Terza Domenica di Pasqua: le donne
mirofore
di Roberto Pagani
La terza
domenica di Pasqua nella tradizione bizantina ritorna a meditare sul mattino di
Pasqua, e lo fa da una angolatura particolarissima: come ci ricorda il
sinassario oggi si celebra la memoria di Giuseppe di Arimatea, di Nicodemo e,
soprattutto, delle donne mirofore. La domenica presenta due pericopi
evangeliche, la prima delle quali viene letta al Mattutino ed è il racconto
lucano (Lc 24, 1-12):
Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino,
le donne si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano
preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non
trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due
uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne
impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: “Perché cercate
tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi
parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo
fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il
terzo giorno”. Ed esse si ricordarono delle sue parole. E, tornate dal
sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano
Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme
lo raccontarono agli apostoli. Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento
e non credettero ad esse. Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide
solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto.
Alla Divina
Liturgia viene invece letto il brano nella versione di Marco (Mc 15,43 - 16,8):
In quel tempo, Giuseppe d’Arimatèa, membro
autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio, andò
coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò
che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da
tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora,
comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo
depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro
l’entrata del sepolcro. Intanto Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano
ad osservare dove veniva deposto. Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria di
Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù. Di
buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del
sole. Esse dicevano tra loro: “Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del
sepolcro?”. Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via,
benché fosse molto grande. Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto
sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: “Non
abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui.
Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a
Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”. Ed
esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di
spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura.
Il termine
“mirofora” significa “portatrice di mirra”, e con esso ci si riferisce alle
donne delle quali i Vangeli testimoniano la presenza sul Golgota e alle quali
viene rivolto il primo annuncio della risurrezione. Esse sono testimoni di un
avvenimento attestato dai quattro evangelisti: l’apparizione di angeli (due
secondo Luca e Giovanni; uno secondo Matteo e Marco). Altri hanno già
sottolineato la curiosità del fatto che siano state delle donne le prescelte
come prime testimoni della risurrezione di Gesù: è noto infatti che, nella
società del tempo, da un punto di vista giuridico le donne erano talmente
considerate che una loro testimonianza in un tribunale non era ritenuta valida!
Risulta quindi più che interessante voler approfondire le motivazioni che hanno
portato la tradizione bizantina a dedicare una domenica del tempo pasquale
proprio a queste donne. Una chiave di lettura può essere fornita dal fatto che
il brano degli Atti che viene letto durante la Divina Liturgia (At 6, 1-7)
narra l’istituzione dei sette diaconi, così che le mirofore diventano in
qualche modo precorritrici di questo servizio (significato del termine greco diakonia), avendo curato e servito Gesù
nella sua esistenza terrena. Il diaconato, inteso come servizio ordinato, non
ha mai conosciuto soluzione di continuità in oriente, al punto che la liturgia
bizantina assegna al diacono un ruolo decisamente più significativo che non la
liturgia latina. È inoltre degno di nota il fatto che il più antico eucologio
bizantino, il famoso codice Barberini gr. 336 dell’VIII secolo proveniente
dall’Italia meridionale, riporta ancora la preghiera per l’ordinazione di una
diaconessa, ministero, questo sì, caduto oggi in disuso anche nella tradizione
orientale. La lettura evangelica di Marco ci mostra l’esercizio della diakonia operato sul corpo di Gesù
crocifisso. Così anche Giuseppe di Arimatea si assume i suoi rischi per
prendersi cura del corpo di Gesù: visto che la pratica romana era di lasciare i
corpi dei crocifissi decomporsi sulla croce, Giuseppe decide di rompere gli
indugi e di presentarsi davanti a Pilato per chiedere il favore di poter
recuperare il corpo senza vita di Gesù e potergli prestare una decorosa
sepoltura. Attendere il regno non è per nulla un atteggiamento di inattività.
Giovanni è l’unico a dirci (Gv 19, 39) che insieme a Giuseppe c’era Nicodemo,
quello stesso che, essendosi recato di notte a parlare con Gesù, si era sentito
dire che avrebbe dovuto rinascere: ora si aggiunge a Giuseppe di Arimatea
portando con sé aloe e mirra in gran quantità. Anche le mirofore, tre gioni
dopo, avevano con sé i consueti aromi per completare le onoranze funebri che il
sopravvenire della Pasqua giudaica non aveva consentito di fare in tempo utile.
Al Lucernario
dei Vesperi del sabato sera, dopo le prime sette strofe del secondo tono che
celebrano la risurrezione, si cantano le strofe proprie delle mirofore.
La prima
strofa è attribuita ad Anatolio, ma attraverso gli studi di Wilhelm Christ
possiamo con fondatezza affermare che più che a un ipotetico innografo, il
termine ha una origine gerosolimitana e si riferisce alla zona di provenienza;
essa dice: Prendendo con sé gli aromi le
mirofore giunsero ai primi albori alla tomba del Signore. Ma trovano ciò che
non sospettavano, parlavano tra loro timorose della pietra che era stata
rimossa: e dove sono i sigilli del sepolcro? Dove, le guardie di Pilato che
dovevano custodirlo rigorosamente? Si fece iniziatore delle donne ignare un
angelo sfolgorante che disse loro: perché cercate con lamenti il vivente, colui
che dà la vita al genere umano? È risorto dai morti il Cristo Dio nostro,
perché è onnipotente, e dona a tutti noi vita, incorruttibilità, illuminazione
e la grande misericordia. Se i vangeli apocrifi si soffermano a descrivere
il momento della risurrezione, qui essa emerge in maniera solo indiretta. Ci
sono alcuni indizi (pietra, guardie, sigilli), più in generale si potrebbe dire
che qualcosa non torna, è fuori posto, e l’intelligenza umana delle donne, al
di là di sin troppo facili ironie, non riesce a cogliere la spiegazione di
queste domande che emergono. Anche qui c’è bisogno di un dato rivelato: un
giovane dall’aspetto sfolgorante, angelo in quanto veicolo di una comunicazione
diretta di Dio all’uomo, ha il compito di annunciare il nucleo essenziale della
nostra fede, ovvero la risurrezione dai morti per l’onnipotenza di Dio di
quello stesso Gesù che era stato crocifisso, era morto, ed era stato sepolto
proprio in quel luogo. Cosa significa “è risorto”? Non il ritorno alla vita
precedente, che comunque, come sono state le risurrezioni di Lazzaro e del
figlio della vedova di Nain, sarebbe inesorabilmente terminata prima o poi
nella morte definitiva. Significa che il corpo morto di Gesù di Nazaret, nella
sua unicità personale e storicità, viene vivificato da una vita che, pur non
perdendo le caratteristiche proprie della vita umana, non potrà più essere
distrutta dalla morte: l’umanità di Gesù, il suo corpo, condivide
l’incorruttibilità della vita divina.
La seconda
strofa è attribuita ad un certo Kùmulas: insieme ai più dotti specialisti in
materia, dobbiamo confessare di non sapere pressoché nulla di questo innografo,
se non che è direttamente citato come autore di alcune strofe (idiomela, cioè
testo originale ma musica derivata da un altro inno) della domenica delle
mirofore e di un inno molto bello cantato sempre nel tempo pasquale la domenica
del paralitico e che commenteremo a suo tempo. Ecco il testo: Perché, o discepole, mescolate gli unguenti
alle lacrime? La pietra è stata rotolata via, la tomba è vuota. Guardate la
corruzione calpestata dalla vita, i sigilli che danno chiara testimonianza, le
guardie degli increduli pesantemente addormentate. Ciò che è mortale è stato
salvato dalla carne di Dio: l’ade geme, e voi correte con gioia a dire agli
apostoli: il Cristo che ha ucciso la morte, il primogenito dai morti, vi
precede in Galilea. È l’angelo che parla, e di fronte alla tristezza, allo
sconcerto e al dubbio, con la certezza della fede gli indizi di prima diventano
le prove della risurrezione. Non è una visione consolatoria, o fine a se
stessa, perché subito si è investiti di un compito: la buona novella deve
essere annunciata, prima di tutto agli apostoli. La terza strofa è opera dello
stesso Kùmulas: Di buon mattino le
mirofore raggiunsero sollecite il tuo sepolcro, cercandoti, o Cristo, per
profumare il tuo corpo immacolato; ma ammaestrate dalle parole di un angelo,
annunciavano agli apostoli le prove della gioia: è risorto l’autore della
nostra salvezza, spogliando la morte e donando al mondo l’eterna vita e la
grande misericordia. La strofa che si canta dopo il Gloria è opera di san
Cosma l’Innografo, vescovo di Maiuma, antica città vicino all’odierna Gaza, che
morì nel 760 e che viene considerato uno dei più grandi poeti liturgici greci: Le mirofore, raggiunte la tua tomba, vedendo
i sigilli sul sepolcro ma non trovando il tuo corpo purissimo, gementi vennero
in fretta dicendo: chi ha rubato la nostra speranza? Chi ha preso un morto
nudo, cosparso di mirra, unico conforto della Madre? Oh, ma come è stato messo
a morte colui che dona la vita ai morti? E come è stato sepolto colui che
spoglia a morte l’ade? Risorgi dunque, o Salvatore, per il tuo proprio potere,
al terzo giorno come hai detto, per salvare le nostre anime. Attraverso un
procedimento retorico, viene ipotizzata una illogicità che, riprendendo le
reazioni emotive delle mirofore alla vista del sepolcro vuoto, tende ad
indirizzare la loro ricerca. Il verbo trovare ha un significato particolare,
visto che Luca lo utilizza per ben due volte consecutive all’inizio del brano e
che anche nelle strofe ha la sua rilevanza: il corpo di Cristo risorto non può
essere “trovato”, occorre fidarsi dei segni e, ancor di più, delle persone che
ce lo testimoniano.
Tra le strofe
che si cantano durante la processione rogazionale è significativa quella che
segue il Gloria: Giuseppe reclamò il tuo
corpo immacolato e lo depose in un sepolcro nuovo: tu dovevi uscire dalla tomba
come da una camera nuziale, o Cristo che hai infranto l’impero della morte per
aprire agli uomini le porte del paradiso. Fa la sua comparsa Giuseppe di
Arimatea, che con il gesto compiuto il venerdì santo si è guadagnato un posto
particolare nella tradizione bizantina. Qui è interessante l’associazione di
immagini tra il sepolcro e il talamo nuziale, così come quella tra le porte
degli inferi che vengono calpestate da Gesù e le porte del paradiso che si
riaprono per accogliere i morti che Gesù ha strappato all’ade.
Le strofe che
vengono cantate agli Aposticha, così come i tropari di congedo, non sono
originali della domenica delle mirofore: la strofa al Gloria è stata cantata
solennemente durante il Vespero del Venerdì Santo nel momento in cui, nelle
chiese di tradizione greca, si depone il corpo di Gesù dalla croce e lo si
avvolge in una sindone, deponendolo sul sepolcro dove sarà venerato dai fedeli
fino al mattutino di Pasqua; i tropari sono stati cantati una prima volta alla
conclusione del Vespero del Venerdì Santo e successivamente nel Mattutino del
Sabato Santo, mentre il resto delle strofe cantate agli Aposticha è costituito
dai famosissimi stichirà pasquali che sono tradizionalmente attribuiti a san
Giovanni Damasceno.
Nelle strofe che,
nel Mattutino, seguono la salmodia occorrente, rileviamo alcune immagini
interessanti: Tu non hai impedito che
fosse sigillata la pietra del sepolcro, e così risorgendo hai offerto a tutti
la roccia della fede. Portando gli aromi per la tua sepoltura al mattino le
donne giunsero furtive al sepolcro, temendo la prepotenza dei giudei, e
prevedendo la vigilanza dei soldati. Ma la loro debole natura vinse quella
forte, perché il loro animo compassionevole era stato gradito a Dio. La
pietra del sepolcro, che sembrava rinchiudere la vita annichilendo ogni
speranza, diviene con la Risurrezione la roccia della fede, al punto tale che
la debole natura delle donne, preoccupate da prepotenza e arroganza, sovrasta
gli interlocutori, guardie, giudei o apostoli che siano.
Il Canone
delle Mirofore è un poema di Andrea di Creta. Dalle brevi note biografiche
disponibili, sappiamo che sant’Andrea nacque a Damasco nel 660 circa. All’età
di quindici anni, raggiunta Gerusalemme, decise di entrare nel monastero di San
Saba e del Santo Sepolcro. Teodoro, patriarca di Gerusalemme, nel 685 lo inviò
quale suo delegato al VI concilio ecumenico (Costantinopolitano III) per
appoggiare la condanna del monotelismo. Durante tale soggiorno Andrea ricevette
l’ordinazione diaconale e gli fu affidata la gestione di un orfanotrofio e di
un ospizio per anziani. Nell’anno 700 circa, fu eletto vescovo di Gortina, sede
metropolitana dell’isola di Creta. Andrea è famoso per i sermoni (ne sono
giunti a noi una cinquantina, tra cui alcuni che hanno sviluppato la devozione
mariana anche in occidente), ma soprattutto per i Canoni da lui composti, tra i
quali spicca il grande canone penitenziale che si canta nel corso della
quaresima e che è formato da più di duecentocinquanta strofe. Il canone delle mirofore
ha una ottantina di strofe e possiamo raggrupparle, per comodità di lettura e
per tentare una sintesi, in base a tre temi principali. Il primo di questi temi
è incentrato sulla passione, morte, sepoltura e risurrezione di Gesù. Dalla
prima ode: Sei stato crocifisso nella
carne, tu che sei impassibile nella natura del Padre. Onoro la tua croce,
glorifico la tua sepoltura, canto e venero la tua risurrezione. Hai assaggiato
il fiele, o dolcezza della Chiesa, eppure hai fatto sgorgare per noi l’incorruttibiltà
del tuo costato. Sei stato computato tra i morti, o Salvatore, e hai
risuscitato i morti: hai appena gustato la corruzione, ma in nessun modo hai
conosciuto dissoluzione. Sin dalla prima frase emerge una cifra teologica
che denota, attraverso la precisione del linguaggio, l’evoluzione del dibattito
cristologico: anche all’interno di un inno liturgico, si sente la necessità di
ribadire la profonda unità dell’ipostasi del Verbo, che pur essendo Dio, patì
nella carne in Gesù Cristo, Figlio di Dio. Croce, sepoltura e risurrezione non
sono separabili: averlo fatto, nel corso della storia, ha portato in diversi
momenti a privilegiare gli aspetti forse più umani, che privati però della
risurrezione rischiano di ridurre il Cristo ad un esempio morale da seguire.
Interessante è poi l’utilizzo del verbo computare (eloghìste): è un verbo puntuale, che nell’Antico Testamento ha una
significativa occorrenza nel Levitico, dove è usato dai sacerdoti per
dichiarare che un sacrificio era valido. In questo contesto il suo utilizzo
tende ad evidenziare la morte reale e non apparente di Gesù. Ma c’è forse una
valenza ancora più significativa, sebbene indiretta, perché l’utilizzo più
famoso del verbo computare è in Gn 15, 6 quando Abramo, riceve da Dio la
promessa dell’Alleanza, “Abramo credette e gli fu computato a giustizia”. Nel
testo ebraico compare il verbo “aman” da cui deriva amen, e una tradizione
rabbinica traduce “e Abramo pronunciò il suo amen”. Allora il significato di
questo amen, che è associato al computo, è far stare saldo, trovare saldezza.
Aman è poggiarsi su qualcosa di saldo e di sicuro. Credere non è astrattezza:
Abramo si fida e fonda la sua vita sulla roccia della Parola di Dio. Anche noi
fondiamo la nostra fede sulla parola dell’annuncio dei testimoni.
Nella terza
ode emergono alcuni temi con riferimenti nuovi: Inchiodate le mani alla croce, o Gesù, sottraendo tutte le genti
dall’errore, le hai chiamate a conoscere te. L’agnella stando presso la tua
croce, o Gesù, gridava piangendo: dove vai o Figlio, dove te ne vai, o agnello
immolato per tutti? Sei risorto, o Gesù, il nemico è stato spogliato, Adamo ed
Eva con lui sono stati liberati dai vincoli della corruzione, grazie alla tua
risurrezione. Se Gesù è stato identificato con l’agnello da Giovanni Battista,
l’accostamento a Maria del corrispondente agnella lo si trova con certezza
nell’omelia pasquale di Melitone di Sardi, vescovo e martire alla fine del
secondo secolo. La croce è l’apice dell’autorivelazione del Dio Amore, e nelle
sue braccia allargate possiamo sperimentare un nuovo modo di conoscere. Se il
peccato aveva fatto percepire la nudità ad Adamo ed Eva, nella Risurrezione è
il nemico ad essere spogliato, mentre l’uomo è liberato dalla tunica di pelle,
la sua veste corruttibile, e all’uomo nuovo viene donata la veste
dell’incorruttibilità.
Nella quarta
ode il tema della lotta tra Cristo e la morte viene ulteriormente approfondito.
Con la croce hai imprigionato il ventre
dell’ade, hai fatto risorgere i morti e hai abolito la tirannide della morte:
perciò noi, nati da Adamo, celebriamo adoranti la tua sepoltura e la tua
risurrezione, o Cristo. O Salvatore nostro, che nel tuo beneplacito per le tue
viscere di misericordia, sei stato confitto in croce e ci hai riscattati dalla
maledizione paterna, sciogli i vincoli delle mie molte colpe. O Salvatore,
l’ade incontrandoti nelle profondità è stato amareggiato, vedendo che quanti un
tempo aveva inghiottito prevalendo, ora è stato costretto a renderli e che le
regioni sotterranee venivano perquisite, spogliate e depredate dei morti.
Il ventre insaziabile dell’ade, che divorava con lo scorrere inesorabile del
tempo ogni uomo che moriva, viene imprigionato dalla croce in una sorta di
dieta permanente; e al ventre insaziabile del regno dei morti vengono contrapposte
le materne viscere di misericordia che, riscattandoci dalle nostre innumerevoli
colpe, ci riaprono le porte del regno di Dio. Gli inferi sono definitivamente
sconfitti e costretti a restituire le loro prede, custodite da secoli, come in
un’amnistia generale: le carceri vengono attentamente ispezionate affinché
nessuno possa essere dimenticato, affinché nessuna preziosa dracma possa essere
inavvertitamente lasciata giacere coperta dalla polvere del peccato.
Nella quinta
ode ritorna il tema della veste, cui si aggiunge quello del buon samaritano,
rileggendo in chiave pasquale elementi che avevano contraddistinto il cammino
quaresimale. O mio Salvatore, vestendoti
di me, tu mi hai spogliato della veste antica che mi aveva tessuta il
seminatore del peccato. Foglie di fico mi aveva cucito il peccato, perché,
consigliato dal serpente, non avevo custodito il tuo immacolato comandamento, o
Salvatore. Il Cristo che viene da Maria è giunto, ha versato olio sulla mia
anima ferita dai pensieri ladroni, e l’ha risanata. La creatura nuova,
rinata con il Cristo risorto, si è rivestita di lui con il battesimo, come ci
dice san Paolo. Le foglie di fico, che avevano costituito la tunica cucita
dall’uomo per coprire le nudità del peccato, ora vengono definitivamente abbandonate.
Il peccato resta, ma il Cristo (l’Unto) che viene da Maria versa sulla nostra
anima ferita e derubata dai ladroni l’olio della sua misericordia; non dobbiamo
inoltre dimenticare l’estrema somiglianza tra olio (èleon) e misericordia (èleos),
somiglianza che i Padri greci, e di conseguenza gli innografi, hanno molto
utilizzato.
La sesta ode,
pur non aggiungendo temi nuovi, rappresenta in modo ancora più evidente la
lotta tra Gesù e l’ade, il regno dei morti: L’ade
è morto: coraggio, figli della terra! Il Cristo appeso al legno ha rivolto
contro di lui la spada ed egli giace morto: è stato spogliato e depredato di
quanti deteneva. L’ade è stato spogliato, coraggio, o morti! I sepolcri sono
stati aperti, sorgete! Così grida a voi il Cristo dall’ade, lui che è venuto
per redimere tutti dalla morte e dalla corruzione. I morti che un tempo,
prevalendo, avevi inghiottito, o ade, ora te li richiedo, ridammeli! Così a te
grida il datore di vita e Dio che è venuto per liberare tutti dal tuo ventre
insaziabile. Il Signore è risorto, spogliando il nemico, e ha ricondotto tutti
i prigionieri che gli ha sottratto, e anche il primo creato, Adamo, che ha
risuscitato, perché è Dio compassionevole e amico degli uomini. Cristo,
disceso agli inferi, chiama i morti a gran voce per risvegliarli dal sonno che
fino ad allora era sembrato senza speranza. Il Redentore che, nostro parente
più prossimo secondo quanto previsto dalla legge ebraica, ci riscatta da colui
che ci imprigionava, reclama la sua proprietà a partire dal primo Adamo.
Come in un ben
studiato crescendo, nella settima ode affiora il tema del rinnovamento
dell’immagine con cui l’uomo era stato plasmato nel racconto creazionale di Gn
2: Tu che come amico degli uomini vuoi
salvare dall’errore tutti coloro che hai plasmato, hai sopportato di essere
inchiodato alla croce, per rinnovare, mediante la tua carne, o Salvatore, la
tua immagine ricoperta dalle passioni, e, distrutto l’ade, hai fatto risorgere
con te i defunti. È stato un tuo beneplacito patire tutto ciò per i nostri
peccati: perciò anche al ladrone hai aperto le porte del paradiso, o Salvatore.
Tu hai fatto risorgere dalla tomba il terzo giorno il tempio distrutto del tuo
corpo, come avevi promesso. Cosa avete visto di incredibile per non credere al
Cristo? Non ha fatto forse alzare gli infermi con la sua parola? Non ha forse
salvato tutti? Vi convincano almeno i soldati e i risorti dai morti. Se non lo
hanno visto risorgere, se non se ne sono accorti, allora come hanno potuto
capire che era stato rubato? Vi convincano almeno questa pietra e le bende
funerarie del Cristo. La tomba è realmente sigillata: come dunque è risorto se
non perché è Dio? Vi convincano coloro che sono risorti e si sono fatti vedere
da molti. Il corpo del Risorto, tempio ricostruito in tre giorni, ricrea
l’uomo e lo rende degno di varcare di nuovo le porte del paradiso, come è
successo al buon ladrone, che nella tradizione bizantina è più profondamente
chiamato il ladro teologo. Se la teologia è primariamente il riconoscimento
della presenza di Cristo che opera in modo nuovo ed efficace nella storia
(teologo è colui che sa pregare, dicono i Padri), allora i segni operati da
Gesù durante la sua vita terrena ora si rivelano in tutta la loro portata, e
riacquistano luce definitiva attraverso lo splendore della Risurrezione. Tutto
ci porta a riconoscere la realtà della risurrezione dai morti di Gesù, Cristo e
Signore.
L’ottava ode
non fa altro che proseguire e svolgere il tema della realtà che ci manifesta la
presenza di Cristo risorto: perfino la pietra, i sigilli, le bende e le fasce
sepolcrali, le stesse guardie attonite sono il segno di una nuova vita. Chi ha rotolato con le sue mani la pietra
dal sepolcro? Chi ha fatto seccare il fico? Chi ha risanato la mano inaridita?
Chi ha saziato un giorno la folla nel deserto? Chi se non il Cristo che fa
risorgere i morti? Chi ha dato la luce ai ciechi, purificato i lebbrosi,
drizzato gli storpi e camminato a piedi asciutti sul mare come su terra ferma?
Non forse il Cristo Dio che risuscita i morti? Chi ha risuscitato dalla tomba
un morto di quattro giorni, e il figlio della vedova? Chi, come Dio, ha
drizzato il paralitico costretto a letto? Grida la pietra stessa, gridano i
sigilli che avete messo, aggiungendo guardie per sorvegliare il sepolcro: Cristo
è veramente risorto e vive nei secoli.
La nona ode,
attraverso una serie di immagini contrapposte, ci aiuta ad approfondire
l’abisso tra quello che diamo a Cristo (non possiamo non identificarci con i
Giudei a cui queste strofe sono rivolte) e quello che da Cristo riceviamo: Il ladrone che sulla croce ti riconobbe Dio,
tu lo hai fatto erede del paradiso spirituale. Per noi sei stato fatto oggetto
di sputi e schiaffi dai trasgressori della Legge, tu che sul Sinai avevi
scritto le tavole della Legge per il tuo servo Mosè. Per noi sei stato
abbeverato di aceto e fiele, tu che ci hai dato il tuo corpo e il tuo sangue
prezioso come cibo e bevanda della tua eterna vita. Sei stato computato tra i
morti, tu che ai morti dai la vita; sei stato deposto in una tomba, tu che
svuoti le tombe.
Ripercorriamo
ora il Canone raggruppando le strofe che ricordano Giuseppe di Arimatea. Egli è
degno di essere ricordato perché avvolse
in bende il tuo Corpo, o Cristo, e depose te, la salvezza, in un sepolcro nuovo;
perché hai accolto Dio tra le braccia,
come fece il vecchio Simeone accogliendo Gesù presentato al tempio, Insieme alle mirofore e agli apostoli,
onoriamo Giuseppe, il nobile consigliere discepolo, zelante per la pietà,
perché ha calato dalla croce il corpo del Signore e con fede lo ha sepolto.
È Giuseppe che, dopo averti avvolto in
una sindone, o Cristo, ti ha deposto in un sepolcro, e dopo aver cosparso di
aromi il tempio distrutto del tuo corpo, ha rotolato una grande pietra
all’ingresso della tomba.
Questa stessa
pietra era la preoccupazione più grande delle donne che si avvicinavano al
sepolcro, cercando anch’esse, come Giuseppe, il regno di Dio. Il loro obiettivo
era quello di prestare le ultime e più accurate cure alla salma del Maestro, in
un gesto di pietà e venerazione. Ma si sentono dire dall’angelo: O donne, mirofore, perché ormai affrettarvi?
Perché portate gli unguenti profumati al vivente? È risorto il Cristo, come
aveva detto. Cessino le vostre lacrime e si mutino in gioia. In queste
donne siamo chiamati a riconoscere il limite che è in ciascuno di noi: siamo
sempre preoccupati di cose che, prese in se stesse, sono anche giuste, ma che
alle volte sono molto lontane dai disegni di Dio. In loro è evidente la non
conoscenza di come sarebbe andata a finire, così non dobbiamo stupirci se la
misericordia del Signore sceglie di manifestarsi in modo molto diverso da
quello che noi pensiamo essere il più giusto e razionale. Il non riuscire a
cogliere la novità della manifestazione di Gesù Risorto non ci deve però far
dubitare della risurrezione stessa. Secondo una logica puramente umana, dove la
ragione tenta di sopraffare l’amore, il trovare il sepolcro vuoto perché non
c’è nessun cadavere potrebbe far sembrare inutile il gesto stesso dell’andare
al sepolcro, ma è proprio a partire da un gesto di amorevole compassione, di
pienamente umana affezione, che le mirofore andate al sepolcro possono sentirsi
dire dall’angelo l’annuncio della risurrezione. Le strofe che si cantano al
Lucernario del Vespero della domenica sera fanno risaltare con chiarezza questa
tensione. Dunque tra i morti è la vita?
Sotto terra è tuttora il sole senza sera? Il coro delle mirofore facendo
lamento esclamava: venite, corriamo in fretta al santo sepolcro a vedere. Ma
scorgendovi un angelo risplendente, restarono stupite e smarrite. E questi,
facendo cessare il loro lamento, gridò: è risorto il datore di vita, non
abbiate timore, o pie donne. All’alba il coro delle donne, prima del sole si
diede a cercare il Sole che nella tomba era tramontato. Ma l’angelo radioso si
rivolse a loro: è sorta la luce che illumina quanti dormono nelle tenebre!
Portate l’annuncio ai discepoli, astri dell’aurora, mutate l’abbattimento in
gioia, e cantate in coro, con cuore che non dubita, facendo risuonare
l’annuncio della pasqua gaudiosa, della salvezza del mondo.
Quando le
donne si avvicinano alla tomba, il sole sta per sorgere, ma esse non realizzano
che il Figlio di Dio è risorto, e che non è nemmeno nella tomba. Esse cercano
Gesù, e tentano di fare qualcosa che sembra al di là delle loro possibilità. Ma
non possono non compiere questo gesto
di amore. Forse la Chiesa, nella sua pedagogia liturgica, vuole farci capire
che anche noi dobbiamo cercare Gesù più di ogni altra cosa. Come per le
mirofore, anche nella nostra vita ci sono ostacoli, pietre che sembrano
inamovibili, situazioni nella quali sembra impossibile trovare Gesù,
incontrarlo, essere in comunione con Lui, vivere ciò che Egli ci chiede di
vivere. Ma noi dobbiamo guardare a Chi cerchiamo, non agli ostacoli che
troviamo sulla via di questa ricerca, nella certezza che l’amore che ci spinge
a cercarlo prima o poi riconoscerà la via che ci porta a Cristo. Le mirofore ci
possono dire anche che, a volte, Gesù può non essere dove lo stiamo cercando.
Esse erano ragionevolmente certe che Gesù fosse lì: era morto in croce e lo
avevano deposto in quella tomba. Lo smarrimento che provano di fronte
all’angelo è evidente, ma non rimangono attaccate al loro punto di vista,
accettano di ritornare sui propri passi assumendosi il compito che Dio assegna
loro attraverso l’angelo. È un compito da affrontare nella letizia, il dolore e
il pianto si devono tramutare in gioia, ma l’annuncio evangelico non è privo di
difficoltà: gli stessi discepoli fanno molta fatica a credere. Non dobbiamo
dimenticarci che noi, prima di incontrare il Risorto, andiamo a cercare il
Crocifisso. È vana la nostra speranza di lasciare la croce nel sepolcro vuoto,
perché il corpo del Risorto, come abbiamo visto nella domenica di Tommaso, è
segnato dalle piaghe dei chiodi e della ferita al costato. Anche se dopo la
Pasqua i digiuni e le prostrazioni sono terminate, prove, tentazioni e
sacrifici non conoscono il calendario liturgico. L’ultima cosa che le mirofore
ci dicono, recando l’annuncio dell’angelo, è che Gesù ci aspetta in Galilea,
dove potremo di nuovo incontrarlo. Anche noi, come i discepoli, abbandoniamo
continuamente Gesù e preferiamo poltrire nella sicurezza delle nostre case
invece che farci carico della diakonia
nell’amore che animava le mirofore, uscite di casa nella notte. La Chiesa,
attraverso la voce delle mirofore, ci chiede di metterci di nuovo in cammino,
per far rivivere in noi il ricordo e il fervore del nostro primo incontro con
Gesù. È questo cammino che tiene vivo il desiderio, che consente alla memoria
dell’incontro di non affievolirsi. D’altra parte abbiamo una traccia da seguire
in questo cammino, perché lui “ci precede in Galilea”, e questa traccia sono
proprio le persone che Dio mette quotidianamente sul nostro stesso cammino:
dapprima con gli occhi della fede e dell’amore, e poi anche con gli occhi del
corpo, noi raggiungeremo la certezza incrollabile della sua presenza: “Là voi
lo vedrete….”.
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