giovedì 14 marzo 2013

Domenica del perdono (latticini) di Roberto Pagani

 


Domenica del perdono (latticini)

 
di Roberto Pagani

 

La preparazione alla Grande Quaresima termina con la domenica dei Latticini: il nome le deriva dal fatto che durante la settimana che la precede si possono ancora mangiare cibi derivati dal latte, possibilità che cesserà a partire dalla domenica sera. Un altro nome che identifica questa domenica, corrispondente al tema dominante dell’ufficiatura, è domenica del paradiso perduto (o dell’esilio di Adamo). C’è un ulteriore nome, forse il meno conosciuto ma sicuramente il più denso di significato, che è domenica del Perdono.

La pericope evangelica del giorno è Mt 6, 14-21: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe. E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”.

Questo brano segue immediatamente il Padre nostro, la preghiera che Gesù ci ha insegnato. San Giovanni Crisostomo ci dice che “nell’atto del perdono noi siamo più vicini a Dio di qualsiasi altro momento, perché perdonare vuol dire essere uguali a Dio”.

La vera essenza del male e della falsità è la divisione. Dostoevskij fa dire allo staretz Zosima nei Fratelli Karamazov che “ciascuno è colpevole di tutto di fronte a tutti”. Esagerazioni? Assurdità? Tutti ci sentiamo in qualche modo colpevoli di qualcosa nei confronti di qualcuno, almeno secondo quanto la nostra coscienza morale ci dice. Ma c’è qualcosa di più profondo e più sostanziale: il peccato è verso me stesso, è il mio amor proprio, la mia auto-latria, che si estrinseca poi nei confronti degli altri. In ultima analisi, il peccato è contro Dio in quanto non lo riconosciamo Signore. Solo riscoprendo questa verità, possono risuonare anche le parole dette non molto tempo prima di Dostoevskij da san Serafino di Sarov: “Salva te stesso, e migliaia attorno a te troveranno la salvezza”.

 
 


L’uomo è stato creato per il paradiso, per conoscere Dio e vivere in comunione con lui, ma il suo peccato l’ha privato di questa vita di benedizione e così la sua esistenza sulla terra è in esilio. Cristo, il Salvatore del mondo, apre la porta del paradiso a chiunque si mette alla sua sequela, e la Chiesa, rivelandoci la bellezza del Regno, fa della nostra vita un pellegrinaggio verso la patria celeste. Questo pellegrinaggio diventa esplicito nella Quaresima, il nostro vagare nel deserto per 40 giorni, la nostra liberazione dalla schiavitù del peccato, dalla prigione di questo mondo. Così l’evangelo domenicale pone le condizioni per questa liberazione: digiuno e perdono. Il digiuno è inteso come rifiuto della sottomissione all’istinto, agli impulsi della natura, alla signoria dello spirito, combattimento che deve avvenire nella camera del nostro cuore. La divisione è segno del trionfo del peccato nel mondo, e il perdono è ricondurre a Cristo i vicoli ciechi delle relazioni umane, è una irruzione della logica del Regno in questo nostro mondo. Abbiamo costruito troppi muri che ci separano dagli altri e, ultimamente, da Dio. Durante la Quaresima la Chiesa ci chiama e, guardando la Croce di Gesù come apice dell’amore e della misericordia divina, come luogo della Gloria, ci invita a fare esperienza della dolcezza di questa misericordia attraverso il perdono. Il Sacramento della Confessione è la possibilità offerta a tutti di non rinchiudere nella sfera della nostra emotività tale dolcezza, ma farla discendere fin nel profondo del nostro cuore. Dopo aver fatto esperienza di questo perdono rigenerante, siamo a nostra volta chiamati a perdonare quanti ci hanno offeso e a chiedere perdono a quanti abbiamo offeso. Il perdono di Dio non è il punto di arrivo, ma solo un punto di partenza. Le opere di giustizia non sono la causa del perdono di Dio, ma solo la necessaria conseguenza.

Ci sono molte valide ragioni per digiunare, ma quella fondamentale è l’amore. Erma, un Padre della Chiesa della prima metà del secondo secolo, nella V similitudine del suo Pastore, fa una splendida esposizione del digiuno che traduce il precetto del Signore nella duplice dimensione, personale e comunitaria, di ascesi personale e di condivisione fraterna col nostro prossimo. Dio ci dice attraverso il profeta Isaia (Is 58, 6-7): Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?. Questo è il digiuno che piace a Dio. Giovanni Cassiano, nelle sue Conferenze, dice che “il Signore non giudica affatto il digiuno quale bene principale, perché piace a Dio non per sé stesso, ma per le altre opere buone che reca con sé. La misericordia, la pazienza, la carità non devono essere osservate per il digiuno, ma il digiuno per quelle”.

Quale tesoro ammassiamo in cielo? Cosa potremo reclamare in nostro favore di fronte al trono di Dio? Noi dobbiamo vivere in pienezza la vita che ci è data sulla terra, nella consapevolezza che è una preparazione per quella futura. Gesù ci dice che qualsiasi tesoro sulla terra durerà solo fino al termine della nostra vita terrena. Sono solo collezioni di polvere. Solo in Gesù troviamo tesori che non perderanno mai il loro valore. Quali sono questi tesori che Gesù ci invita ad accumulare? Sono il tesoro dell’amore, del perdono, del conoscere Gesù personalmente come nostro Signore e Salvatore. E ancora il tesoro della fede, che può muovere le montagne; il tesoro del fare la volontà di Dio; il tesoro della preghiera; il tesoro del servizio agli altri nel nome di Gesù Cristo.

Perdono e digiuno sono due elementi ricorrenti all’interno dell’ufficiatura del giorno, e sono inseriti in un quadro di riferimento che ha come tema centrale il paradiso perduto, ovvero l’esilio di Adamo. L’innografia ci consente di delineare uno splendido abbozzo dell’antropologia patristica. Sorprendentemente l’esegesi moderna, riflettendo sulla differenza tra immagine e somiglianza, si trova a ripercorrere le strade già tracciate dai padri greci, per i quali l’uomo è creato secondo l’immagine, e il suo destino è quello di ottenere la somiglianza con Dio. In generale, oltre al nostro rapporto con Dio, la somiglianza si riferisce al nostro essere collocati al di sopra dell’ordine creato, e costituisce il nostro stato di regalità, così come la prima metà della strofa del Lucernario rende evidente, intrecciando tra l’altro il racconto della creazione dell’uomo della tradizione jahvista di Gn 2,7 con la dignità regale dell’uomo della tradizione sacerdotale di Gn 1, 26: “Il Signore che mi ha plasmato, presa della polvere dalla terra, mi ha dato vita infondendomi un’anima con soffio vivificante, e mi ha onorato facendomi capo in terra di tutte le cose visibili, e simile agli angeli nella vita. Ma satana, il seduttore, servendosi come strumento del serpente, mi ha adescato con un cibo, mi ha separato dalla gloria di Dio, e mi ha consegnato alla terra, nelle profondità della morte. Ma tu, che sei sovrano pietoso, di nuovo richiamami a te”. Seguendo san Giovanni Crisostomo e sant’Ambrogio, il serpente diviene strumento del diavolo, invidioso del ruolo di Adamo ed Eva nel paradiso.


 
Espulsione di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre di Giovan Paolo Recchi
Bergamo, basilica di Santa Maria Maggiore
 
 
Una seconda strofa riprende Agostino (spoliazione dei primi abiti di innocenza ed immortalità a causa dell’orgoglio), Origene e Gregorio di Nissa (tuniche di pelle come simbolo della fragilità mortale): “Sono stato spogliato della tunica intessuta da Dio, perché ho disubbidito, Signore, al tuo divino precetto per suggerimento del nemico; e ora sono cinto delle tuniche di pelle e delle foglie di fico: sono condannato a mangiare con sudore pane di fatica e la terra è stata maledetta perché mi produca spine e tribolazioni. Ma tu che negli ultimi tempi ti sei incarnato dalla Vergine, richiamami, e fammi di nuovo entrare nel paradiso”.

Il paradiso, descritto con amore, riceve la supplica di Adamo: così come dopo la caduta Dio diede ai suoi passi un suono affinché Adamo ed Eva potessero prepararsi a fare una supplica davanti a lui (come commentano Efrem il Siro e Giovanni Crisostomo), così ora lo stesso suono, il fruscio delle foglie, costituisce la supplica per poter rientrare. “O paradiso preziosissimo, splendida bellezza, dimora costruita da Dio, gaudio e letizia senza fine, gloria dei giusti, delizia dei profeti e abitazione dei santi, col fruscio delle tue foglie supplica il Creatore dell’universo di aprirmi le porte che ho chiuso con la trasgressione, e di concedermi di aver parte all’albero della vita e alla gioia che un tempo ho goduto in te”.

L’ultima strofa del Lucernario ci invita a seguire le indicazioni evangeliche: “Cerchiamo tutti di accogliere il tempo del digiuno, ubbidendo a ciò che i vangeli ci hanno trasmesso, affinché divenuti così graditi al Cristo, di nuovo otteniamo di abitare nel paradiso”.

La strofa al Gloria della rogazione sottolinea la portata cosmica del peccato di Adamo: “Il sole nascose i suoi raggi, la luna e le stelle furono mutate in sangue, le montagne si scossero, le colline tremarono quando fu chiuso il paradiso”. Il peccato sovverte l’ordine nella creazione: la regalità di Adamo è a rischio, e l’allontanamento da Dio porta il cosmo a ritornare caos.


Nelle strofe che concludono il Vespero è riportato un dialogo consolante tra il vecchio e il nuovo Adamo: “Adamo è stato espulso dal paradiso per ciò che ha mangiato: seduto quindi dinanzi al giardino, gemeva alzando grida con voce lamentosa, e diceva: “Ahimè, cosa mai mi è successo, me infelice! Un solo comando del Sovrano ho trasgredito, e mi trovo privo di ogni sorta di beni. O meraviglioso paradiso, tu che per me sei stato piantato e per Eva sei stato chiuso, prega colui che ti ha fatto e che anche me ha plasmato, perché io possa saziarmi dei tuoi fiori. Gli dice dunque il Salvatore: io non voglio che vada perduta la creatura plasmata da me, ma che si salvi e giunga alla conoscenza della verità: chi viene infatti a me non lo caccerò fuori”. Se il desiderio di giungere alla conoscenza del bene e del male per essere come Dio aveva spinto l’uomo alla trasgressione, ora Cristo ci rassicura che attraverso la salvezza da lui portataci possiamo finalmente compiere il nostro desiderio.

Il Canone, che nei libri liturgici non ha indicato alcun autore ma che alcuni attribuiscono a Cristoforo il Protosecrita, sviluppa con ricchezza di immagini gli stessi temi, anche se a lungo andare forse non brilla per fantasia. Lasciamo dunque fluire, senza ulteriori commenti, alcuni dei tropari più interessanti seguendo l’ordine sequenziale delle Odi.

“Su, misera anima mia, piangi ciò che hai fatto, ricordando oggi come nell’Eden ti sei lasciata spogliare e sei stata perciò cacciata dalle delizie e dalla gioia senza fine”. “Per la tua sovrabbondante bontà, o Artefice e Signore, tu pianti in Eden il delizioso paradiso, ordinandogli di farmi godere dei suoi frutti splendidi, imperituri e pieni di soavità”. “Ahimè, misera anima mia! Come dunque non hai riconosciuto la frode? Come non hai avvertito l’inganno e l’invidia del nemico? Come ti sei invece lasciata ottenebrare l’intelletto e hai trasgredito il comandamento del tuo Creatore?” “Tu che sola hai ricoperto la nudità del caduto Adamo, grazie al tuo parto, o pura, rivestimi nuovamente di incorruttibilità”.





“Adamo fu estromesso dal paradiso di delizie a causa di un amaro cibo, non avendo custodito per incontinenza il comandamento del Sovrano; e fu così condannato a lavorare la terra dalla quale egli stesso era stato tratto, e a mangiare il proprio pane con molto sudore. Amiamo dunque la continenza per non gemere come lui stando fuori dal paradiso, ma piuttosto ritornare nel paradiso”. “È apparso ora il tempo delle virtù, e il Giudice è alle porte: non siamo mesti, ma offriamo piuttosto, digiunando, lacrime, compunzione ed elemosina, gridando: più della sabbia del mare sono stati i nostri peccati, ma tu a tutti perdona, o Redentore di tutti, perché possiamo avere la corona incorruttibile”. “Io, miserabile, ero stato gratificato di onore da parte tua, o Sovrano dell’Eden, ahimè, come sono stato ingannato, e, per l’invidia del diavolo, respinto lontano dal tuo volto!”. “Prato beato, alberi da Dio piantati, soavità del paradiso, su di me dalle foglie, come da occhi, stillate lacrime perché sono nudo ed estraniato dalla gloria di Dio”. “Santa Sovrana, che a tutti i credenti hai aperto le porte del paradiso, chiuse un tempo da Adamo con la trasgressione: aprimi le porte della misericordia”.

“Il nemico, odiatore dell’uomo, invidiandomi la vita felice del paradiso”. “Dalla terra sono stato plasmato per mano di Dio, e mi sono sentito dire, me infelice, di tornare di nuovo alla terra. Chi non piangerà su di me, respinto da Dio, che ho cambiato l’Eden con l’ade?”. “Mistico talamo di gloria, rendimi di nuovo famigliare al talamo del paradiso dal quale sono decaduto”.

“Misericordia, pietà, o Dio onnipotente, dell’opera delle tue mani; non disprezzare, te ne prego, o buono, colui che si è separato dal coro dei tuoi santi”. “Tu che hai partorito il Signore, Re e Redentore di tutti, richiamami dalla mia cattività al paradiso della gloria”.

“Partecipa, o paradiso, al dolore del padrone divenuto povero, e col fruscio delle tue foglie supplica il Creatore che non mi chiuda fuori”. “Cinto delle vesti della vergogna, in luogo della tunica luminosa, piango la mia perdizione”. “Un tempo hai onorato l’opera delle tue mani di ogni sorta di doni, o solo amico degli uomini”. “Eri stato fatto sovrano dei rettili e delle fiere: come dunque ti sei messo a conversare col serpente corruttore, prendendo a consigliere lo spirito maligno credendolo retto?”. “Ti celebriamo come luminosa dimora dell’incarnazione di Dio, o Maria, prediletta della divina grazia: illuminami dunque, paurosamente ottenebrato dalle passioni come sono, o luce di misericordia, speranza dei disperati”.

“Dolce al gusto mi parve nell’Eden il frutto della conoscenza, saziatomi del cibo, ma alla fine divenne fiele. Ahimè, anima mia, come ha potuto l’incontinenza estraniarti dalla dimora del paradiso?”. “Gemo, mi lamento e soffro, vedendo il cherubino con la spada di fuoco che ha avuto l’ordine di custodire l’ingresso dell’Eden, inaccessibile, ahimè, a tutti i trasgressori, a meno che tu, o Salvatore, non tolga per me ogni ostacolo”.

“Confido nell’abbondanza della tua misericordia, o Cristo Salvatore, e nel sangue del tuo fianco divino, col quale hai santificato la natura dei mortali e hai aperto a quanti ti servono, o buono, le porte del paradiso, chiuse un tempo da Adamo”.

L’esapostilario, al termine del Canone, proietta per la prima volta il cammino che ci aspetta verso la meta: “Cacciati in un primo tempo dal paradiso, o Signore, per aver mangiato dell’albero, ci hai di nuovo là introdotti grazie alla tua croce e alla tua passione, o mio Salvatore e Dio: con esse fortificaci, perché possiamo portare a compimento il digiuno con purezza e adorare la tua divina risurrezione, la pasqua salvifica, per intercessione di colei che ti ha partorito”.

Una strofa cantata nelle Lodi riprende l’immagine paolina della lotta nello stadio: “Lo stadio delle virtù è aperto: voi che volete lottare, entrate, dopo esservi cinti della bella lotta del digiuno: quanti infatti lottano secondo le regole saranno giustamente coronati; e dopo aver preso l’armatura della croce, disponiamoci in battaglia contro il nemico, tenendo stretta la fede come muro inespugnabile. La preghiera come corazza, l’elemosina come elmo, il digiuno, che recide ogni vizio del cuore, in luogo della spada”.

Con i vesperi della domenica inizia la Quaresima vera e propria. È proprio questo vespero che fa cambiare il nome della domenica: da “domenica dei Latticini”, o “dell’esilio di Adamo”, diventa “domenica del Perdono”, anche se questo nome non è riportato nel Triodion. I celebranti indossano paramenti chiari. Tutta la preparazione è giunta al termine: sto davanti a Dio, alla gloria e alla bellezza del suo Regno. Mi rendo conto da un lato di farne parte, di non avere altra gioia, altra meta, altra dimora, dall’altro di esserne esiliato, nella tenebra e nella tristezza del peccato.

Al Lucernario, una strofa di Giuseppe ci chiama a “umiliare la carne con la continenza, entrando nello stadio divino dell’immacolato digiuno, e con preghiere e lacrime, cerchiamo il Signore che ci salva”. Il tema delle lacrime diviene sempre più rilevante: “Purificandomi con le piogge del pentimento, fammi risplendere per il digiuno e la preghiera”. Una successiva strofa, di Teodoro Studita, sottolinea invece la dimensione della gioia, prefigurando la meta del nostro pellegrinaggio: “Cominciamo gioiosamente il tempo del digiuno, sottoponendoci alle lotte spirituali; rendiamo casta l’anima, purifichiamo la carne, digiuniamo tanto dai cibi quanto da ogni passione, godendo delle virtù dello spirito: perseverando in esse con amore, possiamo noi tutti ottenere di contemplare la venerabilissima passione del Cristo Dio e la santa pasqua, esultando spiritualmente”.

 



Dopo il Grande Prokimenon, nel quale chiediamo insistentemente a Dio di venire in nostro soccorso, i paramenti chiari vengono dismessi in favore di quelli scuri, le luci si spengono, e il coro inizia a cantare i Kyrie elèison litanici con le melodie quaresimali.

Nelle strofe che concludono i Vesperi, in una chiesa sempre più scura, la luce di Cristo risorto illumina tutti: “Ha rifulso la tua grazia, Signore, ha rifulso la luce del tuo volto; ecco il tempo accetto, ecco il tempo della conversione; deponiamo le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce, affinché, traversato il grande oceano del digiuno, giungiamo alla risurrezione il terzo giorno del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo, che salva le nostre anime”.
 




A questo punto, al termine dell’ufficio, si svolge uno dei riti più lontani dalla nostra logica terrena, ma più vicini alla logica dell’amore di Dio, cui ho avuto personalmente modo di partecipare in un monastero; tutti i fedeli si prostrano o si inginocchiano, e il presbitero, dopo aver baciato le icone di Cristo e della Madre di Dio, si rivolge ai fedeli dicendo: “Perdonatemi, fratelli e sorelle, qualsiasi peccato commesso volontariamente o involontariamente, in parole, in atti, o in pensieri, e pregate per me, peccatore”. Quindi si inginocchia, e i fedeli rispondono: “Dio ti perdoni; perdonaci e prega per noi”. E il sacerdote replica: “Dio vi perdoni e vi benedica”. Poi, dopo avere a loro volta venerato le sante icone, per avere ben chiaro il motivo per cui tutto questo sta avvenendo, i fedeli vanno singolarmente a chiedere il perdono di tutti i presenti, cominciando dal clero: ciascuno si inginocchia davanti all’altro, prima di scambiarsi l’abbraccio del perdono.

C’è un canto che accompagna questo gesto di purificazione e di riconciliazione, e non è casuale né fuori luogo che questo canto sia “Sorga Dio”, i versetti composti da san Giovanni Damasceno che si cantano nel mattutino di Pasqua, sulla melodia dei quali Nikolaj Rimskij-Korsakov ha musicato la sua Grande Pasqua russa. Uno di questi ci fa cantare: “Chiamiamo fratelli anche i nostri nemici, e perdoniamo tutti, a motivo della sua risurrezione”.

E se chiedendosi perdono molti piangevano, adesso è più facile che piangano tutti, ma di gioia!

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