mercoledì 8 maggio 2013

Il Canone della Domenica di Pasqua di Roberto Pagani

 
Anastasi, Pskov, prima metà del XVI secolo
 
 

Il Canone della Domenica di Pasqua


di Roberto Pagani

 

Se nel cristianesimo occidentale la riscoperta della Veglia Pasquale è un fenomeno che si può collocare verso la metà del secolo scorso con la riforma della Settimana Santa ad opera di Pio XII, essa è rimasta il punto centrale da cui tutto si dipana nel cristianesimo orientale. La Pasqua, o meglio, la Risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, è la Festa delle Feste. Nella liturgia bizantina in particolare, se si può dire che ogni domenica si celebra la risurrezione di Gesù dai morti, e la liturgia delle ore è decisamente ricolma dell’adeguata innografia, l’intensità che si raggiunge nella notte pasquale è veramente una esperienza da vivere, difficile da comprendere per chi ne ha solo sentito parlare o ha avuto modo di leggere qualcosa al riguardo.

Sarebbe bello descrivere con dovizia di particolari lo svolgimento del mattutino di Pasqua, che nella tradizione russa viene generalmente celebrato durante la notte e che si conclude all’alba con la Divina Liturgia. Riservando questo tipo di lettura ad altra occasione, per il momento ci soffermeremo su uno dei momenti del Mattutino pasquale, il Canone.

Gli storici della liturgia bizantina ci dicono che, al suo formarsi, la liturgia delle ore non era particolarmente ricca dal punto di vista innografico, soprattutto nei monasteri, il cui ufficio era prevalentemente scritturistico. Le cose cambiano nel corso del VI secolo, quando alcune composizioni poetiche, i kontàkia, iniziano ad essere utilizzati. Il più celebre di questi compositori è san Romano il Melòde, siriano di origine che prestò il suo servizio diaconale in una città che corrisponde all’odierna Beirut: alcune delle sue composizioni, seppur in forma molto ridotta, sono tuttora presenti nella tradizione bizantina. Ma nel secolo successivo, queste composizioni poetiche cedono progressivamente il posto a nuove composizioni, sicuramente più modeste negli sviluppi poetici, ma con un contenuto teologico più essenziale. Fino ad allora nei monasteri il Canone era un lungo inno liturgico costituito da nove odi bibliche che erano utilizzate già da qualche secolo. Le nuove composizioni poetiche erano costituite da brevi strofe (chiamate tropari) che venivano intercalate ai versetti finali di ciascuna delle odi del canone scritturistico, traendone evidentemente spunto per il tema iniziale. Va da sé che, più il canone poetico prendeva piede, più velocemente il canone scritturistico veniva abbandonato, al punto tale che tra una strofa e l’altra del canone poetico oggi ci sono dei ritornelli che possono variare da una canone all’altro in base al soggetto del canone stesso. Il canone poetico è quindi costituito da una prima strofa (irmos) che ha una melodia propria e che serve da modello per le successive strofe della stessa ode. Tali composizioni, essendo di natura poetica, sono, almeno nella loro lingua originale (il greco), strutturate metricamente, in modo che la melodia, accoppiandosi mirabilmente con il testo, riesca a dare ritmo all’intero canto, rendendo esplicito un equilibrio sostanziale tra musica e parola che viene teologicamente collegato al dogma cristologico delle due nature in Cristo, umana e divina, unite senza confusione e separazione, mescolanza e divisione. La struttura metrica, su cui le altre strofe della stessa ode sono composte e che ne rende estremamente facile il canto nel testo greco, si perde, purtroppo, nelle traduzioni nelle varie lingue. Se per i greci è normale il canto integrale di un canone, presso i russi ad esempio si canta solo il primo tropario (l’irmos) di ogni ode e i vari ritornelli, mentre i tropari successivi vengono cantati in una specie di recto tono con alcune limitate varianti. Il solo fatto che presso i russi il Canone del Mattutino di Pasqua venga integralmente cantato rende già molto evidente l’eccezionalità del momento. In effetti il Canone rappresenta il punto focale del Mattutino di Pasqua: l’intera parte dell’ufficio che negli altri giorni precede il Canone viene omessa, e la tensione musicale dell’intera composizione sale subito al suo vertice. Considerato da un punto di vista strettamente musicale, il Canone non è particolarmente complesso, in quanto consiste da un numero limitato di frasi variamente articolate ma costantemente ripetute. Laddove possibile, sono i due i cori che eseguono il canto del canone, alternandosi continuamente nelle varie strofe di ogni ode, mentre tutto il popolo presente canta il ritornello tra una strofa e l’altra: “Cristo è risorto dai morti!”, così come il tropario di Pasqua che si canta tre volte alla fine di ogni ode: “Cristo è risorto dai morti, con la morte calpesta la morte, e ai morti nei sepolcri fa dono della vita!”. Alla fine di ogni ode, su una melodia più dolce e quasi come un breve riposo rispetto alla continua tensione musicale, i due cori insieme ripetono l’irmos cantato all’inizio. Durante il canto di ogni ode, sacerdote e diacono incensano tutta la chiesa e ciascun fedele, riempiendo ben presto l’aria del profumo dell’incenso: sprigionandosi dai carboni ardenti, l’incenso disegna nuvole di fumo che si illuminano alla luce delle candele che i presenti tengono in mano accese per tutta la durata del Canone. Al termine dell’incensazione, il celebrante si rivolge ai fedeli lanciando l’inno della vittoria: “Cristo è risorto!”, a cui ciascuno risponde con tutta la fede, la gioia e la voce possibili: “è veramente risorto!”.

Fatta questa necessaria premessa, per chi ha avuto la costanza di giungere fino a qui, possiamo passare a una lettura del Canone di Pasqua. Esso è opera di san Giovanni Damasceno, teologo e innografo dell’VIII secolo cui la Chiesa intera deve davvero tanto. Come già emerso in altre occasioni, il nostro autore si lascia guidare dalle omelie di un altro grande Padre della Chiesa: san Gregorio di Nazianzo, che in oriente è conosciuto come san Gregorio il Teologo. Dopo una sintesi dell’ode scritturistica che serve da riferimento alla composizione poetica, verranno riportate le strofe di ciascuna ode, cui seguirà un breve commento che cercherà di evidenziare i numerosi richiami scritturistici unendoli ad un abbozzo di lettura.

La prima ode si basa sul cantico di Mosè di Es 15, 1-19 «….Voglio cantare in onore del Signore: perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere. Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato. È il mio Dio e lo voglio lodare, è il Dio di mio padre e lo voglio esaltare! Il Signore è prode in guerra, si chiama Signore. I carri del faraone e il suo esercito ha gettato nel mare e i suoi combattenti scelti furono sommersi nel Mare Rosso…. Soffiasti con il tuo alito: il mare li coprì, sprofondarono come piombo in acque profonde. Chi è come te fra gli dei, Signore? Chi è come te, maestoso in santità, tremendo nelle imprese, operatore di prodigi? Stendesti la destra: la terra li inghiottì. Guidasti con il tuo favore questo popolo che hai riscattato, lo conducesti con forza alla tua santa dimora. … per la potenza del tuo braccio restano immobili come pietra, finché sia passato il tuo popolo, Signore, finché sia passato questo tuo popolo che ti sei acquistato. Lo fai entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua sede, Signore, hai preparato, santuario che le tue mani, Signore, hanno fondato. Il Signore regna in eterno e per sempre!».

Giorno di risurrezione! Risplendiamo, popoli. Pasqua, Pasqua del Signore. Dalla morte alla vita e dalla terra al cielo Cristo, Dio nostro, ci conduce cantando l’inno di vittoria.

Purifichiamo i sensi e vedremo nella luce inaccessibile della risurrezione il Cristo sfolgorante che ci dice: rallegratevi! Lo udremo chiaramente, cantando l’inno di vittoria.

I cieli esultino in modo degno, la terra si rallegri; festeggi l’universo intero, visibile ed invisibile: Cristo è risorto! Eterna esultanza.

L’Esodo è l’evento fondante la fede di Israele, lì il Signore si è manifestato, ha steso il suo braccio, ha strappato il suo popolo dalla schiavitù egiziana per condurlo verso la libertà, lo ha fatto nascere a vita nuova passando dal non essere all’essere popolo di YHWH. È YHWH che passa, e nel suo passaggio fa passare Israele. Così la Pasqua è la Pasqua del Signore, perché Cristo risorto ci fa passare con lui dalla morte alla vita, verso la patria celeste così come Israele entrò nella terra promessa. San Paolo, in 1Tim 6, 14-16 ci esorta ad attendere senza macchia “fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi rivelata dal beato e unico sovrano, il re dei regnanti e signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile; che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere”; quindi, con la purificazione battesimale della dinamica morte-risurrezione, possiamo accedere alla luce della risurrezione nella quale Cristo appare (si manifesta, dal vocabolo greco utilizzato epifanias nel v. 14) sfolgorante. È il compimento della luce taborica, cui partecipa il cosmo visibile ed invisibile, cielo e terra, ricevendo la luce del Risorto. In Is 49, 13 la gioia era per il ritorno del popolo dall’esilio: Giubilate, o cieli; rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha pietà dei suoi miseri, qui si canta la vittoria sul male, cielo e terra non sono più contrapposti, la gioia è senza fine!

La seconda ode del canone (Dt 32, 1-43) viene quasi sempre omessa: avendo un carattere prevalentemente penitenziale, la si trova soprattutto nel tempo quaresimale.

La terza ode del canone è basata sulla preghiera di Anna, madre di Samuele (1 Re 2, 1-10 nella versione LXX, 1 Sam 2, 1-10 nella versione CEI): Allora Anna pregò: Il mio cuore esulta nel Signore, la mia fronte s’innalza grazie al mio Dio. … Non c’è santo come il Signore, non c’è rocca come il nostro Dio. Non moltiplicate i discorsi superbi, dalla vostra bocca non esca arroganza; perché il Signore è il Dio che sa tutto e le sue opere sono rette. … Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire. Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta. Solleva dalla polvere il misero, innalza il povero dalle immondizie, per farli sedere insieme con i capi del popolo e assegnar loro un seggio di gloria. Perché al Signore appartengono i cardini della terra e su di essi fa poggiare il mondo. Sui passi dei giusti Egli veglia, ma gli empi svaniscono nelle tenebre. Certo non prevarrà l’uomo malgrado la sua forza. Il Signore... saranno abbattuti i suoi avversari! L’Altissimo tuonerà dal cielo. Il Signore giudicherà gli estremi confini della terra; darà forza al suo re ed eleverà la potenza del suo Messia.

Venite beviamo una bevanda nuova miracolosamente sgorgata non dalla pietra sterile ma dal sepolcro di Cristo, fonte di incorruttibilità: in esso stiamo saldi.

L’universo intero di luce si ricolma: cielo e terra, e tutte le profondità! Festeggia tutta la creazione il risorgere di Cristo: in esso stiamo saldi.

Ieri ero sepolto con te, o Cristo, oggi io risorgo con te che sei risorto; crocifisso ieri con te, glorificami, Salvatore, nel tuo regno.

In Mt 26, 29 Gesù aveva promesso: “Io vi dico: non berrò d’ora innanzi di questo frutto della vite, fino a quel giorno quando lo berrò con voi nuovo nel regno del Padre mio”. Oggi possiamo bere la bevanda nuova ed inebriante che sgorga del sepolcro vuoto di Cristo risorto, così come Mosè, in Es 17, 6, aveva fatto sgorgare l’acqua dalla roccia nel deserto seguendo l’ordine di Dio: “Ecco, io sto davanti a te, là sulla roccia, sull’Oreb: colpirai la roccia e ne uscirà acqua. Il popolo berrà”. Nella sua prima lettera ai Corinzi (1 Cor 10, 1-4), san Paolo paragona la mistagogia cristiana all’esperienza di Israele nel deserto: Non voglio infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Non è più una pietra sterile, destinata a non generare, ma è una roccia su cui possiamo fondare la nostra vita, pronunciare il nostro Amen, renderla feconda aprendo ogni istante delle nostre giornate all’eternità del tempo del Risorto. Da Ef 4, 10 sappiamo che: Colui che discese è il medesimo che anche salì al di sopra di tutti i cieli per riempire l’universo. La luce del Risorto penetra ormai in ogni luogo, anche nelle profondità degli inferi, perché le tenebre della morte sono vinte per sempre. Il male non è sparito, resterà fino all’ultimo giorno, ma è ormai impotente, perché l’ultima parola non è più la sua. Ogni cosa riceve contorni nuovi quando è illuminata dalla luce pasquale, è trasfigurata, e chi ha purificato i suoi occhi con le lacrime del pentimento durante il cammino quaresimale può scorgere un mondo nuovo, che partecipa della festa comune. Nella lettera ai Romani (Rm 6, 3-11) Paolo ammonisce: O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. Nell’oggi liturgico siamo chiamati a condividere (il prefisso syn è veramente coinvolgente!) crocifissione, morte, sepoltura e risurrezione di Gesù: è il nostro uomo vecchio che viene crocifisso, ma è il nostro uomo nuovo che accetta volontariamente di salire sulla croce per donarsi agli altri, che muore per far fruttificare il seme, che marcisce nella terra del sepolcro per poter rinascere a nuova esistenza.

La quarta ode è la preghiera del profeta Abacuc (Ab 3, 2-19): Signore, ho ascoltato il tuo annunzio, ho avuto timore della tua opera. Nel corso degli anni manifestala, falla conoscere nel corso degli anni. Nello sdegno ricordati di avere clemenza. Dio viene da Teman, il Santo dal monte Paràn. La sua maestà ricopre i cieli, delle sue lodi è piena la terra. Il suo splendore è come la luce, bagliori di folgore escono dalle sue mani: là si cela la sua potenza. …. Sei uscito per salvare il tuo popolo, per salvare il tuo consacrato. Hai demolito la cima della casa dell’empio, l’hai scalzata fino alle fondamenta. Con i tuoi dardi hai trafitto il capo dei suoi guerrieri che irrompevano per disperdermi con la gioia di chi divora il povero di nascosto. …. Ma io gioirò nel Signore, esulterò in Dio mio salvatore. Il Signore Dio è la mia forza….

In questa veglia divina il profeta di Dio, Abacuc, con noi rimanga e ci mostri l’angelo che risplendendo dirà: Oggi è la salvezza del mondo, poiché Cristo è risorto perché è l’Onnipotente.

Come un maschio che apre un seno verginale, è apparso Cristo come uomo, è chiamato Agnello, senza difetto perché privo di colpa, Lui, la nostra Pasqua, e come Dio vero è proclamato perfetto.

Come agnello di un anno, Cristo la nostra corona benedetta, si è immolato volontariamente per tutti, Pasqua purificatrice, e di nuovo risplende dal sepolcro per noi, splendido sole di giustizia.

Davide, progenitore di Dio, ha danzato con giubilo davanti all’arca, che era solo un’ombra; ma noi, popolo santo di Dio, vedendo realizzarsi le figure, godiamo di divina letizia, poiché Cristo è risorto perché è l’Onnipotente.

In Ab 2, 1a il profeta dice: Mi metterò di sentinella, in piedi sulla fortezza: anche noi stiamo vegliando in attesa dell’angelo che reca l’annuncio della salvezza, poiché oggi si realizza l’evento fondante la nostra fede. In Lv 22, 18b-33 troviamo la descrizione di come debba essere il sacrificio offerto a Dio per essere gradito: «Chiunque della casa d’Israele o dei forestieri dimoranti in Israele presenta in olocausto al Signore un’offerta per qualsiasi voto o dono volontario, per essere gradito, dovrà offrire un maschio, senza difetto, di buoi, di pecore o di capre. Non offrirete nulla con qualche difetto, perché non sarebbe gradito. Se uno offre al Signore, in sacrificio di comunione, un bovino o un ovino, sia per sciogliere un voto, sia come offerta volontaria, la vittima, perché sia gradita, dovrà essere perfetta: senza difetti. ….. Quando offrirete al Signore un sacrificio di ringraziamento, offritelo in modo che sia gradito. La vittima sarà mangiata il giorno stesso; non ne lascerete nulla fino al mattino. Io sono il Signore. Osserverete dunque i miei comandi e li metterete in pratica. Io sono il Signore. Non profanerete il mio santo nome, perché io mi manifesti santo in mezzo agli Israeliti. Io sono il Signore che vi santifico, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto per essere vostro Dio. Io sono il Signore». Ci sono anche i paralleli di Es 13, 2 «Consacrami ogni primogenito che apre il grembo tra i figli d’Israele: uomo e animale sono miei» e di Es 13, 12 riserverai per il Signore ogni essere che apre il grembo e ogni parto dell’animale che avrai: i maschi sono del Signore, ripresi da Lc 2, 23 nel racconto della Presentazione al tempio di Gesù: come sta scritto nella legge di Mosè: Ogni maschio primogenito sarà considerato sacro al Signore. San Pietro associa esplicitamente il sangue versato da Gesù sulla croce al sangue dell’agnello immolato (1 Pt 1, 19): ma per mezzo del sangue prezioso di Cristo, che ha svolto la funzione di agnello puro e senza macchia, mentre invece san Paolo associa l’immolazione di Cristo all’altro modo di celebrare la pasqua ebraica, cioè la tradizione degli azzimi (1 Cor 5, 7): Purificatevi del vecchio lievito, per essere una nuova pasta, come già siete senza lievito. Poiché anche la nostra Pasqua, cioè Cristo, è stata immolata.

Cristo è la nostra Pasqua, è l’agnello che viene presentato a Dio per la purificazione di tutti e il cui sangue, oltre che sull’altare, viene asperso sul nuovo popolo dell’alleanza: si è manifestato nella carne, si è fatto uomo, maschio primogenito di una madre vergine, e il suo essere senza peccato lo rende perfetto ai fini del sacrificio gradito al Padre. Gesù viene paragonato all’agnello integro di un anno che in Es 12, 5 viene indicato come il più adatto per celebrare il passaggio del Signore tra le case degli egiziani, ma l’immolazione di Cristo non è subita, è volontaria; lui corona l’anno con i suoi benefici (Sal 64, 12), e nel suo sacrificio ottiene la purificazione per tutti. Dal sepolcro spalancato sorge come splendido sole di giustizia, così come era stato cantato nel tropario di Natale, ad illuminare tutto con la luce della sua risurrezione. Quando Davide trasportò l’arca a Gerusalemme danzò con gioia intorno ad essa (2 Sam 6, 16), e Nicodemo l’Aghiorita, un monaco del Monte Athos vissuto nel XVIII secolo, commentando il canone pasquale diceva che l’arca, caduta in preda ai nemici per i peccati del popolo e poi restituita a Davide, eletto da Dio, liberatore del popolo, era la figura del Corpo di Cristo, morto, sepolto, e risorto.

La quinta ode è costituita dalla preghiera di Isaia (Is 26, 9-20): La mia anima anela a te di notte, al mattino il mio spirito ti cerca, perché quando pronunzi i tuoi giudizi sulla terra, giustizia imparano gli abitanti del mondo. Signore, ci concederai la pace, poiché tu dài successo a tutte le nostre imprese. Signore nostro Dio, altri padroni, diversi da te, ci hanno dominato, ma noi te soltanto, il tuo nome invocheremo. I morti non vivranno più, le ombre non risorgeranno; poiché tu li hai puniti e distrutti, hai fatto svanire ogni loro ricordo. Hai fatto crescere la nazione, Signore, hai fatto crescere la nazione, ti sei glorificato, hai dilatato tutti i confini del paese. Signore, nella tribolazione ti abbiamo cercato; a te abbiamo gridato nella prova, che è la tua correzione. …. Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre.

Vegliando al primo albeggiare, al posto degli aromi offriamo al Signore i nostri canti, e vedremo Cristo, sole di giustizia, che la vita per tutti fa sorgere.

Vedendo la tua misericordia incommensurabile, i prigionieri dell’ade corsero verso la luce, o Cristo, con passo esultante, lodando la Pasqua eterna.

Con le nostre lampade andiamo incontro al Cristo che come uno sposo esce dal sepolcro, e con le schiere celebriamo festanti la Pasqua salvifica di Dio.

La celebrazione di questo mattutino ben si sposa con l’inizio del brano di Isaia; siamo nel cuore della notte, la luce non è quella naturale, e questo consente al fedele di percepire sensibilmente come la luce di Pasqua sia qualitativamente nuova: il desiderio dell’incontro con il Risorto illumina tutto il mondo. Le donne mirofore (così sono chiamate dalla tradizione bizantina coloro che, secondo Lc 24, 1, si recarono al sepolcro di buon mattino portando gli aromi per ungere il corpo di Gesù dopo la affrettata sepoltura della vigilia del sabato) prevennero l’aurora come chi brama il giorno, e noi, nella nostra veglia, al posto della mirra offriamo i nostri canti al Signore, in questo nostro desiderio di correre incontro a Cristo. Il profeta Malachia (Ml 3, 20a) dice: Per voi che temete il mio nome spunterà il sole di giustizia, con raggi radiosi, così iniziamo a correre verso l’incontro nella certezza che le tenebre esteriori sono vinte da colui che, facendo splendere il sole sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45), rivela il suo vero volto nell’amore come dono di sé, amore che diviene il criterio della vita rinnovata. Non è principalmente il sole che con la sua luce fa essere le persone e le cose, ma è Cristo che le illumina dal di dentro, facendo emergere ovunque il suo volto, la sua presenza. Mi avvolsero vincoli infernali, mi avvinsero lacci di morte (Sal 18, 6), ma anche negl’inferi si può cogliere questa presenza, perché Cristo vi è disceso per liberare i prigionieri (Sal 145, 7), per dire ai carcerati: “Uscite”, e a quanti si trovano nelle tenebre: “Venite fuori” (Is 49, 9a). Sempre Isaia (Is 42, 6) dice Io, il Signore, ti ho chiamato nella giustizia e ti ho afferrato per mano, ti ho formato e ti ho stabilito alleanza di popolo e luce delle nazioni: anche dagli inferi si può scorgere la luce del Risorto anzi, forse proprio da lì si può cogliere meglio la sua misericordia che sfugge a ogni capacità di comprensione tanto è dilatata verso l’infinito, le sue braccia spalancate sulla croce ora ci afferrano per mano. La parabola delle dieci vergini (Mt 25, 1-13) era stata uno dei temi dominanti del martedì santo, e ora il nostro paragone con loro non giunge del tutto “casuale”: come già detto, ogni fedele durante tutto il mattutino ha un cero acceso in mano, quindi l’identificazione con le vergini sagge, che hanno saputo conservare l’olio della virtù fino al momento in cui giunge lo sposo, viene liturgicamente interiorizzata volgendo il nostro sguardo verso colui che come uno Sposo esce dal sepolcro.

La sesta ode è tratta dalla preghiera di Giona (Gio 2,3-10), i cui tre giorni passati nel ventre del pesce che lo aveva inghiottito sono figura dei tre giorni passati da Gesù nella tomba: Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare e le correnti mi hanno circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde sono passati sopra di me. Io dicevo: Sono scacciato lontano dai tuoi occhi; eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio. … Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore mio Dio. Quando in me sentivo venir meno la vita, ho ricordato il Signore. La mia preghiera è giunta fino a te, fino alla tua santa dimora. Quelli che onorano vane nullità abbandonano il loro amore. Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio e adempirò il voto che ho fatto; la salvezza viene dal Signore.

Sei disceso nelle profondità della terra, spezzando gli eterni legami che incatenavano i prigionieri, o Cristo, e dopo tre giorni come Giona dal pesce sei risorto dalla tomba.

Sei risorto dal sepolcro o Cristo, serbandone intatti i sigilli, tu che alla tua nascita non violasti il seno della Vergine: hai aperto per noi le porte del paradiso.

Mio Salvatore, vittima vivente e non immolabile, volontariamente come Dio ti sei offerto al Padre, e risorgendo dalla tomba tutta la stirpe di Adamo fai risorgere.

Il collegamento dei tre giorni di Giona con quelli di Gesù è riportato da Mt 12, 40 Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti. Il terzo giorno nell’Antico Testamento era perlopiù considerato il giorno della liberazione, della vittoria sulla schiavitù della morte dopo un periodo di difficoltà, di tentazione, di prova, di crisi; tanti sono i riferimenti possibili: Os 6, 1-2, il sacrificio di Isacco (Gn 22, 4), Giuseppe che libera i suoi fratelli (Gn 42, 18), l’alleanza del Sinai (Es 19, 11.15-16), così come Est 5, 1; 2 Sam 1,2; 1 Re 12, 12; 2 Re 20, 5.8, Esd 8, 32, e altri ancora. L’iniziativa di Dio nella storia umana salva chi si affida alla sua volontà, non lascia il giusto nella tribolazione e nella morte, ma lo richiama alla vita, lo rialza, lo fa risorgere. L’icona della risurrezione mostra Cristo che abbatte le porte degli inferi (riprendendo l’immagine di Sal 106, 16 poiché infranse le porte di bronzo, mandò in frantumi le sbarre di ferro, oppure di Is 45, 2 Io marcerò davanti a lui, appianerò i pendii, distruggerò le porte di bronzo e spezzerò le sbarre di ferro) e richiama alla vita Adamo ed Eva; dietro a loro ci sono i Patriarchi, i Re, i Profeti, tutti i giusti dell’antichità che attendevano questo giorno. Il movimento di discesa di Cristo è una irruzione dinamica che sconvolge la realtà e la attrae a sé: i morti si rialzano come catalizzati dalla potenza del morto che è stato risuscitato da Dio. San Paolo ci dice (Ef 4, 9): Ora, questo “è salito” che cosa vuol dire se non che egli era anche disceso nelle parti più basse della terra?

I capi dei sacerdoti e i farisei, per timore che qualcuno rubasse il corpo di Gesù, andarono ad assicurare il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia (Mt 27, 66), così che le mirofore, andando al sepolcro, si interrogavano: «Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?». Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande (Mc 16, 3-4). È noto che gli evangelisti non descrivono il come sia avvenuta la risurrezione, quindi anche noi dobbiamo rispettosamente fermarci a un prima e un dopo, ma è sempre possibile notare il parallelo con la nascita di Gesù dalla Vergine Maria, riprendendo ad esempio la profezia di Ezechiele (Ez 44, 2) Questa porta resterà chiusa, non deve restare aperta; nessuno vi deve passare perché c’è passato il Signore, il Dio d’Israele; deve restare chiusa. La croce di Gesù, come già sottolineato nella riflessione della terza domenica di Quaresima, ha tolto di mezzo il serafino che con la sua spada fiammeggiante stava a guardia delle porte del paradiso, così ora Cristo risorto vi conduce gli uomini dopo averli presi per mano nella sua discesa agli inferi: Salito in alto, egli ha portato con sé dei prigionieri e ha fatto dei doni agli uomini (Ef 4, 8).

Il nostro Salvatore è Dio dei vivi, non dei morti, ed essendo vivo è una vittima non immolabile; ma è anche vero che questa immolazione volontaria è offerta dal Figlio al Padre, un Padre pieno di amore per l’uomo che egli stesso aveva creato: non abbiamo di fronte un nemico vincitore da soddisfare o un Dio vendicativo che abbia bisogno di chissà quale riscatto, ma un Dio che ha scelto, nel suo “folle” amore per la stirpe di Adamo, la condivisione estrema, fino alla morte, e alla morte di croce, per far risorgere tutti con lui.

La settima ode si basa sulla preghiera dei tre fanciulli nella fornace (Dn 3, 26-56): “Benedet-to sei tu, Signore Dio dei nostri padri; degno di lode e glorioso è il tuo nome per sempre. Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto; tutte le tue opere sono vere, rette le tue vie e giusti tutti i tuoi giudizi. Giusto è stato il tuo giudizio per quanto hai fatto ricadere su di noi e sulla città santa dei nostri padri, Gerusalemme. Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati, poiché noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te, abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti, non li abbiamo osservati, non abbiamo fatto quanto ci avevi ordinato per il nostro bene. ….. Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. ….. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito, perché non c’è confusione per coloro che confidano in te. Ora ti seguiamo con tutto il cuore, ti temiamo e cerchiamo il tuo volto. Fa’ con noi secondo la tua clemenza, trattaci secondo la tua benevolenza, secondo la grandezza della tua misericordia. Salvaci con i tuoi prodigi, dà gloria, Signore, al tuo nome. ….. La fiamma si alzava quarantanove cubiti sopra la fornace e uscendo bruciò quei Caldei che si trovavano vicino alla fornace. Ma l’angelo del Signore, che era sceso con Azaria e con i suoi compagni nella fornace, allontanò da loro la fiamma del fuoco e rese l’interno della fornace come un luogo dove soffiasse un vento pieno di rugiada. Così il fuoco non li toccò affatto, non fece loro alcun male, non diede loro alcuna molestia. Allora quei tre giovani, a una sola voce, si misero a lodare, a glorificare, a benedire Dio nella fornace dicendo: Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto il tuo nome glorioso e santo, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu nel tuo tempio santo glorioso, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu nel trono del tuo regno, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo gli abissi e siedi sui cherubini, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu nel firmamento del cielo, degno di lode e di gloria nei secoli”.

Colui che salvò i fanciulli dalla fornace, fattosi uomo, soffre come un mortale, e con la sua passione riveste la natura mortale di splendore incorruttibile; il solo benedetto, il Dio dei Padri, gloriosissimo.

Le donne ricolme di saggezza con unguenti corsero da te, ma esultanti adorarono come Dio vivo quello stesso che prima come morto tra le lacrime cercavano, e la Pasqua mistica, ai tuoi discepoli, o Cristo, annunciarono.

Festeggiamo la disfatta della morte, la distruzione degli inferi, l’inizio di un’altra vita, quella eterna, ed esultanti cantiamo colui che ne è la causa, il solo benedetto, il Dio dei Padri, gloriosissimo.

Sacra e solenne è questa notte salvifica e luminosa, che preannuncia il giorno fulgido della risurrezione, nel quale la Luce che non ha principio ha rifulso su tutti col suo corpo.

Paolo, nella sua prima lettera ai Corinzi, ci dice: Questo corpo corruttibile deve rivestire l’incorruttibilità e questo corpo mortale rivestire l’immortalità, (1Cor 15, 53). Questa trasformazione avviene attraverso la sofferenza e la passione, nella quale Dio stesso, nella inscindibile unità divino-umana di Gesù di Nazaret, soffre come un mortale. È opportuno rilevare che la simbologia battesimale della triplice immersione totale del battezzando nell’acqua, con la conseguente riemersione, volendo esprimere la morte dell’uomo vecchio e la risurrezione dell’uomo nuovo, porta i neobattezzati ad indossare la veste bianca, veste di incorruttibilità, che porteranno per tutta l’ottava di Pasqua. Essi hanno ricevuto la santa Illuminazione, sono gli illuminati, e dalla loro candida veste rifulge la luce della risurrezione, della loro rinascita in Cristo.

Le mirofore questa volta vengono associate alle fanciulle che corrono incontro al loro amato: I tuoi profumi sono soavi a respirare, aroma che si effonde è il tuo nome: per questo ti amano le fanciulle. Attirami a te, corriamo! Fammi entrare, o re, nelle tue stanze: esulteremo e gioiremo per amore tuo, celebreremo i tuoi amori più che il vino. Come a ragione ti si ama! (Ct 1, 3-4). Sono loro a ricevere l’annuncio della risurrezione dall’angelo (Mt 28, 6-9): il morto che cercavano non è più lì, è risorto come aveva predetto, e il loro compito è quello di dare il lieto annuncio ai discepoli. Quando Gesù risorto appare alle mirofore, immediatamente lo riconoscono e lo adorano, a differenza degli stessi apostoli che hanno una reazione che in alcuni di loro rasenta addirittura il dubbio (Mt 28, 17).

Per cogliere secondo una prospettiva particolare la disfatta della morte che viene festeggiata si potrebbe fare riferimento alle strofe che vengono cantate al Lucernario della Vigilia di Pasqua, dove vediamo l’inferno personificato che, rendendosi conto della portata cosmica della morte di Gesù, non può che assistere impotente alla distruzione del suo regno che durava da secoli, allo svuotamento totale dei sepolcri: pensava di aver trionfato accogliendo Dio come uno dei mortali, ma tutti Lui li fa risorgere! È questa la vita nuova che inizia, una vita che non è semplicemente la prosecuzione biologica di quella di prima, ma che ha in sé la dimensione dell’ottavo giorno. Ritorna il tema della luce, accostando il tema della notte come preludio del fulgido giorno della risurrezione a quello della Luce increata, quella che non ha principio, che si sprigiona dal corpo glorioso di Gesù risorto. È la stessa Luce del Tabor, che Pietro, Giacomo e Giovanni avevano potuto pregustare per comprendere che la passione di Cristo era volontaria, e che ora è offerta a tutti.

L’ottava ode è il cantico dei tre fanciulli nella fornace (Dn 3, 57-87), prosecuzione del testo scritturistico dell’ode precedente: «Benedite, opere tutte del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli. Benedite, angeli del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli. Benedite, cieli, … acque tutte, che siete sopra i cieli, … potenze tutte del Signore,…. sole e luna, … stelle del cielo, … piogge e rugiade, … venti tutti, … fuoco e calore, … freddo e caldo, … rugiada e brina, …. gelo e freddo, … ghiacci e nevi, … notti e giorni, … luce e tenebre, … folgori e nubi, … Benedica la terra il Signore, lo lodi e lo esalti nei secoli. …monti e colline, … creature tutte che germinate sulla terra, … sorgenti, … mari e fiumi,… mostri marini e quanto si muove nell’acqua, … uccelli tutti dell’aria, …. animali tutti, selvaggi e domestici, ….. figli dell’uomo, … Israele … sacerdoti del Signore, … servi del Signore, …. spiriti e anime dei giusti, …. pii e umili di cuore, …. Benedite, Anania, Azaria e Misaele, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli, perché ci ha liberati dagli inferi, e salvati dalla mano della morte, ci ha scampati di mezzo alla fiamma ardente, ci ha liberati dal fuoco. Lodate il Signore, perché egli è buono, perché la sua grazia dura sempre. Benedite, fedeli tutti, il Dio degli dei, lodatelo e celebratelo, perché la sua grazia dura sempre».

È il cantico della lode cosmica: in esso riecheggia il racconto della creazione del primo capitolo di Genesi, evidenziandone il comune contesto esilico che ha dato origine a entrambi i testi. Il cantico non si ferma ai figli dell’uomo che sono invitati a benedire il Signore, ma fa esplicito riferimento a Israele, ai tre fanciulli, a coloro cioè che hanno visto il manifestarsi di Dio nella loro storia personale, a coloro che hanno sperimentato la salvezza che viene da Dio.

Questo è il giorno annunciato e santo, unico sabato, re e signore. Festa delle feste, e solennità delle solennità, in cui benediciamo Cristo nei secoli.

Venite, partecipiamo del nuovo frutto della vite, nel solenne giorno della risurrezione, della divina esultanza del regno di Cristo, cantiamo a lui come Dio nei secoli.

Leva intorno i tuoi occhi o Sion e guarda: ecco vengono i tuoi figli a te, risplendenti di luce divina, dall’occidente e da settentrione, dall’oriente e dal mare, e in te benedicono Cristo nei secoli.

Padre onnipotente, Verbo e Spirito, unica natura in tre ipostasi, sovrasostanziale, più che divina: in te siamo stati battezzati, e te noi credenti benediciamo nei secoli.

Non siamo venuti qui di nostra iniziativa, siamo stati convocati: Nel primo giorno ci sarà convocazione sacra, non farete alcuna ope-ra servile (Lv 23, 35); oggi chiesa e sinagoga coincidono, perché questo è il nuovo Sabato, l’uno come era l’uno il primo giorno della creazione (Gn 1, 5), il primo giorno della settimana non da un punto di vista cronologico ma ontologico, perché in esso ha origine il cammino verso l’ottavo giorno. Sempre riferendoci al tema battesimale, è opportuno rilevare come fin dall’inizio e per molti secoli, i battisteri avevano forma ottagonale (ne sono uno splendido esempio quelli di Ravenna che risalgono addirittura alla prima metà del V secolo) per sottolineare l’ingresso del battezzato in una nuova dimensione temporale, in cui non è l’onnivoro dio chrònos a divorare tutto, ma è il Signore Gesù Cristo a spezzare il tempo chiuso in se stesso e a offrire all’uomo la possibilità di entrare nell’eterno (kairòs). L’identificazione del primo con l’ottavo giorno risale all’epoca apostolica ed è testimoniata dalla lettera di Barnaba, ripresa da un gran numero di Padri della Chiesa e ripresentata in occidente dal grande liturgista tedesco Odo Casel nel secolo scorso. La nuova creazione inizia con il giorno di Pasqua e ogni domenica ritorna a noi nella celebrazione del giorno del Signore: mentre in greco ed in latino la domenica trae il nome dal Signore, per gli slavi la domenica trae il nome dalla Risurrezione. La domenica, in particolare quella di Pasqua, è allora alfa e omega, principio e compimento, Eucaristia e Parusia.

In Mt 26, 29, come già citato nella terza ode, Gesù aveva posto come condizione per bere nuovamente al calice l’ingresso nel regno, cosa che oggi è finalmente possibile: si compie definitivamente il miracolo di Cana e la nostra comunione al corpo e al sangue di Cristo rende l’uomo rinnovato dalla risurrezione una nuova famiglia nella Chiesa radunata. In Is 60, 1-4 troviamo la convocazione di tutti i popoli nella nuova Gerusalemme: quello che era il resto di Israele post-esilico si dilata fino a comprendere tutti i popoli della terra. Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio. Così in Is 49, 12, quando il Signore promette a Israele di costituirlo a capo delle nazioni, dice Guardate! Questi vengono da lontano; ecco, questi altri vengono da settentrione e da occidente, e questi dal paese dei Sinim. Ogni confine geografico è inadeguato perché la salvezza è per tutti e per ciascuno, senza nessuna distinzione: la Chiesa non è un circolo privato ma è aperta a chiunque desideri condividere e riconoscere il comune cammino verso Cristo e in Cristo. Siamo stati battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (Mt 28, 19), e nella Trinità che ci è stata compiutamente rivelata nella passione, morte e risurrezione di Gesù abbiamo la certezza di avere con noi il Signore fino alla fine dei secoli (Mt 28, 20). Oggi Eucaristia e Regno coincidono!

La nona e conclusiva ode del canone è l’unica a basarsi su testi neotestamentari, il cantico della Madre di Dio (Lc 1, 46-55) e la preghiera di Zaccaria, padre di san Giovanni Battista (Lc 1, 68-79): entrambi questi cantici sono di uso comune nella liturgia delle ore occidentale, sebbene il primo sia cantato nell’ufficio del Vespero e solo il secondo sia cantato nell’ufficio di Lodi. In questa circostanza la nona ode è contemporaneamente il Magnificat di Cristo e della Madre di Dio.

Magnifica, anima mia, il risorto dopo tre giorni dai morti, Cristo, che dona la vita.

Risplendi, risplendi, nuova Gerusalemme: la gloria del Signore si è levata su di te. Danza, ora, ed esulta, Sion, e tu, pura Madre di Dio, rallegrati, per il risorgere di colui che è nato da te.

Magnifica, anima mia, colui che volontariamente ha sofferto ed è stato sepolto, e il terzo giorno è risorto dal sepolcro.

Cristo, nuova Pasqua, vittima vivente, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo.

Oh, la tua voce amatissima, divina e dolcissima; promettesti o Cristo di rimanere con noi fino alla fine dei secoli: possedendo quest’àncora di speranza, fedeli rallegriamoci.

Maria Maddalena corse al sepolcro, e vedendo Cristo, conversò con lui come se fosse il giardiniere.

O Cristo, Pasqua grande e santissima, o Sapienza, Potenza e Verbo di Dio! Concedici di comunicare chiaramente nel giorno senza tramonto del tuo regno.

Un angelo cantò alla piena di grazia: Vergine pura, rallegrati! Di nuovo ti dico: Rallegrati! Tuo Figlio dopo tre giorni è risorto dalla tomba rialzando i morti. Popoli, esultate.

Facciamo nostre le parole di Maria: anche la nostra anima magnifica il Signore Gesù Cristo, colui che volontariamente ha sofferto la passione, è stato sepolto in una tomba come qualsiasi mortale, ma è risorto da essa come Dio. Sono numerose le citazioni su cui è stata composta la prima strofa: oltre al già citato testo di Isaia del capitolo 60, abbiamo Sof 3, 14 Giubila, figlia di Sion, rallegrati, Israele, gioisci ed esulta di tutto cuore, figlia di Gerusalemme, e anche Zc 2, 14 Giubila, rallègrati, figlia di Sion! Sì, ecco io vengo, abiterò in mezzo a te. Oracolo del Signore sul tema dell’esultanza della figlia di Sion. In ambito neotestamentario abbiamo Eb 12, 22 che si riferisce direttamente alla Chiesa trionfante Voi vi siete invece avvicinati al monte Sion, alla città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, alla festante riunione delle miriadi angeliche, raccolta attorno all’Agnello mistico da cui risplende la gloria di Dio (Ap 21, 23) La città non ha bisogno di sole, né di luna che la illumini, perché la gloria di Dio la illumina, e l’ Agnello è la sua lampada. È denso di significato il collegamento dell’annuncio della risurrezione da parte dell’angelo a Maria: così come Gabriele aveva portato a Maria l’annuncio dell’incarnazione (Lc 1, 47) ora è giusto che Maria riceva da Gabriele l’annuncio della risurrezione con il medesimo invito alla gioia. Se il tropario dell’Annunciazione ci faceva cantare: Oggi è l’inizio della nostra salvezza, il Figlio di Dio diviene figlio della Vergine, nella risurrezione di Gesù questa economia divina trova il suo compimento. Cristo è la nuova Pasqua, è lui l’Agnello che toglie il peccato del mondo (Gv 1, 29) indicato da Giovanni Battista che aveva esultato nel grembo della madre ascoltando il saluto di Maria (Lc 1, 44). Anche noi ci rallegriamo udendo la voce dello Sposo, secondo Ct 2, 8 Una voce! Il mio diletto! Eccolo, viene, e come le vergini sagge, sapendo che la nostra unica ragione di esistenza è poter celebrare la nostra unione con lo Sposo, fondiamo la nostra vita sull’àncora di speranza che è il Cristo risorto. Lui ci ha promesso di essere con noi fino alla fine del mondo (Mt 28, 20), e noi siamo protesi al suo secondo ritorno. I primi cristiani attendevano la parusia proprio nel mattino di Pasqua, perché la risurrezione è la dimensione vera della vita. Noi ci comunichiamo oggi con il Corpo e il Sangue di Cristo risorto, chiedendogli di poter comunicare con lui, non solo sacramentalmente, quando tutto sarà consumato nel suo Regno.

Serafino di Sarov, un famosissimo santo russo vissuto a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo e canonizzato poco dopo la sua morte alla vigilia della rivoluzione bolscevica, era solito salutare chiunque incontrasse esclamando: “Mia gioia, Cristo è risorto!”, perché non poteva augurare nulla di più vero e fondamentale, l’unico motivo per cui nella vita, pur nella presenza delle tenebre del male, si possa ragionevolmente essere contenti. Sempre San Serafino, anche se si era al di fuori del tempo liturgico (morì infatti nella notte tra l’1 e il 2 gennaio 1833 secondo il calendario giuliano) passò la sua ultima notte in preghiera davanti all’icona della Madre di Dio cantando gli inni del canone del mattutino di Pasqua: possiamo sperare di andare incontro allo Sposo in un modo migliore?

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