venerdì 30 novembre 2012

"Simbolo" di san Gregorio Taumaturgo


Il Simbolo o Esposizione della Fede
di san Gregorio Taumaturgo

 
Vi è un solo Dio, il Padre del Verbo vivente, che è la sua impronta eterna, perfetto, genitore del perfetto. Uno è il Signore, unico dall’unico, Dio da Dio, impronta e immagine della divinità, Verbo efficiente, Sapienza che abbraccia l’insieme di tutto il mondo, Potenza che ha fatto tutta la creazione, Figlio vero da Padre vero, invisibile figlio dell’Invisibile, Incorruttibile figlio dell’Incorruttibile, Immortale figlio dell’Immortale, e Eterno figlio dell’Eterno. Ed uno lo Spirito Santo che sussiste in Dio, e che è stato manifestato agli uomini per mezzo del Figlio, immagine perfetta del Figlio perfetto, vita, causa della vita, sorgente santa, santità che dona la santificazione; per lui si manifesta Dio Padre che è al di sopra di tutti ed è in tutti, e Dio Figlio che è in tutto il creato; Trinità perfetta che non è divisa né separata dalla gloria, dall’eternità e dal regno. È per questo che nella Trinità non vi è nulla di creato o di sottomesso, né di avventizio nel senso che prima non c’era ed in seguito si è inserito; né manca mai il Figlio nel Padre; né nel Figlio lo Spirito: ma immutabile e inalterabile la Trinità è sempre la medesima.

 

Da: (L. LEONE edd) GREGORIO DI NISSA, Vita di Gregorio Taumaturgo, Roma, 1988, 52.

giovedì 29 novembre 2012

san Matteo

San Matteo - Scuola Lombarda
 
 
Il santo apostolo ed evangelista Matteo

16 (29) Novembre

 

 

Lettura del santo Evangelo secondo Matteo
9, 9-13

Poi Gesù, partito di là, passando, vide un uomo chiamato Matteo, che sedeva al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli, alzatosi, lo seguì. Mentre Gesù era a tavola in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. I farisei, veduto ciò, dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia con i pubblicani e con i peccatori?». Ma Gesù, avendoli uditi, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Ora andate e imparate che cosa significhi: "Voglio misericordia e non sacrificio"; poiché io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori».

 

 

Dalle Memorie Apostoliche di Abdia primo vescovo di Babilonia

LIBRO VII

Gesta del beato Matteo apostolo ed evangelista

 

[1] Matteo, soprannominato Levi, figlio di Alfeo, apparteneva alla classe dei pubblicani. Chiamato al suo servizio dal Signore nostro Gesù Cristo, entrò nel numero dei suoi discepoli e da ultimo ebbe il supremo ufficio dell’apostolato. Prima dell’Ascensione del Signore al cielo, non fece nulla di più di tutti gli altri compagni dell’ufficio apostolico. Dopo aver ricevuto insieme agli altri lo Spirito santo illuminatore, si volse a predicare il Vangelo nel mondo, e nella ripartizione gli toccò la provincia dell’Etiopia. E quivi andò.

Mentre dimorava nella grande città di Naddaver, ove era re Eglippo, vi si trovavano anche i due maghi Zaroen e Arfaxat. Con forme strane costoro si burlavano del re affinché egli credesse che essi erano dèi. E il re credeva loro in ogni cosa, e con lui tutto il popolo della città; e dalle regioni lontane dell’Etiopia ogni giorno veniva gente per adorarli. A loro piacimento, facevano infatti arrestare subito i piedi degli uomini rendendoli immobili; impedivano la vista e l’udito degli uomini; comandavano ai serpenti di mordere, cosa che sono soliti fare pure i Marsi, e curavano molti con l’incantesimo. Come suol dirsi, si dimostra più rispetto ai cattivi per timore, che ai buoni per amore; così anche quelli erano venerati presso gli Etiopi, e tenuti a lungo in gran conto.

[2] Però, come spesso è detto, Dio, poiché ha cura degli uomini, mandò contro costoro l’apostolo Matteo, il quale entrato in città cominciò a smascherare la loro fallacia. Tutti quelli che costoro imprigionavano egli li liberava in nome di Gesù Cristo; rendeva la vista a coloro che da essi ne erano stati privati, e rendeva l’udito a coloro ai quali quelli l’avevano tolto; anche i serpenti che essi istigavano a mordere gli uomini, egli li faceva addormentare, e ne guariva totalmente le morsicature con un segno del Signore.

Avendolo visto un Etiope, eunuco di nome Candace, che era stato battezzato dall’apostolo diacono Filippo, si fece avanti ai suoi piedi ed in atto di adorazione, disse: "Ciò è avvenuto perché Dio ha rivolto il suo sguardo su questa città, per liberarla dal potere dei due maghi, che uomini stolti credono dèi". Costui accolse l’apostolo nella sua casa; andavano da lui tutti quelli che erano amici dell’eunuco Candace, ascoltavano le parole di vita, e credevano nel Signore Gesù Cristo. Ogni giorno venivano battezzati molti, vedendo che tutto ciò che i maghi compivano a danno degli uomini, il discepolo di Dio lo annullava. Quelli causavano ferite a quanti potevano, affinché i colpiti li chiamassero per guarirli: tutti erano portati a credere che quelli li curavano, perché cessavano dal malanno.

L’apostolo di Cristo, Matteo, curava non solo coloro ai quali quelli avevano fatto del male, ma anche tutti coloro che gli erano portati, affetti da qualsiasi infermità, e predicava al popolo la verità di Dio, sicché tutti restavano meravigliati dalla sua eloquenza.

[3] Allora l’eunuco Candace, che lo aveva accolto con ogni riguardo, lo interrogò dicendo: "Ti scongiuro di spiegarmi come tu, Ebreo, hai imparato a parlare greco, egiziano ed etiopico così bene da superare quelli stessi che in queste regioni sono nati". Rispose l’apostolo: "Tutti sanno che il mondo aveva un solo linguaggio per tutti gli uomini. Ma sopraggiunse in tutti una presunzione e li spinse ad innalzare una torre così alta che la sua cima raggiungesse il cielo. Ma il Dio onnipotente frustrò questa presunzione facendo in modo che mentre uno parlava l’altro non fosse capace di intenderlo. Sorsero poi molti generi di lingue e quell’unione che traspariva anche dall’unica lingua fu divisa. Buona, in verità, fu l’intenzione che si facesse una torre che raggiungesse il cielo, ma cattiva la presunzione che voleva andare verso le cose sante con mezzi non santi.

Venendo poi il Figlio di Dio onnipotente, volle mostrare in qual modo dovevano costruire per potere pervenire al cielo a noi, suoi dodici apostoli, mandò dal cielo lo Spirito santo mentre stavamo riuniti in un unico luogo; venne sopra ciascuno di noi, e fummo infiammati come il ferro è infiammato dal fuoco. Dopo questo fatto scomparve da noi il timore e lo splendore, cominciammo a parlare ai gentili in varie lingue, e ad annunciare le meraviglie della nascita di Cristo: come sia nato quale unigenito Figlio di Dio, colui la cui origine eterna nessuno conosce; ci annunciò poi e ci convinse che nacque dal seno di Maria vergine, che fu allattato dalla Vergine integra, fu nutrito e istruito, fu battezzato e tentato, patì e morì, fu sepolto e al terzo giorno risuscitò, ascese al cielo e si sedette alla destra di Dio onnipotente, donde ha da venire a giudicare tutte le generazioni per mezzo del fuoco. Non sappiamo solo queste quattro lingue, come tu pensi, ma sappiamo anche le lingue di tutte le genti (noi che siamo discepoli di Gesù Crocifisso) e non mediocremente, ma bene; presso qualsiasi popolo giungeremo, vi arriveremo sapendo già bene la sua lingua. Ora non si edifica più una torre con pietre, ma con le virtù di Cristo, da parte di tutti quelli che sono stati battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo: a costoro è aperta la torre innalzata da Cristo; ed edificandola salgono fino a raggiungere il regno dei cieli".

[4] Mentre l’apostolo trattava queste cose e molte altre simili con discorso mistico, arrivò una persona dicendo che i famosi maghi se ne venivano ciascuno con un drago; questi erano armati, il loro respiro lanciava fiotti ignei e dalle narici emettevano miasmi sulfurei, il cui odore uccideva gli uomini. Ciò udito, Matteo si segnò e con calma si avviò incontro a loro. Ma gli si oppose l’eunuco Candace il quale chiuse la porta dicendo: "Piuttosto parla loro dalla finestra, se lo giudichi opportuno". L’apostolo gli rispose: "Tu aprimi, aprimi! Dalla finestra starai tu per vedere l’ardire di questi maghi".

Aperta la porta, l’apostolo uscì, ed ecco i due maghi farsi avanti ognuno con il suo drago; ma allorché si furono avvicinati, tutti e due i draghi si addormentarono ai piedi dell’apostolo, il quale disse ai maghi: "Dov’è la vostra abilità? Se ne avete il potere, svegliateli. Se io non pregavo il mio Signore Gesù Cristo, questi avrebbero rivolto contro di voi tutta la furia che voi avete acceso contro di me; fino a che il popolo non verrà qui, essi dormiranno. Poiché nessuno ha osato avvicinarsi, li sveglierò e comanderò loro di ritornare mansueti ai propri luoghi".

Zaroen ed Arfaxat, con le loro arti magiche tentavano di svegliarli, ma non potevano far aprire loro gli occhi, né farli muovere neppure un poco. Il popolo invece supplicava l’apostolo dicendo: "Ti scongiuriamo, signore, affinché tu liberi il popolo e la città da queste bestie". E l’apostolo: "Non temete, disse; io farò sì che queste bestie se ne vadano tutte mansuete".

Rivolto ai draghi, disse: "In nome del mio Signore Gesù Cristo, che fu concepito per opera dello Spirito santo e nacque da Maria vergine, che Giuda tradì consegnandolo ai farisei i quali lo crocifissero, che fu deposto dalla croce e fu sepolto, che risorse dai morti il terzo giorno, che si trattenne con noi per quaranta giorni, che ci diede le prove di quanto ci aveva insegnato prima della passione, e ci ricordò tutto ciò che ci aveva detto, che dopo quaranta giorni se ne ascese al cielo sotto il nostro sguardo, ed ora siede alla destra di Dio Padre, donde ha da venire a giudicare i vivi e i morti, nel suo nome, dico, e per la sua potenza, destatevi. E chiamo a testimone te, o Spirito, affinché tu li faccia ritornare al loro luogo, tutti mansueti, senza toccare e ledere alcuno, sia uomo che bestia o uccello". A questa voce i serpenti sollevando la testa cominciarono ad andarsene e aperte le porte se ne uscirono pubblicamente e sotto lo sguardo di tutti, né mai più ricomparvero.

[5] Ciò fatto, l’apostolo così parlò al popolo: "Ascoltate, fratelli e figli, e voi tutti che volete  liberare le vostre anime dal vero drago che è il demonio. Dio mi mandò a voi per la vostra salvezza, affinché, abbandonata la falsità degli idoli, vi convertiate a colui che vi ha creato.

Quando Dio fece il primo uomo, lo pose in un paradiso di delizie, con la sua donna, che aveva tratto dalla costola di lui. Il paradiso di delizie è al di sopra di tutti i monti e vicino al cielo e non ha in sé cosa alcuna che possa nuocere alla salvezza dell’uomo! Gli uccelli quivi non sono spaventati dalla voce e dall’aspetto dell’uomo, non vi spuntano spine o triboli, le rose e i gigli non vi marciscono, nessun fiore appassisce; l’uomo non era soggetto a sforzi, alla sanità non succedeva la malattia, per la tristezza, per il pianto e per la morte non v’era posto alcuno; l’aura che vi spirava più che un soffio era una carezza e conferiva una vita perpetua. Come il fumo dell’incenso elimina gli odori sgradevoli, così le narici inspiravano la vita perpetua, la quale faceva sì che l’uomo non incorresse né nella stanchezza, né nel dolore, ma si conservasse sempre eguale, sempre giovane, sempre lieto, sempre vigoroso; vi risuonavano melodie angeliche e dolcissime voci giungevano all’udito; non v’era posto per i serpenti, per gli scorpioni, per il falangio, né v’era alcuna mosca nociva alla salute dell’uomo. Ivi i leoni, le tigri e i leopardi servivano gli uomini; qualunque cosa l’uomo comandava agli uccelli o alle fiere, subito eseguivano riverenti il suo comando sapendo che era carissimo a Dio e da lui amato. Di lì partivano anche quattro fiumi: il primo si chiama Geon, il secondo Fison, il terzo Tigri, il quarto Eufrate, che abbondano di ogni genere di pesci. Non Vi erano latrati di cani, né ruggiti di leoni: tutto era grazioso, mansueto, calmo. La volta del cielo non si oscurava mai con le nubi, non vi rosseggiavano mai le folgori, non rintronavano mai i tuoni, v’era solo una gioia senza fine e una festa senza termine.

[6] Il motivo per cui, poco prima ho ricordato che ivi non v’era posto per il serpente, è perché l’angelo manifestò per mezzo di esso la propria invidia; fu perciò maledetto da Dio e non poté più rimanere, maledetto, in un luogo benedetto. Nell’angelo l’invidia nacque allorché vide che nell’uomo c’era l’immagine di Dio, ed anche per il fatto che all’uomo era possibile parlare in tale regione beata con tutti gli uomini. Per questo l’angelo concepì in se stesso l’invidia, entrò nel serpente con la sua potenza angelica, persuase la moglie di Adamo a mangiare del frutto dell’albero, che Dio aveva proibito sotto pena di morte; e dopo ciò la moglie, avendo errato, sedusse il marito. Avendo prevaricato tutti e due furono mandati qui su questa terra, arida e deserta, in esilio, lungi dalla regione della vita in quella della morte; l’autore della colpa, identificato nel serpente, ricevette una eterna maledizione.

Ebbe pietà di questo fatto e di questa condizione degli uomini lo stesso Figlio di Dio, il quale aveva creato l’uomo conformemente all’ordine del Padre suo, e, di fronte alla nostra debolezza, si degnò di assumere la forma umana, senza perdere la sua divinità. Questo è l’uomo Gesù Cristo che riscattò l’uomo e vinse il diavolo soffrendo il patibolo della croce; sopportò derisioni e insulti, e vinse la morte con la sua morte, per riaprire il Paradiso risorgendo. Affinché nessuno ne dubitasse, Cristo fece sì che vi entrassero tutti quanti credono in lui, e per primo lo stesso ladrone, al quale, dal legno della croce, scrollò di dosso il legno della prevaricazione, e a tutte le altre anime sante, che escono da questo corpo, aprì il Paradiso; infine, a quelli che risorgono nell’ultimo giorno aprì anche i regni dei cieli affinché vi possano entrare. Così dunque, purché lo si voglia, è possibile correre alla vita e al Paradiso, donde il nostro padre carnale Adamo fu scacciato e perciò ci generò tutti in questo esilio, mentre il Signore nostro Gesù Cristo ci aprì le porte del Paradiso affinché ritorniamo a quella patria nella quale non v’è posto per la morte e nella quale regna eterna la gioia".

[7] Mentre l’apostolo parlava di queste cose, si verificò un fatto luttuoso: si piangeva per la morte del figlio del re. Al suo funerale partecipavano i maghi, i quali non potendolo risuscitare cercavano di persuadere il re che il figlio era stato rapito dagli dèi nel loro numero, per essere uno degli dèi, al quale era dunque doveroso innalzare una statua e un tempio.

Udito ciò, l’eunuco Candace, entrato dalla regina, le disse: "Comandate che siano fermati questi maghi! Prego che venga da noi l’apostolo di Dio, Matteo. Se egli lo risusciterà, farai in modo che costoro siano arsi vivi, perché tutti i mali nella nostra città accadono appunto a causa loro".

Allora per ordine di Candace, uomo onorato presso il re, furono inviati alcuni i quali pregarono l’apostolo e lo introdussero con onori dal re. Mentre Matteo entrava, gli si prostrò ai piedi Eufenissa, regina dell’Etiopia, dicendo: "Riconosco che tu sei l’apostolo mandato da Dio per la salvezza degli uomini e che sei discepolo di colui che risuscitava i morti e allontanava dagli uomini tutte le malattie con un suo comando. Or dunque vieni ed invoca il suo nome sul defunto mio figlio: credo infatti che se così farai, egli rivivrà". E l’apostolo a lei: "Tu, finora, non hai udito dalla mia bocca la predicazione del mio Signore Gesù Cristo, e come puoi dire: "Credo"? Sappi comunque che tuo figlio ritornerà a te".

Entrato, alzò le mani al cielo, dicendo: "Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, tu che hai mandato il tuo Figlio Unigenito dal cielo sulla terra per la nostra restaurazione, per allontanarci dall’errore e per mostrarci che tu sei il vero Dio, ricordati delle parole del Signore Gesù Cristo Figlio tuo: "In verità vi dico che tutto ciò che chiederete nel mio nome, al Padre mio, egli ve lo concederà". Affinché dunque le genti conoscano che all’infuori di te non v’è altro onnipotente, e sia dimostrata vera questa asserzione della mia bocca, questo fanciullo riviva".

E presa la mano del defunto disse: "In nome del Signore mio crocifisso, sorgi Eufranore". E il fanciullo subito risorse.

A questa vista il cuore del re si spaventò; comandò che gli si portassero corone e porpora, mandò araldi per la città e per le diverse province dell’Etiopia, dicendo: "Venite nella città a vedere Dio nascosto nella apparenza di un uomo".

[8] Essendo affluita tutta una moltitudine con ceri, pietre, incenso e tutto il necessario per il sacrificio, l’apostolo del Signore, Matteo, si rivolse a tutti con queste parole: "Io non sono Dio, ma servo del Signore mio Gesù Cristo, Figlio di Dio onnipotente, il quale mi mandò a voi, affinché abbandoniate il falso culto dei vostri dèi, e vi convertiate al vero Dio. Ché se voi mi credete Dio, pur essendo io uomo simile a voi, quanto più dovete credere Dio colui al quale mi professo servo e nel cui nome ho risuscitato questo figlio del re. Voi tutti che avete compreso l’evidentissimo motivo di tutto ciò, allontanate dalla mia vista oro, corone d’oro e argento; vendeteli, innalzate un tempio al Signore e vi riunirete colà per ascoltare la parola del Signore".

A queste parole si riunirono undicimila uomini, lavorarono per trenta giorni, portarono a termine il sacro tempio, che Matteo chiamò "chiesa della Risurrezione", poiché l’occasione dell’erezione era stata una risurrezione.

Matteo presiedette quella Chiesa per ventitré anni. Vi stabilì presbiteri e diaconi, li distribuì per città e villaggi ed eresse in diverse località molte Chiese. Furon battezzati anche il re Eglippo, la regina Eufenissa e il figlio risuscitato, Eufranore; la figlia, Ifigenia, battezzata, rimase vergine di Cristo.

Nel frattempo i maghi, pieni di timore, fuggirono in Persia. Sarebbe troppo lungo raccontare a quanti ciechi fu restituita la vista, quanti paralitici furono guariti, quanti furon liberati dai demoni e quanti furono i morti risuscitati dall’apostolo.

Il re rimase cristianissimo e così la onorevolissima sua consorte, e con essi l’esercito e il popolo tutto dell’Etiopia. Sarebbe troppo lungo narrare come tutte le statue e tutti i templi siano stati distrutti. Tralasciate tutte queste cose a motivo del loro grande numero, narrerò in qual modo l’apostolo abbia consumato la sua santa passione.

[9] Dopo non molto tempo il re Eglippo, in buona vecchiaia, andò incontro al Signore. Il governo del regno lo prese il re Irtaco, suo fratello. Costui voleva prendere in sposa la figlia del defunto re, Ifigenia, che già era stata consacrata a Cristo, aveva preso il sacro velo dalle mani dell’apostolo, ed era a capo di più di duecento vergini; il re tuttavia sperava che per mezzo dell’apostolo avrebbe potuto commuoverne l’animo. Perciò cominciò a trattare con san Matteo; gli disse: "Ti concedo la metà del mio regno, a patto che tu mi permetta di prendere in sposa Ifigenia". A lui il beato apostolo disse: "Secondo una buona consuetudine del re tuo predecessore, ogni sabato si suole convenire là ove predico la parola del Signore; comanda tu stesso che convengano lì tutte le vergini che sono con Ifigenia. Udrai manifestamente quante lodi e quanto bene io dica del matrimonio, e come siano accette a Dio le unioni sante".

Ciò udito, Irtaco si rallegrò e comandò che a quella riunione fosse presente anche Ifigenia, affinché ascoltasse dalla bocca dell’apostolo l’invito ad acconsentire di diventare moglie di Irtaco.

[10] Fattosi nella riunione un grande silenzio, l’apostolo aprì la bocca e disse: "Ascoltate le mie parole, figli tutti della Chiesa, ascoltate e cercate di capire tutto ciò che udite, e rimanga scolpito nei vostri cuori. Il vostro Dio ha benedetto le nozze, ed egli stesso permise che l’amore dominasse nel corpo e nei sensi della carne, affinché il marito ami sua moglie e la moglie ami suo marito. Vediamo però che spesso la moglie odia suo marito fino a causarne la morte con il veleno, la spada e il ripudio: così anche il marito trama spesso contro la propria moglie, essendo tanta la passione della carne, da fare galoppare la mente. Che cosa avverrebbe se nella carne non ci fosse lo stimolo dell’amore? Quindi se questo stimolo svolge la sua funzione per amore a Dio, e l’uomo prende moglie per desiderio di prole e così la donna prende marito, il matrimonio è buono, non è contro il precetto di Dio; questo tuttavia a condizione che la moglie non abbia a conoscere affatto altro uomo, e similmente anche l’uomo abbia assolutamente in orrore la conoscenza di un’altra donna. Se infatti il precetto di Dio viene custodito dai coniugi, esso li purifica da ogni sordida unione. L’immondezza è proprietà del corpo, ed è lavata da Dio attraverso le elemosine e le opere di misericordia; ma non così le colpe: esse non sono lavate se non attraverso lacrime di penitenza. Il matrimonio dunque ha l’immondezza dell’unione, ma non ha colpa. Inoltre in giorni determinati, nella quaresima e nel tempo dei legittimi digiuni, se uno non si astiene sia dal mangiar carne, sia dalla unione dei corpi, non solo incorre nell’immondezza ma anche nella colpa. Non, in verità, perché il mangiare sia colpa; bensì perché peccato e colpa è il mangiare non proporzionatamente. Infine se uno prima mangia cibo carnale e poi, nello stesso giorno nel quale si è nutrito di cibo naturale, indebitamente osa accostarsi al cibo spirituale, diventa reo di colpa, di disonestà riguardo all’uno e all’altro cibo, non per il fatto che ha mangiato, ma perché contro l’ordine, contro giustizia e contro la regola di Dio si è nutrito prima nella carne. Quindi non è una qualunque azione degli uomini che rende colpevoli, bensì è l’irrazionalità di quell’azione che condanna il suo autore.

Spesso abbiamo visto anche omicidi adorare statue e simulacri; certamente è omicida colui che uccide un nemico della pace o un barbaro o un ladro, ma il fatto che un tale omicidio sia buono, non significa proprio che sia buono l’omicidio di un innocente. Spesso anche la bugia, pure essendo cattiva per natura, sembra che diventi buona a seconda delle circostanze. Se infatti tu sei capace di nasconderti per una qualunque ragione da un nemico che ha intenzione di colpirti, ed egli chieda dove mai tu ti sia andato a nascondere, allora sei portato non solo a negare, ma anche a spergiurare. Qui abbiamo due mali, la menzogna e lo spergiuro; e tutti e due i mali tuttavia possono dar luogo ad un buon frutto. Dio non ha stabilito precisi limiti al nostro operato quasi che si possa dire: ho avuto timore di mentire a motivo del suo giudizio, perciò ho tradito quell’uomo; oppure: ho temuto di perdere un soldo, perciò sono incorso nel danno di un’immensa quantità d’oro.

Dunque non vi sono azioni così cattive, che siano sempre cattive per natura, bensì solo per nostra intemperanza. Se ardisce ricevere i misteri dei sacramenti uno che non è stato inondato dall’acqua celeste, trasforma in crimine un atto buono, ed incorre nello stato di eterna pena da quell’azione per la quale poteva essere liberato dal reato di una pena eterna. Così è pure delle nozze: il matrimonio è benedetto da Dio, è da Dio santificato, ed è consacrato con la speciale benedizione di Dio data dai sacerdoti, ma qualcuno vede in esso una certa qual offesa alla Divinità".

[11] Mentre san Matteo diceva queste cose, il re Irtaco e il suo seguito con somme lodi strepitavano oltremodo innalzando lodi; egli, infatti, riteneva che l’apostolo dicesse questo per piegare l’animo di Ifigenia al matrimonio. Ma dopo che cessò il grande clamore delle lodi al suo indirizzo, l’apostolo riprese il discorso e, fattosi silenzio, disse: "Vedete, fratelli e figli, fin dove il nostro discorso sia arrivato, fino ad ammettere che si possa fare un omicidio buono. Quando ad esempio si uccide uno che, se non fosse ucciso, avrebbe potuto uccidere molti innocenti: così ad esempio furono uccisi Golia, Sisara, Aman, così fu troncato il capo di Oloferne, e furono uccisi giustamente coloro che erano nemici delle vostre sedi e del vostro regno. Così è anche dei matrimoni: mentre vengono ratificati, splende in essi l’onestà di un’opera buona, purché siano compiuti santamente, giustamente ed integralmente, irreprensibilmente e in modo integerrimo. Se un servo dunque, osasse usurpare la sposa del re, è evidente che non solo incorrerebbe in una offesa, ma in una colpa così grande che giustamente sarebbe condannato a essere arso vivo, e non già perché prese moglie, ma perché violò la sposa del suo re. Così, anche tu, o re Irtaco, figlio dilettissimo, sapendo che Ifigenia, figlia del re, tuo predecessore, è diventata sposa del re celeste, e consacrata con il sacro velo, come puoi prendere la sposa di uno più potente di te, e unirtela in matrimonio?".

A queste parole il re Irtaco, che aveva lodato ognuna delle esposizioni dell’apostolo, si allontanò tutto infuriato.

[12] Ma l’apostolo imperterrito, tranquillo e con maggiore franchezza, proseguì il discorso, dicendo: "Ascoltatemi, voi che temete Dio. Si sa che un re terreno domina per poco tempo; il re dei cieli, invece, regna eternamente; e mentre fa sì che abbiano grandi gaudi quelli che mantengono la fede in lui, così avvolge con tormenti inenarrabili coloro che rinunciano alla fede in lui ed alla santità. Se è da temere l’ira di un re offeso, molto più in verità è da temere l’offesa del re celeste! L’ira dell’uomo infatti, sia essa espressa con supplizi, fuoco o ferro, ha il suo compimento in tormenti temporali; ma l’ira di Dio condanna i peccatori alle eterne fiamme della Geenna. Perciò il Signore e Maestro, Gesù Cristo, presago del futuro, disse: "Vi troverete davanti a re, i quali oltre al flagellarvi e uccidervi, non avranno altro da fare". Per questo vi dico: non temeteli! Temete invece colui che, dopo avervi uccisi, può mandarvi in perdizione e farvi andare nella Geenna. È costui che dovete temere".

[13] Allora Ifigenia davanti a tutto il popolo si gettò ai piedi dell’apostolo e disse: "Ti scongiuro per quegli stesso, del quale sei apostolo, di imporre, su di me e su queste vergini, le mani,

affinché per la tua parola siamo consacrate al Signore, e sfuggiamo le minacce di colui che, ancora vivente mio padre e mia madre, ci lanciava molte minacce per intimorirci, e cercava di adescarci con molti doni. E se osava fare ciò quando essi erano vivi, che cosa non farà mai ora che è padrone del regno?".

L’apostolo, fiducioso nel suo Signore, non temeva Irtaco; ed imponendo il velo sul capo di lei e sul capo di tutte le altre vergini che erano con lei, pronunciò questa benedizione: "Dio, plasmatore del corpo e soffiatore dell’anima, che non disprezzi l’età, non riprovi il sesso, e nessuna condizione consideri indegna della tua grazia, ma sei ugualmente creatore e redentore di tutti: tu che ti sei degnato di scegliere, qual buon pastore, queste tue figlie da ogni ceto, per conservare la corona della perpetua verginità e custodire la purezza dell’anima, circondale con lo scudo della tua protezione: affinché queste, che tu hai preparato al conseguimento di ogni virtù e gloria, sotto la guida della sapienza, vincendo esse le lusinghe della carne e rinunciando ad un lecito matrimonio, meritino l’indissolubile unione con il Figlio tuo, Signore nostro Gesù Cristo. Ti chiediamo, Signore, di premunirle non con armi carnali ma con la grande forza dello Spirito, affinché, proteggendo tu i loro sensi e le loro membra, non possa dominare nei loro corpi il peccato. Su di esse che desiderano vivere sotto la protezione della tua grazia, non prevalga mai colui che difende il male o è nemico del bene, su di esse che sono ormai tanti vasi consacrati al tuo nome. La pioggia benefica della tua grazia celeste estingua ogni naturale ardore, ed accenda la fiamma della perpetua castità. Il loro volto pudico non soffra scandali, né una loro disattenzione offra agli incauti l’occasione di peccare; in esse la verginità sia cauta e splendente, armata di fede integra, di ferma speranza, di carità sincera, affinché agli animi preparati alla continenza sia offerta la forza necessaria per superare tutte le insidie del diavolo; e disprezzando le cose presenti, perseguano le future, preferiscano i digiuni alle orge carnali, antepongano le lezioni sacre alle gozzoviglie. Nutrite di orazioni, complete nella dottrina, illuminate dalle veglie, esercitino l’attività della grazia verginale. Fortifica queste che sono tue con le armi della virtù internamente ed esternamente, e disponi loro un cammino verginale senza ostacoli; affinché siano capaci di percorrerlo fino al termine, per i meriti dello stesso Signore nostro Gesù Cristo, redentore delle anime nostre, al quale, con Dio Padre e con lo Spirito santo, sia onore e gloria ora e sempre per tutti i secoli dei secoli".

[14] Quelle risposero: "Così sia!". Egli poi celebrò i misteri del Signore. Congedata l’assemblea, egli si trattenne perché presso l’altare, dove era stato da lui celebrato (il sacrificio del) corpo di Cristo, avesse il trionfo, davanti a tutti, il martirio dell’apostolo. Pertanto non molto tempo dopo, un sicario mandato da Irtaco, colpì di spalle l’apostolo che pregava a mani tese, e così con un colpo di spada lo rese martire di Cristo.

Udito ciò, tutto il popolo si diresse con il fuoco contro il palazzo; ma verso il popolo infuriato corsero tutti i presbiteri, i diaconi e i chierici, insieme ai discepoli del santo apostolo, dicendo: "Non vogliate agire contro il precetto del Signore! Anche l’apostolo Pietro, impugnata la spada, portò via l’orecchio di Malco, che con la turba aveva catturato il Signore, ma affinché non apparisse che egli volesse vendicare il proprio arresto, ne ordinò la riparazione facendo in modo che l’orecchio amputato fosse rimesso al suo posto; l’apostolo obbedì e l’orecchio subito si rinsaldò. E allora il Signore disse a Pietro: "Forse che il Padre mio, se io volessi, non potrebbe mettermi a disposizione più di dodicimila legioni di angeli?". Celebriamo dunque tutti con gioia il martirio dell’apostolo, e restiamo in attesa di quanto il Signore vorrà disporre".

[15] Frattanto Ifigenia, la santissima vergine di Cristo, elargì ai sacerdoti e al clero tutto ciò che possedeva in oro, in argento e in pietre preziose, dicendo: "Innalzate una chiesa degna dell’apostolo di Cristo; quanto supererà, distribuitelo ai poveri; è necessario che io sostenga la lotta con Irtaco".

Dopo queste cose si verificò un secondo fatto a proposito di Ifigenia: il re Irtaco, lusingandosi di potere giungere ad ottenere il suo consenso, le mandò le mogli di tutti i nobili. Ma questo non gli fu possibile; convocò allora i maghi, affinché la rapissero con l’aiuto dei demoni. Poiché non potevano compiere ciò neppure essi, fece appiccare il fuoco all’edificio nel quale Ifigenia, rimanendo con le vergini di Cristo, conversava col suo Signore giorno e notte.

Ma mentre intorno ardeva il fuoco, apparve un angelo del Signore insieme all’apostolo Matteo, dicendo: "Ifigenia, sta calma e non spaventarti tra queste fiamme; esse ritorneranno a colui dal quale sono state suscitate". Mentre le fiamme crepitavano intorno al pretorio ove era la santa Ifigenia, Dio fece levare un vento fortissimo e cambiò la direzione di quell’incendio dalla dimora della sua vergine, dirigendolo verso il palazzo di Irtaco che fu distrutto al punto che in pratica non si salvò nulla di quanto v’era. Irtaco riuscì ad uscire con il suo unico figlio, ma sarebbe stato meglio se fosse perito.

In suo figlio entrò un demone violentissimo: con una corsa pazza lo portò al sepolcro dell’apostolo Matteo; le mani legate dietro la schiena dallo stesso diavolo, fu costretto a confessare i crimini del padre. I segni della elefantiasi colpirono lo stesso Irtaco da capo a piedi; non potendo i medici curare tale malattia, egli impugnò la spada contro di sé: si trafisse, compiendo così un degno supplizio; la spada con la quale aveva colpito alle spalle l’apostolo del Signore, gli trapassò lo stomaco.

Dopo ciò, tutto il popolo saltò di gioia per la di lui morte; a capo di tutto l’esercito fu posto il

fratello di Ifigenia, di nome Beor, il quale, per merito di Ifigenia, aveva ricevuto la grazia del Signore dalla mano di Matteo. Costui pertanto all’età di venticinque anni cominciò a regnare in Etiopia e mantenne il regno per sessantatre anni. La sua vita giunse agli ottantotto anni.

Mentre era ancora vivo, mise a capo dell’esercito il primo dei suoi figli, e il secondo lo nominò re; vide i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione; ebbe una saldissima pace con i Romani ed i Persiani. Inoltre tutte le province dell’Etiopia furono piene di chiese cattoliche, fino al giorno d’oggi, per merito di Ifigenia.

Quivi accadono cose meravigliose allorché si celebra il beato apostolo. Egli fu il primo a scrivere, in ebraico, il Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo che, con il Padre e lo Spirito santo, vive e regna nei secoli dei secoli.

 

 

Tropario - Tono 3

Con zelo, hai seguito Cristo Maestro, che nella sua bontà, è apparso sulla terra per l’umanità. Chiamandoti dal banco delle imposte, Egli ti ha rivelato come un apostolo scelto: l’annunciatore dell’Evangelo per il mondo intero! Perciò, Matteo divinamente eloquente, onoriamo la tua memoria preziosa! Prega Dio misericordioso che conceda la remissione alle nostre anime peccatrici.

 

Kontakion - Tono 4

Gettato via il giogo del banco di pubblicano, ti sei sottoposto al giogo della giustizia, e sei divenuto ottimo mercante, che si è acquistato come ricchezza la sapienza dall’alto: hai così annunciato la parola della verità e hai destato le anime degli indolenti, descrivendo l’ora del giudizio.

mercoledì 28 novembre 2012

Inizia il Digiuno di san Filippo


Inizia oggi il Digiuno di san Filippo, ovvero la Quaresima di Natale. Buona Penitenza!

 



Dal Commento sul profeta Isaia

di sant’Eusebio vescovo di Cesarea

 
Cap. 40, vv. 3. 9; PG 24, 366-367

 

Voce di uno che grida nel deserto: «Preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio» (Is 40, 3).

Dichiara apertamente che le cose riferite nel vaticinio, e cioè l’avvento della gloria del Signore e la manifestazione a tutta l’umanità della salvezza di Dio, avverranno non in Gerusalemme, ma nel deserto. E questo si è realizzato storicamente e letteralmente quando Giovanni Battista predicò il salutare avvento di Dio nel deserto del Giordano, dove appunto si manifestò la salvezza di Dio. Infatti Cristo e la sua gloria apparvero chiaramente a tutti quando, dopo il suo battesimo, si aprirono i cieli e lo Spirito Santo, scendendo in forma di colomba, si posò su di lui e risuonò la voce del Padre che rendeva testimonianza al Figlio: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo» (Mt 17, 5).

Ma tutto ciò va inteso anche in un senso allegorico. Dio stava per venire in quel deserto, da sempre impervio e inaccessibile, che era l’umanità. Questa infatti era un deserto completamente chiuso alla conoscenza di Dio e sbarrato a ogni giusto e profeta. Quella voce, però, impone di aprire una strada verso di esso al Verbo di Dio; comanda di appianare il terreno accidentato e scosceso che ad esso conduce, perché venendo possa entrarvi: Preparate la via del Signore (cfr. Ml 3, 1).

Preparazione è l’evangelizzazione del mondo, è la grazia confortatrice. Esse comunicano all’umanità al conoscenza della salvezza di Dio.

«Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme» (Is 40, 9).

Prima si era parlato della voce risuonante nel deserto, ora, con queste espressioni, si fa allusione, in maniera piuttosto pittoresca, agli annunziatori più immediati della venuta di Dio e alla sua venuta stessa. Infatti prima si parla della profezia di Giovanni Battista e poi degli evangelizzatori.

Ma qual è la Sion a cui si riferiscono quelle parole? Certo quella che prima si chiamava Gerusalemme. Anch’essa infatti era un monte, come afferma la Scrittura quando dice: «Il monte Sion, dove hai preso dimora» (Sal 73, 2); e l’Apostolo: «Vi siete accostati al monte di Sion» (Eb 12, 22). Ma in un senso superiore la Sion, che rende nota le venuta di Cristo, è il coro degli apostoli, scelto di mezzo al popolo della circoncisione.

Sì questa, infatti, è la Sion e la Gerusalemme che accolse la salvezza di Dio e che è posta sopra il monte di Dio, è fondata, cioè, sull’unigenito Verbo del Padre. A lei comanda di salire prima su un monte sublime, e di annunziare, poi, la salvezza di Dio.

Di chi è figura, infatti, colui che reca liete notizie se non della schiera degli evangelizzatori? E che cosa significa evangelizzare se non portare a tutti gli uomini, e anzitutto alle città di Giuda, il buon annunzio della venuta di Cristo in terra?

 

 




Di seguito sono riportate alcune pagine web che ci illuminano su come vivere questa Quaresima e sul suo significato.

San Paisij Veličkovskij


Santo monaco Paisij Veličkovskij (1722-1794)

15 (28) Novembre

 

Autobiografia di uno Starets è il titolo di un libro tradotto in italiano nel 1988 [1], in cui Paisij Veličkovskij racconta la sua vita e la giovanile ricerca di un monastero rispondente alle sue esigenze spirituali, senza però darci l’esperienza degli anni della maturità, quando numerose comunità si formarono attorno a lui in diversi paesi europei.

Nato a Poltava, in Ucraina, il 21 dicembre 1722, da un arciprete sposato a Irina, che nei suoi ultimi anni fu monaca, undicesimo di dodici fratelli, tutti morti prima della sua maggiore età, Pietro (suo nome di battesimo, Paisij essendo quello monastico) rimase orfano del padre a quattro anni. Si prevedeva che, come il padre, sarebbe divenuto arciprete della chiesa della Dormizione della Madre di Dio a Poltava, tanto più che del 1735 al 1739 frequentò brillantemente l’Accademia ecclesiastica a Kiev, ma il giovane si sentiva attratto dalla vita monastica e il suo direttore spirituale l’incoraggiava a questo, nonostante l’opposizione della madre. Iniziò il suo pellegrinaggio in vari monasteri, da quello di Lubeč e poi di Medvedovo (zona dell’Ucraina nel regno polacco). Fu nel monastero delle Grotte Pecerskij a Kiev, dove però notò l’influenza della politica religiosa degli zar, e preferì trasferirsi all’estero, in Moldavia, dapprima a Traisteni, e in seguito nello skit [2] di Čircul; da lì passò al monte Athos per attingere alle fonti della spiritualità monastica antica e vi risiedette dal 1746 al 1763. Anche lì non mancarono delusioni per la decadenza di alcune comunità, e non trovando un buon direttore spirituale visse per tre anni in solitudine guidandosi con le opere dei santi Padri, finché giunse all’Athos un santo starez che aveva conosciuto in Moldavia, il quale gli consigliò di vivere con due o tre fratelli, e nel 1750 lo ammise, all’età di 28 anni, alla professione monastica con il nome di Paisij. Presto attorno a lui si formò una comunità di dodici fratelli romeni e slavi, e anche per la loro insistenza a 36 anni accettò di essere ordinato sacerdote. Trasferitosi nella kellia di sant’Elia, più ampia, iniziò a ricercare e a tradurre in slavo testi patristici greci, facendosi aiutare anche dai suoi discepoli. Se le precedenti migrazioni erano state scelte da Pietro- Paisij, nel 1763 iniziarono quelle determinate dalle circostanze: con 64 monaci in tale anno rientrò in Moldavia, dove venne messo a sua disposizione dalle locali autorità ecclesiastiche e civili l’ampio, vuoto monastero dello Spirito Santo a Dragomirna; e in tre anni il numero dei fratelli si triplicò. Per loro Paisij scrisse un Ustav [Regola] secondo le norme già date da san Basilio il Grande, da san Feodosij di Kiev e da san Teodoro Studita, verificate nell’esperienza di diversi anni e che venivano diligentemente osservate dai monaci. Introdusse anche l’uso di conferenze spirituali alla comunità, che nei mesi invernali si riuniva fino alla Settimana Santa (una sera il gruppo di lingua moldava e l’altra di lingua slava) per ascoltare gli insegnamenti di Giovanni Climaco, dell’abate Doroteo, di Simeone il Nuovo Teologo e di altri Padri. S’intensificava pure il lavoro di traduzione delle loro opere, il cui frutto più prezioso sarà la Dobrotoljubie [Amore del bene], traduzione della Filocali di Nicodemo e Macario preparata in greco al monte Athos.

            In seguito alla conclusione della guerra russo-turca, una parte della Moldavia settentrionale, dove si trovava Dragomirna, fu ceduta all’Austria e, temendo le vessazioni degli Asburgo, Paisij si spostò coi suoi 350 monaci a Secu nel 1775. I fratelli aumentavano e quando per costruire nuove celle venne chiesto aiuto al principe Costantino Moruzi questi, consigliato dal metropolita Gabriele, gli ingiunse di trasferirsi a Neamt, distante pochi chilometri da Secu, nel più grande monastero del paese. Ciò avvenne nel 1779: una parte dei monaci rimase a Secu e Paisij fu superiore di entrambi i monasteri. «È l’ultima tappa della vita del grande starets, quella che lascerà i segni più duraturi e di maggior risonanza […] Neamt in quegli anni era diventato il centro del monachesimo ortodosso, scuola della vita esicasta e della cultura spirituale per tutto l’Oriente ortodosso» [3]. Nel 1790 venne nominato archimandrita dall’arcivescovo russo Amvrosij che lo visitò; e dell’incontro con lui avvenuto dieci anni prima, un laico, il nobile greco Costantino Karagias, ci ha lasciato una vivida desrizione: «Lo incontrai allora per la prima volta. Con i miei occhi vidi la stessa virtù materializzata, un uomo libero dalle passioni e assolutamente trasparente. La sua figura mi appariva dolcissima, il suo viso bianchissimo, come esangue. La sua barba era tutta bianca e luccicante, pulitissima. Era molto dolce nel conversare, senza alcuna finzione» [4].

            Erano ormai un migliaio i suoi monaci di diverse nazionalità (russi, romeni, serbi, greci e bulgari) quando, dopo breve malattia, morì il 15 novembre 1794, alla vigilia del suo sessentaduesimo compleanno. Venne sepolto nella chiesa dell’Ascensione del Signore del monastero di Neamt. «La vita e l’opera dello starets Paisij hanno influito nella storia di centinaia di monasteri russi», afferma il metropolita Juvenalij [5], vivente, e anche nel libro di Ivan Kologrivov, Santi russi, un intero capitolo è dedicato a «Paisij Veličkovskij e gli inizi della rinascita mistica» [6].

            Oltre all’indefessa attività epistolare e di traduzione, Paisij ci ha lasciato alcuni scritti, tra cui i Capitoli sulla preghiera interiore, dove si vede quale importanza egli attribuisce alla preghiera detta «di Gesù» o «del cuore», al cui formula conclude il Tropario alla preghiera in onore del santo [7]. «Essa permette di restare interioremente uniti a Gesù, perché questo ricordo purifica e santifica tutti i pensieri e i sentimenti di colui che prega e orienta tutte le sue azioni verso l’adempimento dei comandamenti di Cristo […] Invocare il suo Nome è già averlo in sé. La potenza del Nome del Salvatore infiamma il cuore di un amore ineffabile e divino» [8]. Nel Contacio invece, oltre a ricordare che il santo ha «nutrito le nostre anime di scritti patristici», lo si esalta quale rinnovatore dello starčestvo [«direzione, guida spirituale»] nella patria russa. I suoi discepoli, e furono molti, lo diffusero poi in luoghi diversi, continuandolo nel tempo, e il fenomeno venne studiato nelle biografie di Paisij o in appositi studi [9]. Si capisce quindi perché ancor prima della canonizzazione ufficiale, avvenuta nel 1988, durante le celebrazioni per il Millennio del Battesimo della Rus’, egli fosse stimato, venerato, ricordato e proposto ad esempio. Basti segnalare che le venti pagine su di lui nel citato volume di Kologrivov Santi russi furono pubblicate inizialmente nel 1952 [10].

 

 

Tropario - Tono 2

Vissuto sulla terra come pellegrino, hai raggiunto la celeste patria, santo monaco padre Paisij, dopo esserti esercitato nell’amore della virtù; ai fedeli hai insegnato a elevare verso Dio la loro mente e a invocarlo col cuore: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore.

 

Kontakion - Tono 8

Scelto zelatore della vita monastica, come un’ape laboriosa hai nutrito le nostre anime di scritti patristici, guidando ciascuno di noi sulla via della salvezza, per cui ti cantiamo: rallegrati, saggio padre Paisij, rinnovatore dello starčestvo [paternità spirituale] nella nostra patria.

 

 

Note

[1] Curato dalla Comunità dei Fratelli Contemplativi di Gesù, è stato pubblicato nel 1988 dall’Abbazia di Praglia (Pd). A. p. 48 dell’«Introduzione» si cerca di spiegare l’incompletezza del testo. La trascrizione italiana di starez è spesso data in modo diverso (ad es. starets).

[2] Così viene tuttora chiamata nell’Oriente bizantino una comunità monastica piccola, intermedia tra l’eremo e il cenobio.

[3] P. VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno Starets, cit., 22, n. 1.

[4] Cfr. ivi, 13, in cui si riporta la testimonianza da un libro in greco, edito a Salonicco nel 1963.

[5] Il metropolita Juvenalij lo scrive nel «Rapporto» presentato al Sinodo della Chiesa russa (6-9 giugno 1988) per le Canonizzazioni, cit., 104.

[6] Op. cit., 397-416.

[7] Segue il Contacio, cui si fa riferimento nelle righe successive.

[8] L. C. ALTISSIMO, I nuovi santi nella Chiesa russa, in «Studi ecumenici», 4 (ott-dic. 1989), 409. presentando Paisij Veličkovskij.

[9] A. PIOVANO, Santità e monachesimo in Russia, La Casa di Matriona, Milano 1990; a. p. 146ss. dà un elenco di sette pagine di starzi discepoli di Paisij. Cfr. anche P. VELIČKOVSKIJ, op. cit., 9-12.

[10] Pubblicato col titolo saggio sulla santità in Russia, da Queriniana, Brescia 1955, ma nella Prefazione l’A. mette la data del 1952 e riferisce che si tratta essenzialmente delle lezioni da lui tenute al Pontificio Istituto Orientale di Roma dal 1947 in poi.

 

Da: M. DONADEO, Preghiere a S. Andreij Rubliov e ad altri santi russi canonizzati dal Patriarcato di Mosca dal 1977 al 1993, 47-52.




I due tipi di preghiera

di san Paisij Veličkovskij


Bisogna sapere che secondo gli scritti dei santi padri ci sono due tipi di preghiere spirituali: uno per i principianti, che può essere paragonato all’azione (prâxis), e l’altro per i perfetti, che corrisponde alla contemplazione (theorìa). La prima è l’inizio, la seconda il punto di arrivo, poiché “agire” significa innalzarsi per “contemplare”. Proprio in questo sta infatti ogni sforzo ascetico quando si lotta con l’aiuto di Dio: si combatte per l’amore di Dio e del prossimo, per la dolcezza, la pazienza e l’umiltà e per adempiere tutte le altre leggi di Dio e dei padri; si combatte per la perfetta obbedienza dell’anima e del corpo, per i digiuni, le veglie, la contrizione, le genuflessioni e tutte le altre mortificazioni della carne, per l’esatta osservanza delle prescrizioni riguardanti l’ufficio divino e la preghiera in cella, per l’esercizio spirituale della preghiera privata, per le lacrime e la meditazione sulla morte. Tutto questo è lotta fintanto che la nostra ragione umana è preda dei nostri capricci e della nostra testardaggine. Tutto questo, lo si sa bene, può essere chiamato “agire”, “azione”, prâxis. Ma “vedere” e “contemplare”, tutto ciò ancora non lo è.

Quando però, con l’aiuto di Dio, attraverso questo combattimento e soprattutto in grande umiltà, l’uomo è arrivato a lavare la sua anima e il suo cuore da ogni impurità spirituale e dai godimenti della carne, allora interviene la grazia divina, nostra comune madre: essa illumina la nostra ragione, la prende per mano come la madre fa con il suo bambino, la fa salire gradino per gradino e le rivela, a seconda del grado della sua purezza, i misteri indicibili e insondabili di Dio. Questa è la vera visione, la contemplazione (theorìa).

Preghiera contemplativa - la “preghiera pura” di Isacco il Siro - sguardo rispettoso su Dio stesso: ecco cos’è. Che nessuno abbia ad avventurarsi in questa contemplazione con le sue proprie forze o di testa propria, senza che Dio lo visiti e lo guidi con la sua grazia. “Se, ciò nonostante, qualcuno avesse la pretesa di innalzarvisi senza la luce della grazia divina, sappia che, dice san Gregorio il Sinaita, le sue visioni sono solo chimere proiettate in lui dall’inganno del maligno”.

 

Da: P. VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno Starec, Magnano (BI), 1998, 201-202.

martedì 27 novembre 2012

san Filippo apostolo

icona di Maria Marciandi

Santo apostolo Filippo degno di ogni lode

14 (27) Novembre

 

 

Lettura del santo Evangelo secondo Giovanni

1, 43-51

Il giorno seguente, Gesù desiderava partire per la Galilea; trovò Filippo e gli disse: «Seguimi». Or Filippo era di Betsaida, la stessa città di Andrea e di Pietro. Filippo trovò Natanaele e gli disse: «Abbiamo trovato colui, del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti: Gesù da Nazaret, il figlio di Giuseppe». E Natanaele gli disse: «Può venire qualcosa di buono da Nazaret?». Filippo gli disse: «Vieni e vedi». Gesù vide venirgli incontro Natanaele e disse di lui: «Ecco un vero Israelita, in cui non c’è inganno». Natanaele gli disse: «Come fai a conoscermi?». Gesù gli rispose, dicendo: «Ti ho visto quando eri sotto il fico, prima che Filippo ti chiamasse». Natanaele, rispondendogli, disse: «Maestro, tu sei il Figlio di Dio; tu sei il re d’Israele». Gesù rispose e gli disse: «Poiché ho detto di averti visto sotto il fico, tu credi; vedrai cose maggiori di queste». Poi gli disse: «Amìn, amìn io vi dico che da ora in poi vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo».

 

 

 

Dalle Memorie Apostoliche di Abdia primo vescovo di Babilonia

LIBRO X

Sulle opere compiute dal beato Filippo apostolo

 

[1] Filippo, conterraneo di Pietro e Andrea, proviene dal villaggio di Betsaida di Galilea; chiamato subito dopo Pietro, pervenne poi all’onore dell’apostolato. Per avere un compagno nella sua conversione condusse a Cristo un familiare, Natanaele, che Cristo disse subito di aver conosciuto sotto un fico prima che glielo presentasse Filippo. Meravigliato di ciò, Natanaele, il quale prima non aveva mai visto il Cristo, ben volentieri lo seguì, e rimase sempre in compagnia di Filippo.

Questi, prima della passione, avendo udito durante la cena che nessuno poteva andare al Padre se non per mezzo di lui, cominciò a pregare il Maestro di manifestare il Padre a lui e ai discepoli; cosa che egli, in verità, aveva detto per amore della vita eterna. Ma Cristo riprese Filippo, giacché, pur essendo stato tanto tempo con lui, non lo conosceva ancora bene. La fede evangelica ci attesta che tutto ciò fu compiuto da Filippo prima della passione di Cristo.

[2] Dopo l’Ascensione del Salvatore, il beato Filippo per vent’anni predicò incessantemente il vangelo ai gentili, nella Scizia. Quivi arrestato dai gentili, fu condotto davanti alla statua di Marte e costretto a sacrificare; ma dal piedestallo della statua di Marte uscì un grande drago che colpì il figlio del sacerdote che provvedeva al fuoco del sacrificio; colpì anche due tribuni che erano a capo della provincia i cui ufficiali avevano custodito l’apostolo in carcere.

Contaminati dall’alito del dragone si ammalarono tutti seriamente.

Vedendo ciò l’apostolo disse: “Ascoltate il mio consiglio e riavrete la salute: e coloro che morirono risusciteranno tutti; lo stesso dragone che vi è stato velenoso sarà scacciato nel nome di Dio”. Gli dissero i malati: “Che cosa dobbiamo fare?”. L’apostolo rispose: “Buttate via questo Marte, fatelo a pezzi e al suo posto ponete la croce del Signore nostro Gesù Cristo e adoratela”. Allora quelli che stavano male cominciarono a dire: “Ricuperiamo la salute, buttiamo via Marte”.

Fattosi silenzio l’apostolo disse: “Ti ordino, o dragone, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di uscire da questo luogo e di andare ad abitare in un luogo deserto, dove l’uomo non può entrare e dove non v’è per l’uomo alcuna utilità, così che andandovi non farai male ad alcuno”. Quel pessimo dragone allora se ne uscì e andò via veloce, né più si fece vedere.

Filippo poi risuscitò il figlio del pontefice che provvedeva al fuoco, i due tribuni, morti prima, e restituì la salute a tutti coloro che erano stati contaminati dall’alito del dragone.

E così quanti perseguitavano l’apostolo Filippo fecero penitenza e credendolo un dio lo adoravano.

[3] Egli poi li ammaestrò continuamente per un anno, sulla venuta del Signore per il mondo in pericolo; come era venuto al mondo da una vergine, come patì, fu sepolto, risuscitò il terzo giorno, e come abbia confermato le cose che aveva detto prima della passione, come ascese al cielo mentre gli apostoli lo contemplavano, come mandò lo Spirito santo che aveva promesso, il quale, venuto come fuoco, si posò sopra i dodici apostoli, e come abbia istillato le lingue di tutti e i modi di parlare nelle menti dei suoi apostoli. “Io stesso, membro di questo numero, sono stato mandato qui per farvi sapere che i vostri dèi sono vani e nemici a coloro che li venerano”.

Dopo queste parole l’apostolo ne disse altre simili: tutti credettero, spezzarono il simulacro di Marte e molte migliaia di persone furono battezzate. Lo stesso apostolo, dopo aver ordinato sacerdoti, diaconi e anche un vescovo, e costituite inoltre molte Chiese, a motivo di una divina rivelazione ritornò in Asia e si sistemò nella città di Gerapoli. Qui estinse la maligna eresia degli ebioniti, i quali insegnavano che il Figlio di Dio nato dalla Vergine non aveva assunto un vero corpo umano.

[4] V’erano costà pure due figlie dell’apostolo, vergini santissime attraverso le quali Dio conquistò una moltitudine di vergini.

Sette giorni prima della sua morte, Filippo chiamò a sé tutti i sacerdoti e i diaconi, nonché i vescovi delle città vicine e disse loro: “Il Signore mi concesse questi sette giorni di vita: perciò siate memori della dottrina del Signore nostro Gesù Cristo, e siate virilmente saldi di fronte alle insidie del nemico. Il Signore compia le sue promesse, e fortifichi la sua Chiesa”.

Predicando queste e altre simili cose l’apostolo del Signore, Filippo, se ne andò al Signore all’età di ottantasette anni; e in quella stessa città di Gerapoli fu sepolto il suo corpo santo.

Nello stesso sepolcro, dopo parecchi anni, furono sepolte le due sante vergini, una a destra e l’altra a sinistra.

Per intercessione dell’apostolo quivi vengono concessi benefici divini a tutti coloro che credono in Dio Padre invisibile, incomprensibile, immenso che nessun uomo vide né può vedere, e nel suo unigenito Signore nostro Gesù Cristo che fu crocifisso per i delitti del mondo, e infine nello Spirito santo paraclito, illuminatore delle nostre anime, ora e sempre, per gli infiniti secoli dei secoli. Così sia.

 

 

Dalla Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea
 
Morte di Giovanni e di Filippo.

 

Abbiamo già riferito nelle pagine precedenti il tempo e il genere di morte di Pietro e Paolo, e anche il luogo in cui sono stati deposti i loro corpi, dopo che lasciarono questa vita.

Come pure si è già precisato quando morì Giovanni. Il luogo della sua sepoltura è indicato in una lettera che Policrate, vescovo della diocesi di Efeso, scrisse a Vittore, vescovo di Roma. In essa sono così ricordati lo stesso Giovanni e l’apostolo Filippo con le sue figlie:

“Grandi astri si sono spenti in Asia, ma risorgeranno l’ultimo giorno dell’avvento del Signore, quando scenderà in gloria dal cielo a richiamare tutti i santi: Filippo, uno dei dodici apostoli, riposa a Hierapolis con due sue figlie che si serbarono vergini tutta la vita, mentre la terza, vissuta nello Spirito Santo, è sepolta ad Efeso; anche Giovanni, colui che si abbandonò sul petto del Signore, che fu sacerdote e portò il “petalon” (Lamina d’oro fissata sulla mitra del sacerdote presso gli Ebrei), martire e maestro, giace ad Efeso”.

Questo è ciò che concerne la loro morte. E nel dialogo di Gaio sopra citato, Proclo, contro cui egli disputava, concorda con noi su quanto abbiamo esposto riguardo alla morte di Filippo e delle sue figlie, e dice: “Dopo di lui vi furono a Hierapolis in Asia quattro profetesse, figlie di Filippo: la loro tomba è là, ed anche quella del loro padre”. Questo è ciò che egli riferisce.

Anche Luca, negli Atti degli apostoli, menziona le figlie di Filippo, che vivevano allora insieme con il padre a Cesarea di Giudea ed avevano ottenuto il dono della profezia, e dice: “Giungemmo a Cesarea, ed entrati nella casa di Filippo l’evangelista, che era uno dei sette, restammo da lui. Aveva quattro figliole non maritate, che erano profetesse”.

 

 

Tropario - Tono 3

Santo apostolo Filippo, intercedi presso il Dio misericordioso, perché conceda alle anime nostre la remissione delle colpe.

 

Kontakion - Tono 8

Il tuo discepolo e amico, e imitatore della tua passione, ti ha proclamato Dio a tutta la terra, l’ispirato Filippo. Per le sue suppliche, custodisci dagli empi nemici la tua Chiesa e tutta la città, mediante la Theotokos, o misericordiosissimo.

lunedì 26 novembre 2012

San Giovanni Crisostomo

 
Immagine di S. Giovanni Crisostomo in S. Maria Maggiore



San Giovanni Crisostomo arcivescovo di Costantinopoli

13 (26) Novembre


 

Tropario di San Giovanni Crisostomo, Tono 8

La grazia della tua bocca, che come torcia rifulse, ha illuminato tutta la terra, ha deposto nel mondo tesori di generosità, e ci ha mostrato la sublimità dell’umiltà. Mentre dunque ammaestri con le tue parole, o padre Giovanni Crisostomo, intercedi presso il Verbo, Cristo Dio, per la salvezza delle anime nostre.

 

Kontakion di San Giovanni Crisostomo, Tono 6

Dai cieli hai ricevuto la divina grazia, e con le tue labbra ammaestri tutti ad adorare l’unico Dio nella Trinità. Giovanni Crisostomo, santo beatissimo, noi, com’è degno, ti celebriamo: tu sei infatti nostro maestro, perché ci manifesti le realtà divine.

 

 

Dalle Omelie di san Giovanni Crisostomo

(Prima dell’esilio, nn. 1-3; PG 52, 427*-430)
 

Molti marosi e minacciose tempeste ci sovrastano, ma non abbiamo paura di essere sommersi, perché siamo fondati sulla roccia. Infuri pure il mare, non potrà sgretolare la roccia. S’innalzino pure le onde, non potranno affondare la navicella di Gesù. Cosa, dunque, dovremmo temere? La morte? «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). Allora l’esilio? «Del Signore è la terra e quanto contiene» (Sal 23,1). La confisca de beni? «Non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via» (1Tm 6,7). Disprezzo le potenze di questo mondo e i suoi beni mi fanno ridere. Non temo la povertà, non bramo ricchezze non temo la morte, né desidero vivere, se non per il vostro bene. È per questo motivo che ricordo le vicende attuali e vi prego di non perdere la fiducia.

Non senti il Signore che dice: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»? (Mt 18,20). E non sarà presente là dove si trova un popolo così numeroso, unito dai vincoli della carità? Mi appoggio forse sulle mie forze? No, perché ho il suo pegno, ho con me la sua parola: questa è il mio bastone, la mia sicurezza, il mio porto tranquillo. Anche se tutto il mondo è sconvolto, ho tra le mani la sua Scrittura, leggo la sua parola. Essa è la mia sicurezza e la mia difesa. Egli dice: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

           Cristo è con me, di chi avrò paura? Anche se si alzano contro di me i cavalloni di tutti i mari o il furore dei principi, tutto questo per me vale di meno di semplici ragnatele. Se la vostra carità non mi avesse trattenuto, non avrei indugiato un istante a partire per altra destinazione oggi stesso. Ripeto sempre: «Signore, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42). Farò quello che vuoi tu, non quello che vuole il tale o il tal altro. Questa è la mia torre, questa la pietra inamovibile, il bastone del mio sicuro appoggio. Se Dio vuole questo, bene! Se vuole ch’io rimanga, lo ringrazio. Dovunque mi vorrà, gli rendo grazie.

Dove sono io, là ci siete anche voi. Dove siete voi, ci sono anch’io. Noi siamo un solo corpo e non si separa il capo dal corpo, né il corpo dal capo. Anche se siamo distanti, siamo uniti dalla carità; anzi neppure la morte ci può separare.

Il corpo morrà, l’anima tuttavia vivrà e si ricorderà del popolo. Voi siete i miei concittadini, i miei genitori, i miei fratelli, i miei figli, le mie membra, il mio corpo, la mia luce, più amabile della luce del giorno. Il raggio solare può recarmi qualcosa di più giocondo della vostra carità? Il raggio mi è utile nella vita presente, ma la vostra carità mi intreccia la corona per la vita futura.

 

Sant’Adalberto di Bergamo

 
Sant’Adalberto il Misericordioso vescovo di Bergamo

13 (26) Novembre

 

M. R. Bergomi sancti Adelberti Episcopi et Confessoris cujus res admirandae leguntur.

 

 

DEL B. S. ADALBERTO VESCOVO DI BERGAMO.
 

Questi fu figliuolo di Atone onorato Cittadino di Bergamo, della nobile, & antica famiglia de Carimali. Salì per i suoi molti, & illustri meriti dalla dignità Canonicale alla Prepositura, poscia all’Archidiaconato della Catedrale di Sant’Alessandro, indi creato Vescovo di Bergamo in luogo di Recone, non pur si dimostrò buon Padre, & Pastore, ma ottimo Principe d’avvantaggio. Fu molto amator de poveri, amato dalle sue dilette pecorelle, & molto stimato, & onorato anco da Principi stranieri: percioche Berengario Imperatore in grazia del santo Vescovo Adalberto visitò i Santi Corpi della Catedrale, & li donò frà l’altre cose una corona d’oro fregiata di preziose gioje, & le concesse onoratissimi indulti, & privilegi: & la restituzione de suoi beni a molti Cittadini: Arricchì di molti poderi il Vescovato, cui sottopose di più anco la Città con tutto il Territorio. Onde ritornato il buon Vescovo da Roma, si diede a ristorare le rovine della Città, & massime delle Chiese, incominciando dalla sua Catedrale di S. Alessandro. Reedificò la Canonica, ove riunì i Canonici sparsi per la Città: Trasferì dall’Oratorio di S. Pietro, nel luogo detto sotto confessione, over Scurolo della Catedrale i Corpi de Santi Narno, Viatore, & Alessando (sic): cinse di nuove mura la Città, & richiamò alle paterne Case i Cittadini: molti de quali riscosse da gli Ongari de suoi proprj danari: divise il Collegio de Canonici in due Congregazioni, de quali parte mandò ad officiar la Chiesa di S. Agnese, da lui poscia ridotta in maggior, & miglior forma, al gran martire S. Vincenzo dedicata, & parte rimase in S. Alessandro. Fundò, & dottò la Capella della Santissima Trinità: & ordinò doppo la sua morte, che seguì l’anno 935. alli 13. di Novembre, avanti la Porta della Chiesa di S. Alessandro esser sepolto. Per il che la nostra Città (non potendo ella di più aggradire i molti, & gloriosi meriti di questo suo buon Padre Principe, & Pastore) decretò che sopra la sua sepoltura fosse in un bel marmo, per mano d’eccellentissimo Scultore, la di lui Veneranda effigie intagliata: la qual quinci fu poscia sopra la porta al lato destro, con questo bel distico a piedi eretta.
 
 
Quisquis Alexandri properas adlimina Sancti

Semper Adalberti Praesulis, esto memor.

Di questo si legge nella sotto loggia del maggior Conseglio questo illustre Elogio, che la nobilissima Pittura rappresenta.
 
 
Adalbertus Carimalus Bergomi Civis, & Praesul tam mirae fuit sanctitatis, & in restauranda diruta Civitate, & sacris aedibus impiorum manu combustis tam solers: Ut Berengarius Imperator ingentes ejus virtutes admiratus eum visitare, & in ejus gratiam D. Alexandri nostri Tutelares numinis Templum ampliss.muneribus bonestare veluerit. Anno Domini 903.

Et Gio. Filippo Novarese Canonico Regolare nella sua Istoria dell’Ordine, non solamente chiama Adalberto con titolo di Santo, ma di Cardinale ancora: oltra quello, ch’el Paterno Teatro ne risuona nella prima parte: mà il coro de Beati su nel Ciel assai più degnamente.

 

Da: MARIO MUTIO, Sacra istoria di Bergamo, Milano, 1719, 207-208.

 

 

Tropario di Sant’Adalberto il Misericordioso, Tono 2

Hai disperso per i poveri la tua ricchezza, e ora hai ricevuto la ricchezza dei cieli, Adalberto sapientissimo; per questo noi tutti ti veneriamo, celebrando la tua memoria, o tu che trai dalla misericordia il tuo nome.

 
Kontakion di Sant’Adalberto il Misericordioso, Tono 8

Con la tua pazienza ti sei acquistato la ricompensa, padre santo, perché hai perseverato incessantemente nelle preghiere, amato i poveri, e provveduto per loro. Intercedi dunque presso il Cristo Dio, o beato Adalberto misericordioso, per la salvezza delle anime nostre.

 


 

ADALBERTO


Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 1 (1960)

di Giovanni Cremaschi

 

ADALBERTO. - Vescovo di Bergamo, nacque di nobile famiglia: il padre Attone, "de Carimalo" (probabilmente Carimate), che possedeva moltissimi beni nel Bergamasco e nel territorio di Como, partecipò attivamente alla vita politica. L’episcopato di A. si iniziò tragicamente: nell’894 Arnolfo re di Germania, dopo barbaro saccheggio e feroci stragi, distrusse Bergamo e fece prigioniero, con i capi delle principali famiglie, il vescovo A., deportandolo quindi a Magonza. Nello stesso anno, però, il re gli concedeva di ritornare in sede, e in prova del suo favore, con diploma del 1 genn. 895, confermava alla Chiesa di Bergamo i privilegi anteriormente ricevuti. L’attività di A. fu volta ad un’alacre opera di ricostruzione. Nell’896 riparò dalle rovine e abbellì la cattedrale di S. Alessandro, costruendovi una nuova confessione, nella quale furono poste le reliquie dei santi Alessandro, Narno e Viatore; altre chiese costruì poi nella diocesi. Per il clero destinato al servizio ordinario dell’altra cattedrale di S. Vincenzo, istituì la vita in comune: a tale scopo nell’897 fece costruire attigua alla chiesa la canonica di S. Vincenzo e la dotò, anche a beneficio dei poveri, di molti beni, aumentati con donativi, consolidati e ancora accresciuti per conferme e concessioni varie di re e imperatori, e infine con i suoi legati testamentari del 928. Con permute e contratti vari riorganizzò il patrimonio suo e delle chiese. L’attività e il prestigio sempre crescente conciliarono ad A. favore e ascendente su re e imperatori.

Verso l’899, Berengario I gli concesse proprietario iure una parte della curtis regia di Murgula (presso il torrente Morla, che ne conserva il nome, e nella zona dell’attuale quartiere di Borgo Palazzo, in Bergamo bassa), nonché i diritti sulla fiera annuale, detta di S. Alessandro: questi ultimi furono nel 908 e di nuovo nel 911 ceduti da A. ai canonici di S. Vincenzo e la cessione confermata da Berengario nel 913. Agli stessi canonici A. lasciò per testamento anche i diritti su un altro mercato che si teneva settimanalmente in città. Nel 901 A. accompagnò Ludovico III nel viaggio a Roma per l’incoronazione imperiale. Del favore del nuovo sovrano è testimonianza un diploma del 25 marzo dello stesso anno, con il quale vengono confermati alla Chiesa di Bergamo i suoi possessi, che risultavano alquanto compromessi per la distruzione dei diplomi causata in quel torno di tempo dall’invasione ungara.

Tra quei possessi sono nominati esplicitamente la chiesa di S. Alessandro in Fara, il monastero di S. Salvatore in Bergamo e il monastero di S. Michele di Cerreto. Altri due analoghi diplomi di Ludovico III, largamente citati dagli storici bergamaschi, sono in realtà falsificazioni, almeno nella forma in cui ci sono pervenuti (I diplomi italiani di Lodovico III...,pp. 69, 71, 91).

Il 21 febbr. 904, Berengario I, tornato al potere, donò alla cattedrale di S. Alessandro la restante parte della corte di Murgula ed il 23 giugno successivo permise al vescovo e ai cittadini di Bergamo di ricostruire le mura, le porte e le torri necessarie per la difesa contro gli Ungari; inoltre, con speciali clausole, il sovrano dispose che, non solo le nuove fortificazioni, ma tutte le proprietà pubbliche fossero poste sotto la protezione e dipendenza di A. e dei vescovi suoi successori. Nello stesso diploma del 23 giugno 904 fu concessa alla Chiesa bergamasca una piena immunità giurisdizionale e fiscale. Da questo momento A. divenne il vero capo della città, in sostituzione del conte.

In un momento non precisato tra il 906 e il 910 troviamo A. come messo regio in Pavia, delegato da Berengario a presenziare un placito; nel novembre 915 interviene a un placito tenuto dal sovrano a Lucca. Sempre dallo stesso Berengario I ottiene tra il 905 e il 915 altri favori per la propria Chiesa, per il vescovo di Novara e per altri suoi amici e protetti. Il 3 clic. 922 il re Rodolfo II di Borgogna gli rinnova le concessioni del diploma di Berengario I del 23 giugno 904; lo stesso Rodolfo, nel novembre del 924, accede ad alcune richieste di A. in favore del monastero di S. Sisto di Piacenza e della Chiesa di Padova. Analoghe richieste accolse, nel 926 e 927, il nuovo re Ugo di Provenza, che tenne A. tra i suoi più autorevoli consiglieri: nostri per omnia fidelissimus,lo chiama in un suo diploma (I diplomi di Ugo...,p. 23).

Nel testamento, del 928, A. dispose che il suo corpo fosse sepolto a S. Vincenzo. Dai suoi legati per messe, luminarie, e in favore dei canonici e dei preti decumani di S. Vincenzo, o di chiese da lui fondate, si rileva ch’egli era proprietario di case e di fondi a Berzo, Villongo, S. Maria di Rosate, Presezzo, Calusco, Parre, Colgiate, presso S.. Andrea, presso la Morla, Gavarno, Sovere, Caleppio e presso il lago di Como. L’ultimo atto nel quale si legge il suo nome è del 929; ma la sua morte, nel necrologio di S. Vincenzo, è segnata al 13 nov. 935.

Fonti e Bibl.: M. Lupi, Codex diplomaticus civitatis et ecclesiae Bergomatis,I, Bergomi 1784, coll. 1009 ss.; II, ibid. 1799, coll. 1-182; I diplomi di Berengario I,a cura di L. Schiaparelli, Roma 1903, in Fonti per la Storia d’Italia,XXXV, pp. 124, 134, 174, 188, 245, 262, 406,412; I diplomi italiani di Lodovico III e di Rodolfo II, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1910, ibid.,XXXVII, pp. 34, 69, 71, 91, 97, 117, 120; I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1924, ibid.,XXXVIII, pp. 3, 6, 17, 20, 22; C. Manaresi, I placiti del "Regnum Italiae", I, Roma 1955, ibid.,XCII, n. 122 p. 457,n. 127 p. 475;F. Savio, Gli antichi vescovi d’Italia. La Lombardia,II, 1, Bergamo 1929, pp. 29-36; L. Dentella, I vescovi di Bergamo, ibid.1939, pp. 82-91; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi,I, Milano 1940, pp. 127, 206 n., 222 3., 234, 242.


 

 
 
Torre di Adalberto