lunedì 27 maggio 2013

Malattia e guarigione nell'arte paleocristiana

 
Fronte di sarcofaco presso il museo Lateranense




Malattia e guarigione nell’arte paleocristiana

Quel mantello «alla cinica» che copre il terapeuta


 

di Fabrizio Bisconti

L’immaginario iconografico paleocristiano accoglie molto presto gli episodi evangelici legati alla malattia e ai relativi miracoli, che vedono il Cristo come terapeuta e guaritore, tanto è vero che, in molti casi, il Salvatore assume le caratteristiche fisionomiche di Asklèpios e veste il pallio dei sapienti, ovvero il cosiddetto mantello "alla cinica", come succede in un singolare sarcofago romano ora conservato al museo di Palazzo Massimo riferibile all’età tetrarchica, ossia al grave momento della persecuzione dioclezianea. È sintomatico che, in questo rilievo, il Cristo guaritore compaia contemporaneamente come protagonista del sermone della montagna (Luca, 6, 20, Marco, 5, 1-3) e come guaritore della mulier inclinata, del cieco nato, del lebbroso, del paralitico, dell’ossesso, quasi per indicare che è proprio dal Lògos e dalle sue parole che si muovono le vie della salvezza del corpo e dell’anima, in perfetta coerenza con quanto evidenziano i Padri della Chiesa: da Tertulliano (Adversus Marcionem, 4, 14) a Clemente Alessandrino (Stromata, 5, 70, 1). Ma la traduzione figurata dei miracoli di guarigione si affaccia ancora prima all’orizzonte figurativo paleocristiano, sin dagli esordi del III secolo, quando, simultaneamente, nel battistero di Dura Europos, in Siria, e in uno dei cubicoli della più antica area del complesso romano di San Callisto, compare l’immagine del paralitico già guarito, mentre solleva il suo lettuccio da infermo sulle spalle.


 
 


Dura Europos, il paralitico
 
 
Come è noto, i sinottici rievocano un miracolo occorso a un paralitico a Cafarnao (Matteo, 9, 1-8, Marco, 2, 3-12, Luca, 5, 18-26), mentre Giovanni ricorda un prodigioso risanamento di uno storpio presso la piscina probatica di Gerusalemme (Giovanni, 5, 1-15).

Lo schema iconografico molto semplice, che - come si è detto - comporta la figura del malato che risponde all’ordine perentorio del Cristo di alzarsi e camminare, rende bene l’idea dell’urgenza e dell’eccezionalità dell’evento, talora arricchito dal sacro gesto dell’impositio manuum del Salvatore, che vuole significare la potenza taumaturgica del Lògos. Il miracolo, che si verifica presso la piscina di Bethesda, rappresentato molto spesso, specialmente nei sarcofagi romani di età teodosiana, sottolinea il collegamento naturale che l’idea della guarigione intrattiene con il concetto di purificazione.
 
 
 
Catacombe di San Callisto, Mosè apre le acque, battesimo del Signore e il paralitico
 
 
Presso la piscina, situata ai piedi della collina che si alzava nei pressi del Tempio, si affollavano, infatti, molti infermi, che si precipitavano nelle acque non appena un angelo ne sollevava il livello, con la speranza di essere i primi a immergersi per essere risanati. Il miracolo del paralitico - per questo motivo - è stato spesso interpretato in chiave battesimale, come sottolinea efficacemente Tertulliano (De baptismo, 5), quando ricorda che il bagno nell’acqua lustrale monda i fedeli dal peccato, restituendo l’integrità fisica e spirituale.

La stessa associazione semantica sostiene la fortuna iconografica degli episodi relativi alle guarigioni dei non vedenti. Oltre al risanamento di ciechi in massa (Luca, 7, 21, Matteo, 15, 30-31 e 21, 14), il Nuovo Testamento ricorda altri miracoli relativi ai non vedenti guariti dal Cristo, che possono essere ricondotti a uno verificatosi a Cafarnao, che interessò una coppia di ciechi (Matteo, 9, 28-31); a un altro accaduto in una via di Gerico, ancora in favore di una coppia di non vedenti (Matteo, 20-29-34); a quello celebre relativo al mendicante Bartimeo (Marco, 10, 46-52); a uno ancora ambientato a Bethesda (Marco, 8, 22-26) e a quello, sopra ricordato, della piscina di Siloe. Specialmente in riferimento a quest’ultimo miracolo rievocato da Giovanni, i Padri della Chiesa sottolineano, appunto, il simbolismo battesimale, per la chiara allusione al sacramento dell’illuminazione, come afferma esplicitamente ancora Tertulliano (De baptismo, 5, 5).

 
 
Frammento di sarcofaco nel museo di Arles


Altri si soffermano sull’assimilazione cieco nato-uomo peccatore dalla nascita e cieco illuminato-uomo risanato dalla grazia del Battesimo e anzi, per Ireneo (Adversus haereses, 5, 15, 13), il lavaggio della piscina di Siloe si riferisce sicuramente al lavacro battesimale e il momento precedente è da identificarsi con il catecumenato, mentre per Ambrogio (Epistulae, 80) l’uomo, che aveva un cuore cieco, dopo Siloe, ha aperto gli occhi.

Questo logico e naturale passaggio simbolico nutrì una fortuna assai considerevole della guarigione del cieco nell’arte cristiana più antica, che rappresenta l’infermo nel momento del miracolo con le braccia sollevate nel gesto orante del ringraziamento, mentre il Cristo impone solennemente le mani sul suo capo a sui suoi occhi. Piuttosto fortunato risulta, nella produzione figurativa paleocristiana, anche il miracolo della guarigione operata dal Cristo nei confronti di un’emorroissa (Matteo, 9, 20-22, Marco, 5, 25-29, Luca, 8, 43-48), che assurge, anzi, ad emblema paradigmatico della fede nella potenza divina e taumaturgica del Cristo. L’arte, sin dalle prime manifestazioni, fissa il momento in cui la donna inginocchiata sfiora il pallio del Salvatore che, talora, si volge verso di lei per interpellarla.

Lo schema iconografico, assai sintetico ed estremamente simile a quello relativo alla guarigione della figlia della cananea (Matteo, 15, 21-28, Marco, 7, 24-30), rende molto bene il forte concetto del peccato annullato dal perdono, per il tramite del pentimento, alludendo, in senso più lato, alla Chiesa, che mette a nudo le sue piaghe e chiede di essere guarita, come specifica chiaramente Ambrogio (De poenitentia, 1, 7, 31).

 

Sarcofago nel museo di Algeri
 


Più rara risulta la traduzione figurata della guarigione della donna curva (Luca, 13, 10-13), che, però, trova un’interessante manifestazione in un affresco del cimitero dei santi Pietro e Marcellino, dove la scena compare insieme a quella dell’emorroissa e della samaritana al pozzo, quasi per declinare al femminile tutto il programma decorativo di un arcosolio, dove, probabilmente, era sepolta una defunta.

Tutte queste rappresentazioni miracolose si inseriscono naturalmente nelle intenzioni significative di tutta l’arte cristiana delle origini, sempre tesa a trasmettere un messaggio positivo, poco incline a raccontare le storie del dolore, ma preoccupata a indicare le strade della guarigione, della speranza, della soluzione del problema, del superamento delle situazioni negative.
Questa generale atmosfera gioiosa investe anche gli episodi che vedono come protagonisti i malati, gli infermi e i sofferenti: a loro la "Bibbia figurata" riserva la soluzione finale della guarigione miracolosa, del superamento dell’imperfezione fisica, della purificazione, della salvezza, che tanto ha da condividere con l’idea soterica del Battesimo.



da: © L’Osservatore Romano 11 febbraio 2010

 

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