Seconda Domenica di Pasqua:
l’incredulità di Tommaso
di Roberto Pagani
La seconda
domenica di Pasqua presenta caratteristiche comuni alle diverse tradizioni, che
condividono generalmente la pericope evangelica, ovvero l’episodio di Tommaso
narrato dal solo Giovanni (Gv 20, 19-25):
La sera di quello stesso giorno, il primo
dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i
discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse:
“Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli
gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il
Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di
loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno
rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. Tommaso, uno dei
Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora
gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non
vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei
chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo
i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù,
a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a
Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e
mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose
Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai
creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”. Molti altri segni
fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo
libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il
Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Benché la
pagina evangelica sia la stessa, le diverse tradizioni hanno dato delle letture
che presentano angolature sensibilmente diverse. Il brano si può suddividere in
tre parti: le prime due sono apparizioni, entrambe ai discepoli ma con Tommaso
presente solo nella seconda, la terza sembra rappresentare una conclusione
dell’intero evangelo di Giovanni. Partiamo da quest’ultima osservazione per
rilevare che la maggioranza degli esegeti oggi tende a considerare il capitolo
ventesimo come quello conclusivo, almeno in una prima redazione; l’esclamazione
dell’incredulo Tommaso rivolta al Risorto: “Mio Signore e mio Dio” richiama
l’inizio del Prologo, e rimanda così alla situazione in principio: “In
principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio” (Gv 1,
1); dopo una così ampia inclusione, viene affermato il senso ultimo che ha
portato alla redazione scritta del libro dei segni, il cui scopo è di portarci,
come Tommaso, alla fede in Gesù come il Cristo, il Figlio di Dio, e alla vita
eterna nel suo nome. L’evangelo di Giovanni è dichiaratamente orientato alla
nostra salvezza. Tornando alla prima delle due apparizioni, quella avvenuta la
sera stessa del giorno di Pasqua, esso rappresenta la cosiddetta “Pentecoste
giovannea”: se Luca pone l’effusione dello Spirito a Pentecoste, cinquanta
giorni dopo la Pasqua ricollegandosi alla Pentecoste ebraica, e attraverso
Pietro interpreta nel secondo capitolo degli Atti questo avvenimento come il
compimento delle promesse messianiche, la missione dello Spirito rimane pur
tuttavia un aspetto del mistero di Cristo risorto; è lui che dona lo Spirito la
sera stessa del giorno della Risurrezione. La seconda apparizione, otto giorni
dopo la Pasqua, sembra invece essere quasi una apparizione particolare,
riservata in modo speciale a Tommaso per mostrare da un lato il cammino dal
dubbio alla fede, dall’altro per invitare tutti a credere, anche senza vedere,
attraverso l’incontro con l’annuncio dei testimoni del Risorto.
È proprio
questo aspetto quello sul quale la tradizione bizantina ha concentrato la
propria attenzione, al punto tale che la domenica è comunemente chiamata
“dell’incredulità di Tommaso”.
Ricorriamo al
Sinassario di Nicodemo l’Aghiorita per avere una sintesi dei temi svolti nel
corso dell’ufficiatura: “Guardate l’abilità di Dio: prendendosi cura di uno
solo, manifesta a tutti il suo piano di salvezza e, per confermare nella fede
coloro che seguiranno, egli attende otto giorni prima di ritornare, per
aumentare il desiderio di Tommaso o piuttosto in modo che il suo rifiuto di
credere procuri a tutti una fede più perfetta nella risurrezione. ... avendo
esaminato con cura e avendo avuto fede grazie all’aver potuto toccare (gli fu permesso
di toccare un corpo perfettamente incorruttibile e divinizzato per acquisire la
certezza) Tommaso esclamò: mio Signore e mio Dio, l’uno a causa della carne,
l’altro a causa della divinità”.
Tommaso in
siriaco è l’equivalente del greco Didimo, cioè gemello. Un’antichissima
tradizione attesta il culto dell’apostolo a Edessa di Siria (l’attuale Urfa, in
Turchia). Tommaso è citato nei sinottici solo come uno dei dodici, ma Giovanni
gli riserva molta più attenzione, ricordandolo in sette circostanze, tre delle
quali evidenziano il profilo di Tommaso. In occasione della malattia di Lazzaro
(Gv 11, 6), mentre gli apostoli cercavano di convincere Gesù a non andare in
Giudea per salvaguardare la loro incolumità, Tommaso dice con decisione:
“Allora andiamo anche noi a morire con lui!”. Nell’Ultima Cena, dopo che Giuda
ha lasciato il cenacolo, Gesù cerca di tranquillizzare i suoi: “Io vado a
prepararvi un posto... E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”. Ma a
Tommaso qualcosa non torna: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo
conoscere la via?”. E Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene
al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,1-6). Gesù sembra servirsi della
limitatezza dell’orizzonte di Tommaso per insegnare qualcosa a tutti noi. C’è
infine l’episodio al centro di questa domenica.
Gran parte
dell’ufficiatura indica come autore Giovanni monaco, ovvero Giovanni Damasceno
il noto teologo siriaco dell’VIII secolo. Tra l’altro, questa è l’unica
domenica del periodo pasquale in cui non si celebra l’ufficio risurrezionale
proprio degli otto toni, e questo rende particolarmente copioso il proprio
della domenica, soprattutto nel Vespero. Iniziamo dalle strofe del Lucernario,
nella prima delle quali si fa riferimento alla apparizione di Gesù la sera
stessa di Pasqua:
A porte chiuse, mentre i discepoli erano
riuniti, entrasti all’improvviso, o Gesù onnipotente, nostro Dio. Stando in
mezzo a loro, dando la pace li ricolmasti di Spirito Santo, e comandasti loro
di rimanere a Gerusalemme senza allontanarsene, finché non fossero rivestiti di
potenza dall’alto. Noi dunque a te acclamiamo: o luce, o risurrezione e pace
nostra, gloria a te!
Il primo
elemento, che ritroveremo frequentemente, è la sottolineatura delle porte
chiuse: Gesù risorto non è soggetto alle leggi normali dei corpi, ai limiti
spazio-temporali che contraddistinguono la nostra esistenza. Eppure Cristo è
presente veramente tra i suoi, dimostrando fisicamente la sua identità
attraverso i segni della sua crocifissione che documentano la sua morte: Egli è
risorto nel suo vero corpo! In questa sua prima apparizione ai discepoli, Gesù
dona loro la pace per ben due volte; in questi due auguri ci sono sfumature
diverse: la prima volta Gesù augura la pace all’animo turbato dei discepoli, la
seconda volta Gesù dona la pace ai discepoli perché la trasmettano agli altri.
Al testo giovanneo viene accostato il racconto lucano della apparizione agli
undici dove Gesù invita i discepoli a non allontanarsi da Gerusalemme fino alla
prossima Pentecoste (Lc 24, 48).
La seconda
strofa si riferisce invece alla seconda apparizione di Gesù:
Otto giorni dopo la sua risurrezione,
Signore, sei apparso ai tuoi discepoli, nel luogo dove erano riuniti, e rivolto
a loro hai detto: Pace a voi, mentre al discepolo incredulo hai mostrato le
mani e il petto immacolato; ed egli, convinto a te gridava: o mio Signore e mio
Dio, gloria a te.
Signore mio e
Dio mio è la professione di fede cristologica più alta di tutto il vangelo.
Nella versione greca della Bibbia dei LXX, Signore e Dio corrispondono
esattamente ad Adonai ed Elohim, usati entrambi in Sal 34, 23 che corrisponde
quasi alla lettera alla proclamazione cristologica di Tommaso. È noto come
l’applicare a Gesù testi che nell’AT riguardano Dio sia una tecnica usata dagli
autori del NT per confessare la divinità di Gesù in ambiente giudaico. La
professione di fede nella divinità di Gesù è esplicita e diretta tanto più,
come già accennato in precedenza, con riferimento al prologo giovanneo.
La terza
strofa del Lucernario va ancora più in profondità:
Tommaso, detto Didimo, non era con loro
quando tu entrasti, o Cristo, a porte chiuse: egli perciò non credeva a ciò che
gli veniva detto, perché la sua incredulità servisse a consolidare la nostra
fede. E tu non sdegnasti, o Buono, di mostrargli il tuo petto immacolato, e le
piaghe delle mani e dei piedi. Egli toccò, vide e confessò che tu non sei Dio
soltanto, né solo semplice uomo, ma esclamava: o mio Signore e mio Dio, gloria
a te!
Tra la prima e
la seconda grande apparizione non è Gesù che invita Tommaso a credere, bensì
gli altri discepoli. Era già accaduto che fosse un discepolo a invitarne un
altro a seguire Gesù (Andrea per Simon Pietro e Filippo per Natanaèle, sempre
nel primo capitolo di Giovanni), ma i discepoli sono stati inviati come il
Padre ha inviato Gesù stesso, e questo è il nuovo modo per sostenere il cammino
della fede di tutti. Tommaso però non è soddisfatto e Gesù viene incontro alla
sua pretesa. Compare il tema principale della festa di oggi: l’incredulità di
uno serve a consolidare la fede di tutti, concetto che troveremo sviluppato
ampiamente, così come risulta chiarissimo nella strofa seguente:
Mentre i discepoli erano nel dubbio,
l’ottavo giorno ti manifestasti o Sovrano, nel luogo dove erano riuniti. E data
la pace dicesti a Tommaso: vieni, apostolo, tocca le mani nelle quali sono
confitti i chiodi. O felice incredulità di Tommaso! Egli ha guidato il cuore
dei credenti alla conoscenza, e con timore ha esclamato: o mio Signore e mio
Dio, gloria a te!
Se Tommaso
brilla per la sua sfrontatezza (definita più avanti “audacia”), non è che gli
altri discepoli fossero certi nella loro fede, cosa che il famosissimo quadro
del Caravaggio rende benissimo dove, quasi in secondo piano, le facce degli
altri due discepoli esprimono la curiosità, la meraviglia e lo stupore che
seguono un grande dubbio. Ma l’incredulità di Tommaso qui è addirittura
definita felice, perché guida alla conoscenza e alla confessione di fede.
In una
successiva strofa è addirittura Gesù che fornisce a Tommaso la chiave
interpretativa della sua incredulità:
Perché non mi credi risorto dai morti?
Stendi la tua mano, mettila nel mio costato e guarda: per la tua incredulità
infatti tutti hanno conosciuto la mia passione e la mia risurrezione, per
gridare insieme a te: o mio Signore e mio Dio, gloria a te!
Ecco perché la
Chiesa ci vuole proporre oggi la figura di Tommaso. Se da un lato hanno
sicuramente spazio tutte le considerazioni derivate dal percorso dell’apostolo
dal dubbio alla fede (e questo è sicuramente significativo ai nostri giorni),
dall’altro l’elemento decisivo è la certezza che la passione e la risurrezione
riguardano proprio quel Gesù di Nazareth che si rivela essere compiutamente
Cristo e Signore, Messia e Figlio di Dio.
Bellissimo è
allora il crescendo della strofa che si canta dopo il Gloria e che conclude il
Lucernario:
A porte chiuse ti sei presentato, o Cristo,
ai tuoi discepoli. Allora Tommaso, servendo alla tua economia, non si trovava
con loro, perciò diceva: Non crederò se non vedo anch’io il Sovrano: che io
veda il fianco da cui uscirono sangue ed acqua, il Battesimo, che io veda la
piaga dalla quale è stata risanata la grande ferita dell’uomo; che io veda che
egli non è uno spirito, ma ha carne e ossa. O tu che hai calpestato la morte, e
a Tommaso hai infuso piena certezza, o Signore, gloria a te!
Tommaso, come
noi tutti, serve alla divina economia, considerata in chiave
salvifico-sacramentale.
Una strofa che
si canta durante la processione rogazionale elabora una più ampia professione
di fede cristologica:
Signore, manifestando lo splendore della tua
divinità, sei apparso con tutte le porte chiuse in mezzo ai tuoi discepoli
scoprendo il tuo costato, mostrando loro le ferite delle tue mani e dei tuoi
piedi, liberandoli dal timore che li opprimeva dicendo chiaramente: “Guardate,
ho assunto la carne, amici, non sono uno spirito” ma al discepolo esitante hai
domandato di toccare le tue piaghe dicendogli: “Esplora le mie ferite e non
dubitare più”. E il discepolo, avendo verificato con la sua mano la tua
divinità e la tua umanità, pieno di timore in un atto di fede esclamò: o mio
Signore e mio Dio, gloria a te!
Non affermare
pienamente l’umanità e la divinità in Cristo significa mettere in questione la
realtà e l’integralità della salvezza da lui operata. I Padri dicevano: “ciò
che non è assunto non è sanato”, e qui Gesù stesso ci garantisce che tutto
l’uomo è guarito e salvato in lui crocifisso, morto e risorto.
Le strofe
cantate agli Aposticha non indicano nessun autore particolare, ma espongono il
paradosso dell’umanità che a contatto con la divinità non viene assorbita o,
peggio, annullata. È commovente pensare che tali professioni di fede siano
cantate e offerte ai fedeli in modo da plasmare, giorno dopo giorno, la loro
consapevolezza di cristiani, quasi una catechesi dogmatica permanente.
O straordinario prodigio! L’incredulità ha
generato ferma fede. Tommaso infatti che aveva detto: Se non vedo non credo;
dopo aver palpato il costato, proclamava la divinità di colui che si era
incarnato, il Figlio stesso di Dio. Ha fatto conoscere colui che nella carne ha
patito: ha annunciato il Dio che è risorto, e a chiara voce ha gridato: o mio
Signore e mio Dio, gloria a te! O straordinario prodigio! Il fieno ha toccato il
fuoco ed è rimasto indenne. Tommaso ha infatti messo la mano nel costato igneo
di Gesù Cristo Dio, e non è stato bruciato da questo contatto; con ardore ha
infatti mutato in bella fede l’incertezza dell’anima, e dal profondo dell’anima
ha gridato: Tu sei il mio Sovrano e Dio, risorto dai morti. Gloria a te.
Come può
l’uomo fatto di polvere e fango relazionarsi al Dio trascendente e
inaccessibile? Gesù, il Figlio unigenito di Dio, si rivela a colui che lo
riconosce vero uomo e vero Dio, che nel riconoscere il Dio che ha patito per
noi nell’ipostasi del Verbo, annuncia a gran voce lo stesso Dio che ha
risuscitato Gesù, come dice il primo kerygma apostolico pronunciato da Pietro
in At 2. Il Corpo di Gesù, ben oltre qualsiasi pietismo, è la scaturigine di ogni
conoscenza:
O straordinario prodigio! Giovanni ha
riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato; e
l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è
stato reso degno di iniziarci all’economia, perché chiaramente ci presentava le
prove della sua risurrezione, esclamando: o mio Signore e mio Dio, gloria a te!
Teologia ed
economia non possono essere separate, al punto che, secondo i Padri che nel IV
secolo hanno definito i dogmi cristologici, è dall’economia che si può giungere
alla teologia, ovvero è dalla realtà del manifestarsi di Cristo che si può
capire chi egli sia, e fino a qual punto abbia amato l’uomo!
La strofa
conclusiva degli Aposticha, che si canta dopo il Gloria, contempla con rispetto
e riconoscenza l’abbassamento (kènosys) di Dio, soffermandosi proprio su quegli
aspetti della vita di Gesù che più lasciano sconcertati se solo si prova a
guardarli dal lato divino:
O amico degli uomini, grande e incomparabile
è la moltitudine delle tue compassioni! Tu hai tollerato di essere
schiaffeggiato dai giudei, di essere palpato da un apostolo e di essere
sottoposto a indagini dagli increduli. Come ti sei incarnato? Come sei stato
crocifisso, o senza peccato? insegnaci dunque a gridare a te come Tommaso: o
mio Signore e mio Dio, gloria a te!
Il Canone che
si canta al Mattutino è opera di Giovanni Damasceno: non essendo preceduto dal
canone risurrezionale, ha una struttura comune a tutte le lodi nella quale il
primo tropario (irmos) riprende il tema dell’ode scritturistica, uno o due
tropari cantano la risurrezione di Gesù evidenziando la vita nuova che da essa
deriva, mentre i successivi tropari riflettono sull’espisodio di Tommaso.
L’ultimo tropario di ogni ode (katavasia) è l’irmos del canone del mattutino di
Pasqua. Per comodità di lettura, raggruppiamo i tropari per tema, tralasciando
comunque irmos e katavasia.
Oggi è la primavera delle anime, perché
Cristo dalla tomba ha brillato come sole il terzo giorno, fugando il cupo
inverno del nostro peccato. Nuovi da vecchi che eravamo, incorruttibili da
corruttibili, tali ci hai reso, o Cristo con la tua croce, e perciò ci hai
giustamente comandato di camminare in novità di vita. Non ti hanno resistito, o
Cristo, né le porte della morte della morte, né i sigilli della tomba, né i
serrami delle porte della casa, ma tu risorto, ti sei presentato ai tuoi amici,
donando, o Sovrano, la tua pace, che trascende ogni intelletto. Rinchiuso in
una tomba quanto alla tua carne circoscrivibile, o incircoscrivibile, sei
risorto o Cristo, e a porte chiuso ti sei presentato ai tuoi discepoli, o
onnipotente. Le piaghe, o Cristo, che volontariamente hai ricevuto per noi, le
hai serbate per i tuoi discepoli, per mostrarle a testimonianza della tua
gloriosa risurrezione. È il primo e signore dei giorni questo giorno fulgido,
nel quale è ben degno che il popolo nuovo e divino esulti: con tremore, perché
esso è anche tipo dell’eternità, portando a compimento, come giorno ottavo, il
secolo futuro.
La settimana
che segue la Pasqua è chiamata del Rinnovamento: i battezzati la notte di
Pasqua portavano per tutta la settimana la veste bianca che avevano ricevuto,
ed è quindi normale associare il tema della rinascita primaverile alla vita
nuova portata da Cristo risorto, mentre il cupo inverno viene messo in
relazione al vecchio uomo schiavo del peccato. “Noi che siamo stati battezzati
in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo”, abbiamo cantato nella liturgia di
Pasqua riprendendo il testo paolino, e ci siamo rivestiti di incorruttibilità a
immagine di Cristo morto e risorto: questa è la fonte di una nuova moralità,
del cammino in novità di vita, in cui la Legge lascia il posto all’Amore, al
dono di sé. Non poteva mancare, da parte del Damasceno, una riflessione
sull’ottavo giorno. Riprendendo la prima pagina della Bibbia (Gn 1, 5), dove al
termine del primo giorno della creazione, l’autore sacerdotale pone il giorno
uno non come il primo di una serie, ma un inizio assoluto, che include tutto
ciò che si svolgerà in seguito, la domenica di Pasqua è il giorno uno anche per
gli evangelisti (Mt 28, 1). Possiamo affermare che parlare di giorno uno per il
primo giorno della risurrezione è parlare della nuova creazione inaugurata
dalla risurrezione che tende verso il compimento definitivo. Questo giorno è
quindi contemporaneamente uno e ottavo: esso segue il settimo giorno che
termina la prima creazione, il sabato, il giorno del riposo di Dio, e diviene
così immagine anche del secolo futuro che, essendo fuori dai giorni in cui è
racchiusa la creazione, oltrepassa il tempo. Ogni domenica, come giorno uno e
ottavo, è anche sacramento dell’eternità.
Passando ora
al tema di Tommaso, commenteremo in modo particolare le caratteristiche della
fede così come emergono dagli inni.
Tu ti rallegri quando sei oggetto di
indagine: perciò, o amico degli uomini, a questo esorti Tommaso, mettendo il
tuo costato davanti all’incredulo, per dare al mondo la certezza, o Cristo,
della tua risurrezione il terzo giorno. Attingendo ricchezza dall’inviolabile
tesoro, o benefattore, del tuo divino costato trafitto dalla lancia, Didimo ha
riempito il mondo di sapienza e conoscenza. Si celebra, Didimo, la tua bocca
beatissima, perché per prima piamente proclama Dio e Signore il datore di vita
Gesù, colmata di grazia per averlo toccato. O l’impresa tremenda e davvero
degna di lode di Tommaso! Sì, ha audacemente tastato quel costato sfolgorante
di fuoco divino. Ha reso l’incredulità di Tommaso generatrice per noi di fede.
Tu non hai lasciato che Tommaso, o Sovrano, restasse immerso nell’abisso
dell’incredulità, quando tese le mani per investigare. Tommaso, detto Didimo,
che con il suo ardire ha beneficato la nostra incredula fede, dissipa con la
sua incredulità credente il buio dell’ignoranza fino agli estremi confini della
terra. Non è stato vano il dubbio di Tommaso: egli infatti non ha deposto
contro la tua risurrezione, ma con totale convinzione si è affrettato a
dimostrarla, o Cristo, a tutte le genti, dando certezza a tutti con la sua
incredulità. Ponendo con timore e tremore la mano nel tuo costato vivificante,
o Cristo, Tommaso percepì, o Salvatore, la duplice energia delle due nature in
te unite senza confusione. La tua indiscreta indagine, o Tommaso, ci ha aperto
il tesoro nascosto. Te che da una mano di argilla hai lasciato tastare il tuo
costato, senza bruciarla col fuoco della tua divina essenza immateriale. Te, o
Cristo, che come Dio sei risorto dalla tomba, senza vederti con gli occhi, ma
avendo creduto con l’amore del cuore, te magnifichiamo con inni.
Gesù, pur riservando
una beatitudine particolare per coloro che credono fidandosi dei testimoni,
accetta di concedere una prova al discepolo esitante, un “segno”, per usare un
termine caro a Giovanni. Anche la Chiesa proclama l’annunzio pasquale: “Abbiamo
visto il Signore!” ma come il Signore attende pazientemente che il mistero
della libertà umana possa raggiungere e professare il suo atto di fede. Tommaso
chiede un segno proprio perché l’adesione di fede non è un atto cieco, folle,
passionale, assolutamente irrazionale. Ma la fede è l’invito a una esperienza
diretta, a toccare con mano la continuità della presenza di Gesù nel mondo.
Presentandosi dopo la sua morte, Gesù offre anche a tutti un segno e una
certezza. Mons. Gianfranco Ravasi, il noto biblista, commentando questa pagina
dice: “Questo equilibrio, certamente difficile, tra segno e adesione, se da un
lato ci invita a liberarci da una religiosità che vuole moltiplicare a ogni
passo miracoli e apparizioni per stimolare e quasi “drogare” la fede,
dall’altro ci esorta a non concepire la fede come un affondare nell’oscurità
del mistero. Il mistero cristiano non è un gorgo di tenebra e di assurdità, ma
un infinito orizzonte di luce”. La fede è quindi l’incontro dell’uomo con il
Signore vivente, vivente perché è Risorto. Questo incontro diventa l’inizio di
una nuova relazione della persona umana con Cristo, perché Egli è riconosciuto
come il proprio Signore e Dio. Da questo incontro l’esistenza di Tommaso, come
quella di ciascuno di noi dopo di lui, esce rigenerata e riplasmata. Il dubbio
di Tommaso non depone contro la risurrezione, ma la certifica, al punto tale
che, come punto di estrema sintesi dei dogmi su Cristo, Giovanni Damasceno si
preoccupa di riprendere gli insegnamenti di Massimo il Confessore, vissuto un
secolo prima di lui, riaffermando la duplicità delle nature, delle volontà e
delle energie di Cristo. Questa preoccupazione è evidente dal gran numero di
immagini che illuminano il mistero della divinoumanità di Gesù.
Il primo
esapostilario, cantato al termine del Canone, lega il segno concesso a Tommaso
con la missione alle genti:
Poiché hai ispezionato con la tua mano le
piaghe delle mie membra, o Tommaso, non essere più incredulo verso di me che ho
subito questi colpi per te. Sii di uno stesso sentire con i discepoli, e
annuncia che Dio è vivente.
Il secondo
esapostilario riunisce in sé i temi del rinnovamento e di Tommaso:
Oggi esala profumo la primavera, e la nuova
creazione danza. Oggi sono tolti i serrami delle porte e dell’incredulità,
quando l’amico Tommaso esclama: mio Signore e mio Dio.
Padre Lev
Gillet, che firmava le sue opere con lo pseudonimo “monaco della chiesa
d’oriente”, commentando l’episodio di Tommaso diceva: “Il vangelo ci mette in
guardia contro ogni presentazione del messaggio cristiano che eliminasse la
croce e la crocifissione. Ci sono alcuni che addolciscono e umanizzano il
Cristo fino a farne un soave e amabile maestro di morale, così come altri
gnostici o psudo-mistici che si riempiono di idee di incarnazione, di
trasfigurazione, di deificazione e che, nella loro concezione della salvezza,
non hanno più posto per la croce. Noi sappiamo che un Cristo che non porti il
segno dei chiodi non è autentico. È solo al Crocifisso che riserviamo la nostra
adorazione. L’episodio di Tommaso ci suggerisce ancora un altro pensiero.
Possiamo oggi toccare con le nostre mani la carne martoriata del Salvatore?
Certo, questa possibilità è data ad ogni uomo perché Gesù viene in una maniera
invisibile e reale nelle creature che ci circondano. Non ci è dato di vedere
costantemente il Santo Volto, ma il volto di Cristo mi appare nel volto del mio
fratello e, attraverso la com-passione io raggiungo la Passione. Toccherò il
mio fratello e dirò: "Mio Signore e mio Dio!"”.
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