giovedì 14 marzo 2013

Il teatro dell'aldilà di Giosuè Bonetti e Matteo Rabaglio


IL TEATRO DELL’ALDILÀ

I DANNATI

 

Affreschi, quadri, miniature, dal Duecento all'Ottocento, sparsi in città e nel contado, raffiguranti dannati arsi dal fuoco, mostri e serpenti, terribili strumenti di pena: è l'agghiacciante rappresentazione dell'inferno che per secoli ha sostanziato l'immaginario collettivo.

 

Giosuè Bonetti e Matteo Rabaglio

 

foto di

Francesco Barbera

Claudio Bruni

Riccardo Schwamental

 

 

Annunciata dalle pagine apocalittiche del Nuovo Testamento prima fra tutte quella di Matteo, XXV, 31, la fonte biblica più utilizzata dall'omiletica e dall'iconografia escatologiche‑ la fine dei tempi si presenta come il grande e temibile rendiconto di tutta una vita, un terribile processo presieduto da un giudice misericordioso, ma, nel contempo, giusto e inflessibile; un "Dio dagli occhi di lince" (Delumeau, 725) che, dopo aver osservato e annotato le azioni degli uomini per tutto il corso della loro esistenza, emetterà il verdetto inappellabile: raccoglierà il "suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con fuoco inestinguibile" (Matteo, III, 12). Per l'eternità, dunque, estensione temporale di difficile definizione, la cui traduzione passa attraverso gli avverbi mai e sempre "quanto la durerete? Sempre. Quando la finirete ? Mai", tuonava dal pulpito Sebastiano Pauli nel XVIII secolo. Mai, in grandi caratteri stampatello, serra il muso del Leviatano che incessantemente e voracemente ingurgita le anime perse nel grande Giudizio Universale, di Cristoforo Baschenis il Vecchio, affrescato nella chiesa della Trinità di Casnigo (anni Settanta del XVI secolo).

 

Nel più antico Giudizio attestato in area bergamasca, quello dell'aula della Curia Vescovile, a Bergamo (XIII secolo), la narrativa non indugia sui castighi eterni inflitti ai reprobi, limitandosi a registrare la separazione tra eletti e dannati, collettivamente racchiusi in due ingombranti casse di legno, rossa per i beati, bianca per i condannati. Per più compiutamente connotare il Giudizio nei termini di un salutare monito capace di risvegliare il peccatore dal torpore dei suoi vizi, la scena, altrove, si avvale di un immaginario orrorifico e intimidatorio, torture, fuoco, mostri. Gli scenari evocati dagli affreschi presenti nella chiesa cittadina di Matris Domini (XIV secolo), dalle miniature di Antonio Suardi (XV secolo)[Giudizio universale, La città infernale], dal grande Giudizio di S. Patrizio a Colzate introducono una più puntuale definizione delle pene spettanti ai rei che, innaturalmente ammassati e incatenati, vedono spalancarsi innanzi ai loro occhi la terribile eternità cui sono stati condannati; esuberanti demoni, solerti esecutori delle sentenze divine, traducono senza soverchie cerimonie ‑ trascinandoli per i capelli, come a Colzate, oppure caricandoli in una gerla, come alla Pianca (fine Quattrocento) ‑ i condannati dall'aula del tribunale al luogo d'espiazione.

A partire dal XIV secolo si accede al mondo infernale attraverso la bocca del Leviatano (già presente nell' affresco di Almenno), enorme mostro marino della mitologia fenicia, emblema del caos, il medesimo che regna presso le fauci del mostro raffigurato dal Baschenis, dove s'affolla una massa di reprobi disordinatamente e fastidiosamente pigiata, un'asfìttica calca che configura l'inferno come l'impero del disordine e della sguaiataggine, di contro all'ordine e alla compostezza delle regioni celesti. Il mostruoso e irreversibile paesaggio introduce nella città infernale che, dai disegni del Suardi, appare congegnata secondo i medesimi criteri delle città fortificate bassomedioevali, con solide mura di cinta, possenti portoni e catenacci.

Entro l'infausto borgo lo spazio si popola di "strumenti degni di un museo dei supplizi (Vovelle 1986, 97) e si consumano la sofferenze più inaudite; nell'inferno tardo seicento raffigurato nell'oratorio della Madonna delle Valanghe a Capovalle, i dannati appaiono arsi dal fuoco e assillati da mostri e serpenti, mentre più particolareggiate pene sembrano tormentare le colpe, al tempo, maggiormente stigmatizzate, come la lussuria, a cui i rospi divorano i seni; la bestemmia, trapassata da guancia a guancia da uno stiletto; una colpa di non immediata intelligenza ‑forse l'eresia‑ cui un possente chiodo trafigge le tempie. L'umanità racchiusa nelle plaghe infernali è quanto mai varia; a Casnigo demoni armati dell'inevitabile tridente sospingono tra le fauci dei Leviatano, oltre ad anonimi peccatori e prevedibili infedeli ‑sono riconoscibili, dal turbante, vari turchi‑, personaggi d'eccellenza del mondo cattolico: papi, vescovi, preti, suore, re, a riprova che a Dio nulla può sfuggire.

Le intimidatorie fasi del Giudizio Universale e i tormenti infernali, plasticamen­te esibiti lungo tutto il Medioevo e ancora "onnipresenti nel XVI secolo" ), subiranno comunque una regressione all'indomani del Concilio di Trento; dopo il seicento, "statisticamente parlando, il tema sparisce dai muri delle chie­se, sostituito da altre immagini che valorizzano il giudizio individuale (le anime del Purgatorio)" (Vovelle,1989). In area bergamasca un tardo Giudizio Universale viene affrescato sulle pareti esterne del complesso di S. Bernardino a Lallio, in occasione del colera del 1855; il dipinto, che mostra un Cristo irato che scaglia saette e dannati condotti all'inferno, riscrive e ripropone, a Ottocento inoltrato, il motivo dell'epidemia intesa come flagello divino, castigo e monito rivolti all'umanità ribelle, tema antico, assai praticato nei secoli prece­denti.

Le raffigurazioni escatologiche, comunque, scompaiono; con una tesi provo­catoria, ma suggestiva, Piero Camporesi imputa tale sbiadimento al fatto che le tradizionali e agghiaccianti rappresentazioni infernali oggi si consumano qui, sulla terra, nei cibi adulterati, nelle città ammorbate dai fumi tossici; “l'inferno dei cinque sensi non è più laggiù, sepolto in corde terrae, [ma] si è trasferito quassù, fra noi” (Camporesi, 10‑11).

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

P. Camporesi, La casa dell'eternità, Milano 1987

 

J.Delumeau, Il peccato e la paura, Bologna 1987

 

M. Vovelle, La morte e 1'0ccidente, Roma‑Bari 1986

 

M. Vovelle, Immagini e immaginario nella storia, Roma 1989

 

 


 

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