carrara
 


Proverbio



Proverbio:
 
Par san Gregori papa
la rùndina la pasa l’aqua

San Gregorio il Dialogo


San Gregorio il Dialogo, papa di Roma antica

12 (25) marzo

 

Tropario, tono 4°

Dall’alto hai ricevuto da Dio la grazia divina, o grande Gregorio, e forte del suo potere hai voluto seguire il santo evangelo di Cristo, da cui hai ricevuto la ricompensa per le tue sofferenze, o tuttobeato; intercedi presso di lui per la salvezza delle nostre anime.

 

Kontakion, tono 3°

 Ti sei mostrato simile a Cristo ierarca, e compartecipe dei monaci, o padre Gregorio, guidandoli verso la città celeste, da dove insegni al gregge di Cristo i suoi comandamenti, e con loro gioisci e danzi nelle corti del cielo.

 
 
san Gregorio Magno (ambito bresciano)
Rovato (BS), Santuario della Madonna di S. Stefano
 
Sapienza vera e Sapienza falsa
 di Mario Scudu sdb
 
Gregorio Magno è stato un grande scrittore, preciso, acuto, profondo e... pratico.
Nella citazione seguente egli mette a confronto due mentalità o stili di vita, l’uno guidato dalla “sapienza” o logica di questo mondo, l’altro dalla sapienza che deriva da Dio. Siamo in presenza di una tipologia umana semplificata al massimo: la classica contrapposizione tra i buoni e i cattivi, tra i “furbi” (secondo la mentalità comune) che come autentici avvoltoi sono sempre pronti ad approfittare della situazione, e “gli onesti” che non fanno lo sgambetto agli altri.
Parole del grande Gregorio valide per un buon programma di vita spirituale, anche oggi.
“La sapienza di questo mondo sta: nel coprire con astuzia i propri sentimenti, nel velare il proprio pensiero con le parole, nel mostrare vero il falso e falso il vero.
Al contrario la sapienza del giusto sta: nel fuggire ogni finzione, nel manifestare con le parole il proprio pensiero, nell’amare il bene così com’è, nell’evitare ogni falsità, nel donare gratuitamente i propri beni, nel sopportare più volentieri il male che farlo, nel non cercare di vendicarsi delle ingiurie, nel ritenere un guadagno l’offesa subita a causa della verità. Ma questa semplicità del giusto viene derisa, perché la purezza d’intenzione è creduta stoltezza dai sapienti di questo mondo. Infatti tutto ciò che si fa con innocenza, è ritenuto da questi senz’altro una cosa stolta; e tutto ciò che la verità approva nell’agire, suona come sciocchezza per la sapienza di questo mondo”.
 
Per la tua preghiera:


domenica 24 marzo 2013

Prima domenica di Quaresima

 

Prima domenica di Quaresima

 

di Roberto Pagani

 

 

Può risultare interessante dar una visione storica d’insieme sulla Grande Quaresima bizantina, al fine di poterne meglio cogliere la struttura intrinseca con le varie stratificazioni accumulatesi nel corso del tempo. Mentre è possibile analizzare la liturgia di Gerusalemme a partire dal IV sec. in avanti, per quanto riguarda Costantinopoli e la liturgia bizantina questo non è possibile, e lo è a maggior ragione per l’anno liturgico. Se è vero che la nostra più antica tradizione manoscritta è un Euchològion contenente le preghiere sacerdotali che risale all’VIII sec. ed è stato copiato nell’Italia meridionale, la nostra migliore fonte per l’anno liturgico a Costantinopoli è il Typikòn di Santa Sofia che si può far risalire alla fine del X sec., copiato da manoscritti provenienti da Gerusalemme (X sec.) e Patmos (fine IX sec.).

Già le Costituzioni Apostoliche, dell’ultima decade del IV sec. separano la Quaresima dai sei giorni del digiuno pasquale, e che il sabato e la domenica tra questi due digiuni non appartengono a nessuno dei due. Questa tradizione si è conservata nel rito bizantino odierno. La Quaresima, nell’interpretazione più stretta, consiste in un periodo di quaranta giorni che inizia un lunedì e finisce ai vesperi del venerdì di sei settimane dopo.

Nell’uso bizantino si è sempre evitata la celebrazione dell’eucaristia nei giorni di digiuno. Perciò durante la Quaresima l’eucaristia viene celebrata solo il sabato e la domenica (oltre il 25 marzo, la cui eccezione è regolata dal concilio in Trullo). Durante questi sabati e domeniche di Quaresima la lettura corsiva delle epistole si incentra sulla Lettera agli Ebrei, mentre questo è il periodo principale per la lettura corsiva dell’Evangelo di Marco, di probabile derivazione alessandrina. La tradizione bizantina è famosa per aver conservato l’usanza della lettura corsiva: tutto il Nuovo Testamento, con l’unica eccezione dell’Apocalisse, viene letto nel corso di un solo anno. L’unica eccezione a questa lettura marciana nei sabati e domeniche di Quaresima è la prima domenica (cioè la domenica alla fine della prima settimana), che è oggi diventata la festa dell’Ortodossia, ma che nel Tipykòn prima citato è una festa dei profeti Mosè, Aronne e Samuele. A parte questo, è facile intravedere nella presente struttura delle letture neotestamentarie il contenuto biblico della liturgia a Costantinopoli risalente a un periodo molto antico nella storia di questa città. È solo alla fine dei quaranta giorni, il sabato della sesta settimana, il sabato di Lazzaro, che la lettura evangelica è tratta da Giovanni (unica fonte per la risurrezione di Lazzaro), così come giovannea è la lettura evangelica del giorno seguente, la domenica delle Palme, in quanto correlata cronologicamente con la settimana di Passione.

Tutta la sesta settimana di digiuno viene designata settimana delle Palme nei manoscritti del IX e X sec., e finisce nel sabato di Lazzaro e nella domenica delle Palme, e rappresenta per sé stessa la conclusione della Quaresima, così come facilmente riscontrabile in una serie di strofe che si cantano nei vesperi del venerdì.

C’è una ulteriore particolarità che va menzionata. È sicuramente comune a tutte le tradizioni cristiane la connotazione di preparazione all’iniziazione cristiana culminante nella veglia pasquale. Ma sorprendentemente il sabato di Lazzaro consiste in una completa liturgia iniziatoria, condotta dal patriarca nel piccolo battistero a conclusione del Mattutino. Prova ne è la conservazione fino ad oggi del canto di entrata, quello dell’attuale piccolo ingresso, proprio delle liturgie battesimali: “Quanti siamo stati battezzati in Cristo, di Cristo ci siamo rivestiti! Alleluia”, che sostituisce il Trisàghion cantato normalmente.

Va fatta un’ultima considerazione relativamente al rapporto tra Quaresima e penitenza. Che la Quaresima fosse un tempo per gli esercizi pubblici dei penitenti può essere già implicito nella seconda decade del V sec. nelle varie tradizioni. La storia della Quaresima mostra infatti quello che sembra essere uno spostamento di enfasi dalla preparazione per il battesimo a una celebrazione pubblica penitenziale associata a quelli che un tempo erano esercizi per i penitenti che cercavano la riconciliazione formale con la chiesa durante la settimana santa. Questo spostamento non è così radicale come potrebbe sembrare. Se letto nel contesto dello sviluppo dei riti dell’iniziazione cristiana, emerge che l’affermarsi del battesimo dei bambini come normale, se non normativo, e il significato poco più che formale delle vestigia degli scrutini battesimali, resero la riconciliazione dei penitenti l’aspetto principale della Quaresima. In entrambi i casi, la partecipazione di tutti i fedeli a questi riti di passaggio rappresenta uno strato autentico della pietà cristiana, riconoscendo che quella che viene offerta grazie alla morte e alla risurrezione del Signore è la redenzione di tutti, non solo di alcuni coinvolti direttamente. Coloro che si avviano alla fede durante il cammino catecumenale, coloro che si sono allontanati dalla comunità di fede e cercano la riconciliazione, coloro che cercano perdono e comunione, sanno che il tempo che precede la Pasqua è un tempo di conversione, tempo di pentimento, che identifica la nostra vita come un movimento continuo teso all’incontro con il Signore risorto che viene, ora e sempre.

Fatta questa doverosa premessa, possiamo passare al contenuto che si è sovrapposto alla struttura delle letture bibliche, e che in questa prima domenica di Quaresima è relativo al “Trionfo dell’Ortodossia”: la grande rivolta dell’eresia iconoclasta, che dissolveva il principio fondamentale del cristianesimo (la realtà dell’Incarnazione e della duplice consustanzialità di Gesù, al Padre e all’uomo) è vinta dopo le lotte durate circa un secolo; l’ortodossia è ristabilita l’11 marzo 843, da qui la scelta pressoché immediata di collegare alla prima domenica di Quaresima il ricordo annuale di questo importante momento della storia della Chiesa.

Il card. Joseph Ratzinger, nella sua “Introduzione allo spirito della liturgia”, parlando dell’arte sacra conclude il capitolo dedicato alla questione delle immagini dicendo: “la Chiesa d’Occidente non deve affatto smentire il cammino da lei percorso a partire dal secolo XIII. Deve però fare finalmente sue le conclusioni del settimo concilio ecumenico, il Niceno Secondo, che ha riconosciuto l’importanza fondamentale e il luogo teologico dell’immagine all’interno della Chiesa… Dovrebbe considerare anche normative per sé le linee fondamentali di questa teologia delle immagini”.

 
 

La pericope evangelica domenicale è Gv 1, 44-52:

Il giorno dopo Gesù aveva stabilito di partire per la Galilea; incontrò Filippo e gli disse: “Seguimi”. Filippo era di Betsàida, la città di Andrea e di Pietro. Filippo incontrò Natanaèle e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret”. Natanaèle esclamò: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”. Filippo gli rispose: “Vieni e vedi”. Gesù intanto, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: “Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità”. Natanaèle gli domandò: “Come mi conosci?”. Gli rispose Gesù: “Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico”. Gli replicò Natanaèle: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!”. Gli rispose Gesù: “Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!”. Poi gli disse: “In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo”.

San Giovanni Crisostomo, commentando questo brano, sottolinea con meraviglia l’immediatezza con cui Filippo aderisce all’invito di Gesù: è sufficiente un semplice “Seguimi!”, e subito, obbedendo, inizia a predicarlo. Il suo “abbiamo trovato”, denota sicuramente un’attesa, una ricerca mai sopita. Per dare autorevolezza alla sua affermazione, Filippo presenta Gesù come colui di cui Mosè e i Profeti hanno parlato. Natanaèle, il futuro apostolo Bartolomeo, riceve una notizia sconcertante e, a prima vista, poco credibile: anche chi poi lo seguirà e darà la sua vita per lui, fa fatica a riconoscere in Gesù il Messia, colui che era atteso da Israele, e che appare sulla scena in vesti così “normali”, quotidiane, dando l’impressione di una vicinanza che mal si combinava con l’idea generata dal messianismo a loro contemporaneo. La Galilea, al tempo di Gesù, era una terra di eretici, di rivoluzionari, non era per nulla considerata come una scuola di formazione per dottori della legge, ma ciò non impedisce a Natanaèle di intuire che Filippo intenda proprio parlare del Messia e che, scritture alla mano, Nazaret non era sicuramente tra i posti più probabili dove il Messia avrebbe potuto nascere.

La risposta di Filippo all’amico diffidente è il migliore metodo missionario: più che parole, concetti o idee, è l’esperienza di un incontro, il coinvolgimento in un rapporto, l’esperienza di una amicizia condivisa quella che rende possibile a ciascuno di noi riconoscere Gesù come Cristo e Signore della nostra vita.
 
 
 


Sempre san Giovanni Crisostomo dice al proposito: “Come Andrea, non sapendo rappresentare adeguatamente il tesoro che aveva trovato, né spiegarlo con le sue parole, condusse Pietro da colui che aveva trovato, così anche Filippo non dice per quale ragione egli sia il Cristo e in quale maniera i profeti lo preannunziarono, ma conduce Natanaèle da Gesù, ben sapendo che non se ne sarebbe più staccato, una volta provato il fascino della sua parola e della sua dottrina”.

Il credito che Natanaèle da all’amico Filippo è sufficiente a fargli vincere questo suo dubbio iniziale, e nonostante la fresca ombra offerta dalle foglie del fico che temperava la più che probabile calura del giorno, si muove dalla sua comoda posizione andando verso Gesù. A Gesù basta questo movimento per affermare: “Ecco un vero Israelita, nel quale non c’è falsità”. Dio è pronto a cogliere il minimo desiderio dell’uomo che si mette in cammino verso di lui. Perché Natanaèle viene definito da Gesù un vero Israelita? Mentre Natanaèle non si trattiene dall’esprimere ad alta voce il suo dubbio, Gesù loda l’interlocutore ancora prima di incontrarlo: l’assenza di falsità è da collegare proprio alla disponibilità di Natanaèle di non restare ancorato all’idea di messia condivisa più o meno da tutti, ma di essere disponibile ad un incontro. E lo sguardo di Gesù che convince Natanaèle: l’essere visto da Dio, la certa consapevolezza che siamo sotto il suo sguardo, la forza penetrante di questo sguardo coniugata alla disponibile attesa dell’uomo porta quest’ultimo alla confessione di fede. Il desiderio e l’attesa di Natanaèle dovevano essere davvero intensi, al punto che lo stesso Gesù, quasi stupito, gli dice che potrà fare esperienza di cose ben maggiori di queste. Ecco che dal Messia implicito di Filippo, si passa al Figlio di Dio e Re di Israele della professione di fede di Natanaèle, fino ad arrivare al Figlio dell’uomo di Gesù.

Messia è sicuramente il titolo più diffuso per riferirsi a Gesù di Nazaret. Il Messia è l’unto (Cristo) del Signore, e il suo consacrato per eccellenza è il re di Israele; poi, un po’ alla volta, si trasforma in una figura centrale degli ultimi tempi, cui si sovrapporrà anche quella apocalittica del Figlio dell’uomo. Gesù ha sempre mantenuto un comprensibile riserbo: da una parte evita di attribuirsi il titolo, dall’altra evita una risposta negativa, preoccupandosi costantemente di chiarire che il suo messianismo è quello del Servo di Isaia, cioè non si attua instaurando un regno terreno, ma soffrendo e morendo per la liberazione di tutto il popolo. Ben diversa è invece la situazione relativamente all’altro titolo, quello di Figlio dell’Uomo. Mentre nei Salmi e in Giobbe significa semplicemente uomo, in Ezechiele ha un connotato profetico e in Daniele assume una caratteristica marcatamente apocalittica: da una parte ha una valenza di umanità e di debolezza, dall’altro ha valenza celeste, trascendente. Se troviamo il titolo di Cristo sempre in bocca agli altri e mai sulle labbra di Gesù, l’appellativo Figlio dell’Uomo compare nel NT sempre e solo sulla bocca di Gesù (con un’unica eccezione in At 7, 56): sembrerebbe che il suo uso risalga effettivamente al Gesù storico. Si può dire che l’appellativo Figlio dell’uomo rimandi a tutta la vicenda di Cristo, dalla sua umiliazione alla sua esaltazione: in Gesù il Figlio dell’Uomo atteso come venturo è già venuto e presto ritornerà nel compimento finale.

 
 

Possiamo ora volgerci verso il contenuto innografico della domenica che, come già accennato, non è collegato come altre volte al brano evangelico ma vi è sovrapposto, in quanto l’ufficiatura celebra il “Trionfo dell’Ortodossia”. Sarebbe bello, ma ci porterebbe troppo lontano, riprendere il tema dell’icona in chiave cristologica attraverso le varie letture fatte a partire da san Giovanni Damasceno fino ad arrivare ai teologi ortodossi più recenti, così come è sicuramente interessante vedere gli stessi temi trattati da un teologo cattolico, il domenicano Christoph von Schönborn, ora Cardinale Arcivescovo di Vienna.

Alcune strofe cantate al Lucernario dei Vesperi sono sufficienti per far capire come la tradizione bizantina abbia saputo fondere in maniera incredibile liturgia e teologia, fede e arte, riflessione ed esperienza.

C’è un fondamento teologico alla venerazione alle immagini, che viene richiamato per dare senso a questa venerazione e dare una chiave di lettura dei benefici che dall’icona derivano, non in quanto oggetto in sé, ma come presenza reale del rappresentato. “Tu che per la tua divina natura non puoi essere circoscritto, essendoti incarnato in questi ultimi tempi, o Sovrano, ti sei degnato di venire circoscritto: assumendo infatti la carne, ne hai accettato tutte le proprietà. Noi dunque dipingendo la figura che intende rappresentarti, rendiamo omaggio a tali immagini in vista di colui a cui rimandano, innalzandoci all’amore per te, e ne attingiamo la grazia delle guarigioni seguendo le divine tradizioni degli apostoli”. “La grazia della verità nuovamente risplende. Ciò che un tempo era prefigurato nell’ombra, ora si è apertamente compiuto: poiché, ecco, la Chiesa si riveste dell’icona corporea del Cristo come di abbigliamento ultramondano, delineando la figura della tenda della testimonianza, e tiene salda la fede ortodossa, affinché possedendo anche l’icona di colui a cui rendiamo culto, non ci accada di sviarci. Si rivestano di vergogna quanti così non credono: per noi è infatti gloria la forma di colui che si è incarnato, è piamente venerata, non idolatrata”.

Altre strofe del Lucernario rimandano invece al primo contenuto proprio della domenica, la memoria dei profeti Mosè, Aronne e Samuele: “I profeti dal divino parlare, annunciandoti con la parola e onorandoti con le opere, hanno raccolto il frutto della vita eterna: avendo infatti perseverato nel rifiutare il culto alla creatura al posto di te, Dio Creatore, hanno disdegnato il mondo per annunciarti e si sono conformati alla tua passione da essi stessi preannunciata. Per le loro preghiere, rendici degni di affrontare irreprensibili il corso di questa Quaresima, o unico misericordioso”.

Il tropario proprio della festa, che si canta dopo quello risurrezionale proprio del tono, porta dall’icona alla croce: “Veneriamo la tua immacolata icona, o buono, chiedendo perdono delle nostre colpe, o Cristo Dio, perché volontariamente, nel tuo beneplacito, sei salito nella carne sulla croce per liberare dalla schiavitù del nemico coloro che avevi plasmato”.

Il canone del mattutino è opera di Teofane, monaco che ha composto il suo poema per l’occasione lasciando trasparire, insieme alla gioia per la ritrovata unità della Chiesa, anche la sofferenza per il secolo di lotte che avevano dilaniato il Corpo di Cristo.

“Applaudiamo vedendo questo sommo beneficio: le membra divise del Cristo raccolte in unità, e lodiamo Dio che ci ha concesso la pace”. “Raffigurando in una icona la tua forma divina, proclamiamo chiaramente la tua nascita, o Cristo, i tuoi prodigi indicibili, la tua crocifissione volontaria; i demoni, spaventati, fuggono, e i non ortodossi, quali loro compagni, gemono abbattuti”. “Le icone dei profeti, degli apostoli e dei martiri, le sacre immagini dei santi abbelliscono la Gerusalemme celeste, che risplende della bellezza spirituale del suo Sposo e della Madre Vergine”. Colui che un tempo ha ordinato che ci fosse una tenda della testimonianza, come in una tenda razionale abita in te, lui il solo glorificato, che glorifica il tuo tempio con i prodigi, o Vergine”.

Il kontakion ritorna al fondamento teologico, sempre fermamente unito all’economia della nostra salvezza: “Il Verbo incircoscrivibile del Padre, incarnandosi da te, Madre di Dio, è stato circoscritto e, riportata all’antica forma l’immagine deturpata, l’ha fusa con la divina bellezza. Confessando la salvezza con parole e opere, raffiguriamola”. L’ikos che segue il kontakion fa emergere i temi più antichi della domenica, quelli legati al percorso catecumenale verso il battesimo: “Questo mistero dell’economia fu annunciato dai profeti divinamente ispirati per noi che arriviamo alla fine dei tempi, e ne abbiamo ricevuto l’illuminazione. Per essa conosciamo Dio come unico Dio e Signore, glorificato in tre ipostasi; rendendo culto a lui solo, ci rivestiamo di Cristo, con un’unica fede e un solo battesimo. Confessando la salvezza con parole e opere, raffiguriamola”. Il padre Denis Guillaume, traducendo l’ikos in francese e con ogni probabilità utilizzando il vocabolario slavo ecclesiastico – russo edito a Mosca nel 1899 ha reso l’ultima frase in: “Confessando la salvezza con parole e opere, riacquistiamo la nostra somiglianza con Dio”, riuscendo splendidamente a contestualizzare con questa circonlocuzione tutta la dottrina patristica relativa alla differenziazione tra immagine e somiglianza. La caduta ha offuscato l’immagine e reso l’uomo incapace della somiglianza: il battesimo ricostituisce l’uomo ridonandogli la sua immagine divina in Cristo, mentre riacquisire la somiglianza è il compito affidato all’uomo attraverso la trasfigurazione del creato fino a rendere Cristo tutto in tutti e in tutto.

La strofa che si canta al Gloria delle Lodi ci riporta nel pieno del cammino quaresimale: “Mosè, nel tempo della continenza, ricevette la Legge e si guadagnò il popolo; Elia, digiunando, chiuse i cieli; i tre fanciulli della stirpe di Abramo vinsero col digiuno un tiranno iniquo. Per esso (il digiuno) concedi anche a noi, o Salvatore, di giungere alla resurrezione cantando: Santo, Dio, Santo forte, Santo e immortale, abbi pietà di noi”.

Al termine del mattutino, o della divina liturgia, le rubriche prescrivono una processione con la santa croce e tutte le icone verso il luogo dove verrà proclamato il Synodikon, ovvero gli atti del settimo concilio ecumenico. Durante tale processione si canta un canone di san Teodoro Studita e, arrivati al luogo della proclamazione, dopo il tropario già riportato, si canta la seguente strofa, testimone del tema originario della domenica: “Il coro dei profeti, insieme a Mosè ed Aronne, si rallegra oggi grandemente perché, oltrepassando la profezia, rifulge la croce con la quale ci hai salvati. Per le loro suppliche, o Cristo Dio, salva le nostre anime”.