Domenica del perdono (latticini)
di Roberto Pagani
La
preparazione alla Grande Quaresima termina con la domenica dei Latticini: il
nome le deriva dal fatto che durante la settimana che la precede si possono
ancora mangiare cibi derivati dal latte, possibilità che cesserà a partire
dalla domenica sera. Un altro nome che identifica questa domenica,
corrispondente al tema dominante dell’ufficiatura, è domenica del paradiso
perduto (o dell’esilio di Adamo). C’è un ulteriore nome, forse il meno
conosciuto ma sicuramente il più denso di significato, che è domenica del
Perdono.
La pericope
evangelica del giorno è Mt 6, 14-21: “Se
voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste
perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre
vostro perdonerà le vostre colpe. E quando digiunate, non assumete aria
malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli
uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la
gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre
tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Non accumulatevi tesori sulla
terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano;
accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e
dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà
anche il tuo cuore”.
Questo brano
segue immediatamente il Padre nostro, la preghiera che Gesù ci ha insegnato.
San Giovanni Crisostomo ci dice che “nell’atto del perdono noi siamo più vicini
a Dio di qualsiasi altro momento, perché perdonare vuol dire essere uguali a
Dio”.
La vera
essenza del male e della falsità è la divisione. Dostoevskij fa dire allo
staretz Zosima nei Fratelli Karamazov che “ciascuno è colpevole di tutto di
fronte a tutti”. Esagerazioni? Assurdità? Tutti ci sentiamo in qualche modo
colpevoli di qualcosa nei confronti di qualcuno, almeno secondo quanto la
nostra coscienza morale ci dice. Ma c’è qualcosa di più profondo e più
sostanziale: il peccato è verso me stesso, è il mio amor proprio, la mia
auto-latria, che si estrinseca poi nei confronti degli altri. In ultima
analisi, il peccato è contro Dio in quanto non lo riconosciamo Signore. Solo
riscoprendo questa verità, possono risuonare anche le parole dette non molto
tempo prima di Dostoevskij da san Serafino di Sarov: “Salva te stesso, e
migliaia attorno a te troveranno la salvezza”.
L’uomo è stato
creato per il paradiso, per conoscere Dio e vivere in comunione con lui, ma il
suo peccato l’ha privato di questa vita di benedizione e così la sua esistenza
sulla terra è in esilio. Cristo, il Salvatore del mondo, apre la porta del
paradiso a chiunque si mette alla sua sequela, e la Chiesa, rivelandoci la
bellezza del Regno, fa della nostra vita un pellegrinaggio verso la patria
celeste. Questo pellegrinaggio diventa esplicito nella Quaresima, il nostro
vagare nel deserto per 40 giorni, la nostra liberazione dalla schiavitù del
peccato, dalla prigione di questo mondo. Così l’evangelo domenicale pone le
condizioni per questa liberazione: digiuno e perdono. Il digiuno è inteso come
rifiuto della sottomissione all’istinto, agli impulsi della natura, alla signoria
dello spirito, combattimento che deve avvenire nella camera del nostro cuore.
La divisione è segno del trionfo del peccato nel mondo, e il perdono è
ricondurre a Cristo i vicoli ciechi delle relazioni umane, è una irruzione
della logica del Regno in questo nostro mondo. Abbiamo costruito troppi muri
che ci separano dagli altri e, ultimamente, da Dio. Durante la Quaresima la
Chiesa ci chiama e, guardando la Croce di Gesù come apice dell’amore e della
misericordia divina, come luogo della Gloria, ci invita a fare esperienza della
dolcezza di questa misericordia attraverso il perdono. Il Sacramento della
Confessione è la possibilità offerta a tutti di non rinchiudere nella sfera
della nostra emotività tale dolcezza, ma farla discendere fin nel profondo del
nostro cuore. Dopo aver fatto esperienza di questo perdono rigenerante, siamo a
nostra volta chiamati a perdonare quanti ci hanno offeso e a chiedere perdono a
quanti abbiamo offeso. Il perdono di Dio non è il punto di arrivo, ma solo un
punto di partenza. Le opere di giustizia non sono la causa del perdono di Dio,
ma solo la necessaria conseguenza.
Ci sono molte
valide ragioni per digiunare, ma quella fondamentale è l’amore. Erma, un Padre
della Chiesa della prima metà del secondo secolo, nella V similitudine del suo
Pastore, fa una splendida esposizione del digiuno che traduce il precetto del
Signore nella duplice dimensione, personale e comunitaria, di ascesi personale
e di condivisione fraterna col nostro prossimo. Dio ci dice attraverso il
profeta Isaia (Is 58, 6-7): Non è
piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i
legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non
consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i
miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi
da quelli della tua carne?. Questo
è il digiuno che piace a Dio. Giovanni Cassiano, nelle sue Conferenze, dice che
“il Signore non giudica affatto il digiuno quale bene principale, perché piace
a Dio non per sé stesso, ma per le altre opere buone che reca con sé. La
misericordia, la pazienza, la carità non devono essere osservate per il
digiuno, ma il digiuno per quelle”.
Quale tesoro
ammassiamo in cielo? Cosa potremo reclamare in nostro favore di fronte al trono
di Dio? Noi dobbiamo vivere in pienezza la vita che ci è data sulla terra,
nella consapevolezza che è una preparazione per quella futura. Gesù ci dice che
qualsiasi tesoro sulla terra durerà solo fino al termine della nostra vita
terrena. Sono solo collezioni di polvere. Solo in Gesù troviamo tesori che non
perderanno mai il loro valore. Quali sono questi tesori che Gesù ci invita ad
accumulare? Sono il tesoro dell’amore, del perdono, del conoscere Gesù
personalmente come nostro Signore e Salvatore. E ancora il tesoro della fede,
che può muovere le montagne; il tesoro del fare la volontà di Dio; il tesoro
della preghiera; il tesoro del servizio agli altri nel nome di Gesù Cristo.
Perdono e
digiuno sono due elementi ricorrenti all’interno dell’ufficiatura del giorno, e
sono inseriti in un quadro di riferimento che ha come tema centrale il paradiso
perduto, ovvero l’esilio di Adamo. L’innografia ci consente di delineare uno
splendido abbozzo dell’antropologia patristica. Sorprendentemente l’esegesi
moderna, riflettendo sulla differenza tra immagine e somiglianza, si trova a
ripercorrere le strade già tracciate dai padri greci, per i quali l’uomo è
creato secondo l’immagine, e il suo destino è quello di ottenere la somiglianza
con Dio. In generale, oltre al nostro rapporto con Dio, la somiglianza si
riferisce al nostro essere collocati al di sopra dell’ordine creato, e
costituisce il nostro stato di regalità, così come la prima metà della strofa
del Lucernario rende evidente, intrecciando tra l’altro il racconto della
creazione dell’uomo della tradizione jahvista di Gn 2,7 con la dignità regale
dell’uomo della tradizione sacerdotale di Gn 1, 26: “Il Signore che mi ha
plasmato, presa della polvere dalla terra, mi ha dato vita infondendomi
un’anima con soffio vivificante, e mi ha onorato facendomi capo in terra di
tutte le cose visibili, e simile agli angeli nella vita. Ma satana, il
seduttore, servendosi come strumento del serpente, mi ha adescato con un cibo,
mi ha separato dalla gloria di Dio, e mi ha consegnato alla terra, nelle
profondità della morte. Ma tu, che sei sovrano pietoso, di nuovo richiamami a
te”. Seguendo san Giovanni Crisostomo e sant’Ambrogio, il serpente diviene
strumento del diavolo, invidioso del ruolo di Adamo ed Eva nel paradiso.
Espulsione di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre di Giovan Paolo Recchi
Bergamo, basilica di Santa Maria Maggiore
Una seconda
strofa riprende Agostino (spoliazione dei primi abiti di innocenza ed
immortalità a causa dell’orgoglio), Origene e Gregorio di Nissa (tuniche di
pelle come simbolo della fragilità mortale): “Sono stato spogliato della tunica
intessuta da Dio, perché ho disubbidito, Signore, al tuo divino precetto per
suggerimento del nemico; e ora sono cinto delle tuniche di pelle e delle foglie
di fico: sono condannato a mangiare con sudore pane di fatica e la terra è
stata maledetta perché mi produca spine e tribolazioni. Ma tu che negli ultimi
tempi ti sei incarnato dalla Vergine, richiamami, e fammi di nuovo entrare nel
paradiso”.
Il paradiso,
descritto con amore, riceve la supplica di Adamo: così come dopo la caduta Dio
diede ai suoi passi un suono affinché Adamo ed Eva potessero prepararsi a fare
una supplica davanti a lui (come commentano Efrem il Siro e Giovanni
Crisostomo), così ora lo stesso suono, il fruscio delle foglie, costituisce la
supplica per poter rientrare. “O paradiso preziosissimo, splendida bellezza,
dimora costruita da Dio, gaudio e letizia senza fine, gloria dei giusti,
delizia dei profeti e abitazione dei santi, col fruscio delle tue foglie
supplica il Creatore dell’universo di aprirmi le porte che ho chiuso con la
trasgressione, e di concedermi di aver parte all’albero della vita e alla gioia
che un tempo ho goduto in te”.
L’ultima
strofa del Lucernario ci invita a seguire le indicazioni evangeliche:
“Cerchiamo tutti di accogliere il tempo del digiuno, ubbidendo a ciò che i
vangeli ci hanno trasmesso, affinché divenuti così graditi al Cristo, di nuovo
otteniamo di abitare nel paradiso”.
La strofa al
Gloria della rogazione sottolinea la portata cosmica del peccato di Adamo: “Il
sole nascose i suoi raggi, la luna e le stelle furono mutate in sangue, le
montagne si scossero, le colline tremarono quando fu chiuso il paradiso”. Il
peccato sovverte l’ordine nella creazione: la regalità di Adamo è a rischio, e
l’allontanamento da Dio porta il cosmo a ritornare caos.
Nelle strofe
che concludono il Vespero è riportato un dialogo consolante tra il vecchio e il
nuovo Adamo: “Adamo è stato espulso dal paradiso per ciò che ha mangiato:
seduto quindi dinanzi al giardino, gemeva alzando grida con voce lamentosa, e
diceva: “Ahimè, cosa mai mi è successo, me infelice! Un solo comando del
Sovrano ho trasgredito, e mi trovo privo di ogni sorta di beni. O meraviglioso
paradiso, tu che per me sei stato piantato e per Eva sei stato chiuso, prega
colui che ti ha fatto e che anche me ha plasmato, perché io possa saziarmi dei
tuoi fiori. Gli dice dunque il Salvatore: io non voglio che vada perduta la
creatura plasmata da me, ma che si salvi e giunga alla conoscenza della verità:
chi viene infatti a me non lo caccerò fuori”. Se il desiderio di giungere alla
conoscenza del bene e del male per essere come Dio aveva spinto l’uomo alla
trasgressione, ora Cristo ci rassicura che attraverso la salvezza da lui
portataci possiamo finalmente compiere il nostro desiderio.
Il Canone, che
nei libri liturgici non ha indicato alcun autore ma che alcuni attribuiscono a
Cristoforo il Protosecrita, sviluppa con ricchezza di immagini gli stessi temi,
anche se a lungo andare forse non brilla per fantasia. Lasciamo dunque fluire,
senza ulteriori commenti, alcuni dei tropari più interessanti seguendo l’ordine
sequenziale delle Odi.
“Su, misera
anima mia, piangi ciò che hai fatto, ricordando oggi come nell’Eden ti sei
lasciata spogliare e sei stata perciò cacciata dalle delizie e dalla gioia
senza fine”. “Per la tua sovrabbondante bontà, o Artefice e Signore, tu pianti
in Eden il delizioso paradiso, ordinandogli di farmi godere dei suoi frutti
splendidi, imperituri e pieni di soavità”. “Ahimè, misera anima mia! Come
dunque non hai riconosciuto la frode? Come non hai avvertito l’inganno e
l’invidia del nemico? Come ti sei invece lasciata ottenebrare l’intelletto e
hai trasgredito il comandamento del tuo Creatore?” “Tu che sola hai ricoperto
la nudità del caduto Adamo, grazie al tuo parto, o pura, rivestimi nuovamente di
incorruttibilità”.
“Adamo fu
estromesso dal paradiso di delizie a causa di un amaro cibo, non avendo
custodito per incontinenza il comandamento del Sovrano; e fu così condannato a
lavorare la terra dalla quale egli stesso era stato tratto, e a mangiare il
proprio pane con molto sudore. Amiamo dunque la continenza per non gemere come
lui stando fuori dal paradiso, ma piuttosto ritornare nel paradiso”. “È apparso
ora il tempo delle virtù, e il Giudice è alle porte: non siamo mesti, ma
offriamo piuttosto, digiunando, lacrime, compunzione ed elemosina, gridando:
più della sabbia del mare sono stati i nostri peccati, ma tu a tutti perdona, o
Redentore di tutti, perché possiamo avere la corona incorruttibile”. “Io,
miserabile, ero stato gratificato di onore da parte tua, o Sovrano dell’Eden,
ahimè, come sono stato ingannato, e, per l’invidia del diavolo, respinto
lontano dal tuo volto!”. “Prato beato, alberi da Dio piantati, soavità del
paradiso, su di me dalle foglie, come da occhi, stillate lacrime perché sono
nudo ed estraniato dalla gloria di Dio”. “Santa Sovrana, che a tutti i credenti
hai aperto le porte del paradiso, chiuse un tempo da Adamo con la
trasgressione: aprimi le porte della misericordia”.
“Il nemico,
odiatore dell’uomo, invidiandomi la vita felice del paradiso”. “Dalla terra
sono stato plasmato per mano di Dio, e mi sono sentito dire, me infelice, di
tornare di nuovo alla terra. Chi non piangerà su di me, respinto da Dio, che ho
cambiato l’Eden con l’ade?”. “Mistico talamo di gloria, rendimi di nuovo
famigliare al talamo del paradiso dal quale sono decaduto”.
“Misericordia,
pietà, o Dio onnipotente, dell’opera delle tue mani; non disprezzare, te ne
prego, o buono, colui che si è separato dal coro dei tuoi santi”. “Tu che hai
partorito il Signore, Re e Redentore di tutti, richiamami dalla mia cattività
al paradiso della gloria”.
“Partecipa, o
paradiso, al dolore del padrone divenuto povero, e col fruscio delle tue foglie
supplica il Creatore che non mi chiuda fuori”. “Cinto delle vesti della vergogna,
in luogo della tunica luminosa, piango la mia perdizione”. “Un tempo hai
onorato l’opera delle tue mani di ogni sorta di doni, o solo amico degli
uomini”. “Eri stato fatto sovrano dei rettili e delle fiere: come dunque ti sei
messo a conversare col serpente corruttore, prendendo a consigliere lo spirito
maligno credendolo retto?”. “Ti celebriamo come luminosa dimora
dell’incarnazione di Dio, o Maria, prediletta della divina grazia: illuminami
dunque, paurosamente ottenebrato dalle passioni come sono, o luce di
misericordia, speranza dei disperati”.
“Dolce al
gusto mi parve nell’Eden il frutto della conoscenza, saziatomi del cibo, ma
alla fine divenne fiele. Ahimè, anima mia, come ha potuto l’incontinenza
estraniarti dalla dimora del paradiso?”. “Gemo, mi lamento e soffro, vedendo il
cherubino con la spada di fuoco che ha avuto l’ordine di custodire l’ingresso
dell’Eden, inaccessibile, ahimè, a tutti i trasgressori, a meno che tu, o
Salvatore, non tolga per me ogni ostacolo”.
“Confido
nell’abbondanza della tua misericordia, o Cristo Salvatore, e nel sangue del
tuo fianco divino, col quale hai santificato la natura dei mortali e hai aperto
a quanti ti servono, o buono, le porte del paradiso, chiuse un tempo da Adamo”.
L’esapostilario,
al termine del Canone, proietta per la prima volta il cammino che ci aspetta
verso la meta: “Cacciati in un primo tempo dal paradiso, o Signore, per aver
mangiato dell’albero, ci hai di nuovo là introdotti grazie alla tua croce e
alla tua passione, o mio Salvatore e Dio: con esse fortificaci, perché possiamo
portare a compimento il digiuno con purezza e adorare la tua divina
risurrezione, la pasqua salvifica, per intercessione di colei che ti ha
partorito”.
Una strofa
cantata nelle Lodi riprende l’immagine paolina della lotta nello stadio: “Lo
stadio delle virtù è aperto: voi che volete lottare, entrate, dopo esservi
cinti della bella lotta del digiuno: quanti infatti lottano secondo le regole
saranno giustamente coronati; e dopo aver preso l’armatura della croce,
disponiamoci in battaglia contro il nemico, tenendo stretta la fede come muro
inespugnabile. La preghiera come corazza, l’elemosina come elmo, il digiuno,
che recide ogni vizio del cuore, in luogo della spada”.
Con i vesperi
della domenica inizia la Quaresima vera e propria. È proprio questo vespero che
fa cambiare il nome della domenica: da “domenica dei Latticini”, o “dell’esilio
di Adamo”, diventa “domenica del Perdono”, anche se questo nome non è riportato
nel Triodion. I celebranti indossano paramenti chiari. Tutta la preparazione è
giunta al termine: sto davanti a Dio, alla gloria e alla bellezza del suo
Regno. Mi rendo conto da un lato di farne parte, di non avere altra gioia,
altra meta, altra dimora, dall’altro di esserne esiliato, nella tenebra e nella
tristezza del peccato.
Al Lucernario,
una strofa di Giuseppe ci chiama a “umiliare la carne con la continenza,
entrando nello stadio divino dell’immacolato digiuno, e con preghiere e
lacrime, cerchiamo il Signore che ci salva”. Il tema delle lacrime diviene
sempre più rilevante: “Purificandomi con le piogge del pentimento, fammi
risplendere per il digiuno e la preghiera”. Una successiva strofa, di Teodoro
Studita, sottolinea invece la dimensione della gioia, prefigurando la meta del
nostro pellegrinaggio: “Cominciamo gioiosamente il tempo del digiuno,
sottoponendoci alle lotte spirituali; rendiamo casta l’anima, purifichiamo la
carne, digiuniamo tanto dai cibi quanto da ogni passione, godendo delle virtù
dello spirito: perseverando in esse con amore, possiamo noi tutti ottenere di
contemplare la venerabilissima passione del Cristo Dio e la santa pasqua,
esultando spiritualmente”.
Dopo il Grande
Prokimenon, nel quale chiediamo insistentemente a Dio di venire in nostro
soccorso, i paramenti chiari vengono dismessi in favore di quelli scuri, le
luci si spengono, e il coro inizia a cantare i Kyrie elèison litanici con le
melodie quaresimali.
Nelle strofe
che concludono i Vesperi, in una chiesa sempre più scura, la luce di Cristo
risorto illumina tutti: “Ha rifulso la tua grazia, Signore, ha rifulso la luce
del tuo volto; ecco il tempo accetto, ecco il tempo della conversione;
deponiamo le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce, affinché,
traversato il grande oceano del digiuno, giungiamo alla risurrezione il terzo
giorno del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo, che salva le nostre anime”.
A questo
punto, al termine dell’ufficio, si svolge uno dei riti più lontani dalla nostra
logica terrena, ma più vicini alla logica dell’amore di Dio, cui ho avuto
personalmente modo di partecipare in un monastero; tutti i fedeli si prostrano
o si inginocchiano, e il presbitero, dopo aver baciato le icone di Cristo e
della Madre di Dio, si rivolge ai fedeli dicendo: “Perdonatemi, fratelli e
sorelle, qualsiasi peccato commesso volontariamente o involontariamente, in
parole, in atti, o in pensieri, e pregate per me, peccatore”. Quindi si
inginocchia, e i fedeli rispondono: “Dio ti perdoni; perdonaci e prega per
noi”. E il sacerdote replica: “Dio vi perdoni e vi benedica”. Poi, dopo avere a
loro volta venerato le sante icone, per avere ben chiaro il motivo per cui
tutto questo sta avvenendo, i fedeli vanno singolarmente a chiedere il perdono
di tutti i presenti, cominciando dal clero: ciascuno si inginocchia davanti
all’altro, prima di scambiarsi l’abbraccio del perdono.
C’è un canto
che accompagna questo gesto di purificazione e di riconciliazione, e non è
casuale né fuori luogo che questo canto sia “Sorga Dio”, i versetti composti da
san Giovanni Damasceno che si cantano nel mattutino di Pasqua, sulla melodia
dei quali Nikolaj Rimskij-Korsakov ha musicato la sua Grande Pasqua russa. Uno
di questi ci fa cantare: “Chiamiamo fratelli anche i nostri nemici, e
perdoniamo tutti, a motivo della sua risurrezione”.
E se
chiedendosi perdono molti piangevano, adesso è più facile che piangano tutti,
ma di gioia!
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