martedì 25 dicembre 2012

Dalla Lettera XXVIII a Flaviano di san Leone Magno






Dalla Lettera XXVIII a Flaviano patriarca di Costantinopoli

di san Leone Magno papa di Roma antica

 

La maestà divina ha fatto propria la debolezza umana; la onnipotenza ha fatto propria la fragilità dell’uomo; e quanto è eterno ha preso su di sé quanto è mortale. Per scontare il debito della nostra colpa d’origine piombata nella condizione terrena, la natura divina che non soffre variazioni di sorta, s’è voluta unire alla nostra che è passibile. Per fare quanto era congruente a portare rimedio al nostro essere, l’unico e medesimo mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo, fece sì che, per un verso, potesse morire, e, per un altro, morire non potesse. Dio vero è nato nella natura integra di un uomo vero e completo nella sua natura umana; con tutto ciò che gli appartiene in quanto Dio; con tutto ciò che ci appartiene in quanto uomo.

Quando diciamo «nostra», intendiamo riferirci a tutte le realtà create da Dio fin dall’inizio dell’esistenza dell’uomo, ossia tutto ciò che il Verbo assunse su di sé per restaurare la natura umana. Ma quanto lo spirito ingannatore immise nell’uomo, e quanto l’uomo ingannato perse, di tutto ciò non vi fu traccia alcuna nel nostro Salvatore. E poiché per rendersi in tutto simile a noi ha preso su di sé tutto quanto è nostro, non perciò diciamo che egli si sia reso partecipe delle nostre colpe. Ha assunto la forma di servo, ma senza la macchia di peccato che è nell’uomo; ha potenziato la natura umana senza però portare danno alla divina, in quanto l’abbassamento mediante il quale da invisibile che era si è reso visibile, e da Creatore e Signore di tutte le realtà volle anch’egli essere uno tra i mortali, fu per la condiscendenza della sua misericordia, non per il venire meno della sua onnipotenza. Pertanto, colui che rimanendo Dio, si è insieme fatto anche uomo nella forma di schiavo, è lui che aveva creato l’uomo. Conserva la proprietà che gli appartiene, senza nulla perdere, dell’una o dell’altra natura; e come la forma di schiavo non toglie nulla alla forma di Dio, allo stesso modo la forma dello schiavo nulla tolse alla forma che appartiene alla divinità.

E, dato che il diavolo menava vanto d’avere soggiogato ingannevolmente l’uomo e d’averlo spogliato dei doni avuti da Dio, d’averlo sottomesso alla dura condizione di morte, dopo che l’aveva depredato del dono dell’immortalità, così – il diavolo – in qualche modo, trovava un sollievo per avere compagno di sventura qualcuno e, in certo modo, uno compartecipe della sua prevaricazione. Si poteva rallegrare, in un certo senso, il diavolo, che Dio – dato che lo esigeva la ragionevolezza della giustizia – avesse cambiato atteggiamento nei confronti dell’uomo, creato all’inizio dei tempi ad un livello di così alta dignità. Era necessario un nuovo piano di salvezza voluto da Dio, perché colui che è immutabile per natura e la cui volontà salvifica non può essere smentita, che si instaurasse una misteriosa disposizione della sua misericordia nei nostri confronti, così da completare l’antico progetto con un intervento straordinario; così si restaurava l’antico piano misericordioso: il diavolo, con la sua ingannevole astuzia, aveva cercato di spingere l’uomo contro Dio; ma l’uomo non poteva perire.

            Il Figlio di Dio entra perciò all’interno delle realtà più umili di questo mondo, scendendo dal trono della gloria celeste, ma senza abbandonare la gloria che ha in comune con il Padre, generato in un nuovo ordine e nato con una generazione nuova. Nuovo è l’ordine, in quanto, da invisibile che era nella sua natura, si è reso visibile nella nostra; da incomprensibile che era, ha voluto essere racchiuso entro termini limitati; e mentre esisteva prima del tempo, ha cominciato ad esistere nel tempo; occultata in qualche modo l’immensità della sua maestà divina, il Signore di tutto si è degnato di assumere la forma di servo; Dio impassibile, non ha disdegnato di divenire passibile uomo, e, da immortale, si è sottomesso a tutte le leggi di morte. È una nuova generazione quella nella quale il Figlio di Dio si è manifestato nascendo, perché l’integra e inviolata verginità di Maria non ha conosciuto concupiscenza alcuna, mentre ella ha fornito ciò che è proprio della carne, ossia la materia corporea. La natura umana viene al Signore dal corpo della madre sua, ma senza colpa di sorta: Gesù Cristo ha preso dalla madre la natura umana. E tuttavia non ne segue che la natura del Cristo sia differente dalla nostra, anche se la sua è straordinaria, perché generato nel seno di una vergine.

Infatti colui che è vero Dio è anche vero uomo; nell’unione dell’elemento divino con quello umano non c’è falsità di sorta, perché sono in reciproco rapporto sia l’umiltà in quanto uomo, e l’altezza in quanto Dio. Poiché come Dio non muta per il fatto che usa misericordia, così l’uomo non è assorbito dalla dignità divina. Reciprocamente le due nature operano in unione vicendevole, secondo la loro propria natura: il Verbo opera secondo la natura di Verbo per ciò che gli è proprio; e la carne in quanto opera per il fatto di essere carne. Il primo elemento, quello divino, brilla per i miracoli; il secondo, l’umano, soggiace alle offese. E come il Verbo non si allontana dalla gloria che ha in comune con il Padre, così la carne non abbandona ciò che le appartiene per essere solidale con il nostro genere. Il Figlio di Dio rimane sempre uno solo e sempre il medesimo – è affermazione che occorre ripetere spesso –, ma è anche e sempre allo stesso modo figlio dell’uomo. È Dio, per ciò che si legge nell’evangelista: In principio esisteva il Verbo, il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio; ma anche uomo, come si ha dal seguito del testo evangelico: Il Verbo si è fatto uomo ed è venuto a porre le sue tende in mezzo a noi. Era Dio, per il fatto che ogni realtà creata è stata creata per mezzo del Verbo, e senza il Verbo nulla è stato creato; ma uomo per il fatto che è nato da donna, nato sotto la legge. La nascita nella carne è chiara prova della natura umana; il parto da una vergine è prova della divina potenza. Il neonato si rende manifesto nell’umiltà del presepio, ma la sublimità dell’Altissimo trova testimonianza nelle voce degli angeli.

 

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