Dio non è morto!
di André Borrély
Pascal si
sarebbe forse ingannato, quando ha annunciato che Cristo “è in agonia fino alla
fine del mondo”? Non è forse il Cristianesimo, piuttosto, a essere ormai in
agonia, nell’attesa di un esito ineluttabile? Dio non è forse morto? Il
Cristianesimo potrà sopravvivere alla sua agonia? Non è giunto il momento di
applicare alla Chiesa di Cristo il lamento pronunciato su Tiro dal profeta
Ezechiele: “Le tue ricchezze…, i tuoi marinai e i tuoi piloti… e tutta la turba
che è a bordo della tua nave, piomberanno in fondo al mare nel giorno del tuo
naufragio” (27, 27). Ebbene, no! Dio non è morto. Il Dio che ha soffiato nelle
narici dell’uomo un alito di vita (Gn 2, 7), e per mezzo della Croce ha
distrutto il regno della morte, il Dio vivente non può morire. Ciò che è morto
è un certo numero di idoli, ossia di idee troppo umane su Dio. Che più di un
confessionale sia disertato il sabato sera o nelle grandi solennità, che un
certo numero di sacerdoti passino sopra i canoni ecclesiastici circa il
celibato e le promesse della loro ordinazione, che numerose coppie conoscano la
più grande intimità anche prima di ricevere il sacramento del matrimonio, sono
fatti che non possono lasciarci indifferenti: ma non sono talmente essenziali
da costringere a domandarsi seriamente se il Cristianesimo potrà sopravvivere
alla crisi che sta attraversando. Cristo ha voluto che la sua Chiesa sia il
campo ambiguo nel quale crescono insieme fino alla mietitura il buon grano e la
zizzania (Mt 13, 24-31); ha predetto che “molti falsi profeti sorgeranno e
inganneranno molti, e per il dilagare dell’iniquità l’amore di molti si
raffredderà” (Mt 24, 11-12). Ma egli ha pure promesso alla sua Chiesa – fondata
sulla fede apostolica nella filiazione divina del suo Signore risuscitato – che
“le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa” (Mt 16, 18). Il Salmo 92
(93), inno a Iavhè ordinatore, legislatore e sovrano del mondo, canta: “Il
Signore rende saldo il mondo, che non sarà mai scosso” (v. 1); ma ciò che il
salmo dice dell’universo, è tanto più vero della Chiesa: l’incrollabile
solidità di questa deve farci “camminare con sicurezza nella Gloria di Dio” (Bar
5, 7) e donare la pace che viene dall’alto ai nostri cuori immersi nelle
tribolazioni. Di questa solidità vorremmo tentare di indicare le radici.
Non sarà mai
ripetuto abbastanza, nel nostro secolo di “umanesimo integrale”: rivelandoci
Chi Egli è, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ci insegna chi siamo noi.
La rivelazione biblica fatta all’uomo del Mistero della Trinità Santissima, è
simultaneamente rivelazione dell’uomo a se stesso. Nelle prime pagine del suo
Vangelo, san Giovanni, parlandoci del soggiorno di Gesù a Gerusalemme per la
Pasqua, osserva con profondità “(Gesù) non aveva bisogno che qualcuno gli desse
testimonianza su un altro; egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo” (Gv
2, 24). Dio non è morto, e l’uomo neppure. Se la “morte di Dio” significasse
qualcosa di più della morte salutare di un certo numero di idee meschine su
Dio, sarebbe finita per l’uomo; poiché l’uomo non può vivere ciò che si chiama “vivere”,
se il Dio vivente non lo irriga con il flusso della sua grazia. Il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo sono le arterie dell’uomo. “Quello che c’è nell’uomo”,
che costituisce il fondo dell’uomo, il suo essere più essenziale, è questa
capacità di essere irrigato dalla vita divina. Il problema non consiste nel sapere
se il Cristianesimo sopravviverà, ma nel comprendere che l’umanità non potrebbe
sopravvivere al Cristianesimo, a meno che ci si ostini a voler chiamare ancora
uomini delle scimmie demonizzate.
Da:
ANDRE BORRELY, Chi si avvicina a me s’avvicina
al fuoco, Milano, 1981, 17-19.
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