domenica 13 gennaio 2013

Il dolore innocente nel pensiero ortodosso di Natalino Valentini


IL DOLORE INNOCENTE NEL PENSIERO ORTODOSSO

di Natalino Valentini

direttore dell’ISR «A. Marvelli» di Rimini

 

 

Abisso e mistero

L’interrogazione radicale intorno al senso del dolore innocente, della sofferenza, della malattia, della morte, è l’incontro con il grande enigma dell’esistenza umana, un faccia a faccia con il mistero indeducibile che quanto più si tenta d’afferrare tanto più sfugge alla presa. Eppure nell’esperienza del patire sembra celarsi la possibilità di un dischiudimento della stessa coscienza umana verso la trascendenza, una percezione metafisica che, mentre pare precludere ogni apertura di senso, lo fa sorgere e lo rende presente[1].

 

Il dolore nella tradizione cristiana ortodossa

La spiritualità russa e il pensiero religioso che da essa ha attinto la sua linfa vitale si sono lasciati attraversare da questo enigma della sofferenza e del male, mostrando l’insufficienza delle soluzioni umane[2]. Allo stesso tempo questo pensiero ha assunto tale enigma all’interno di un’esperienza veritativa, rendendo così possibile la piena autocoscienza dell’umano nella sua finitezza, ma anche una creaturale apertura alla trascendenza intesa innanzitutto come relazionalità donante: «L’intensità con la quale si sente la sofferenza può essere considerata come un indice della profondità dell’uomo. Soffro, quindi sono. Questo è il senso più profondo del cogito di Descartes. La sofferenza è legata all’esistenza stessa della persona e della coscienza personale»[3]. Il disvelamento di questo mistero è intimamente congiunto alla profonda compassione con coloro che soffrono: «Dostoevskij vedeva nella sofferenza la sola causa della nascita della coscienza»[4].

In effetti, come avremo modo di mostrare, la sofferenza è uno dei temi fondamentali di Dostoevskij, e in molte opere egli ne ha offerto un confronto esistenziale impareggiabile, facendone il fulcro delle sue meditazioni più profonde. Vissuta spesso come castigo ed espiazione, la sofferenza, senza nulla perdere del suo tormento, acquista un potere di lavacro e di riscatto; l’unica purificazione di cui l’umanità possa disporre. Di questa autocoscienza la cultura spirituale della slavia ortodossa sembra avere, sin dalle origini, una profonda consapevolezza.

Come narra la celebre Cronaca di Nestor[5], già dal primo periodo della cristianizzazione degli slavi orientali, la sofferenza assume un rilievo del tutto particolare: i primi santi canonizzati nel regno di Kiev furono i due principi Boris e Gleb (uccisi dal loro fratello maggiore Svjatopolk nel 1015, per impadronirsi del trono vacante), canonizzati nel 1020, prima ancora del loro padre Vladimir e della loro nonna, santa Olga. Molto significativamente, i due principi non furono canonizzati come «martiri», bensì come «strastoterpcy», cioè come coloro «che hanno sofferto una passione».

Attraverso questo modello prendono progressivamente forma, fino a consolidarsi, un tipo e un ideale di santità propriamente russi, forse la tipologia più cara alla tradizione russa, e con la quale il popolo stesso finirà sempre più per identificarsi. La sofferenza dei due primi martiri custodisce i tratti fondamentali di una vera sofferenza «cristiana», proprio in quanto si caratterizza come «cristiforme» nella sua assoluta innocenza. La santità di uno strastoterpec infatti non è di tipo eroico, quanto piuttosto ascetico, ove la persuasione del cammino implica il portare sulle proprie spalle il peso della passione, con grande fiducia in Dio e con un atteggiamento interiore di perdono nella «indulgenza del misericordioso Iddio verso il peccatore indegno che si pente e viene folgorato dalla sua misericordia»[6].

La profonda persuasione spirituale dell’ortodossia, alla luce di questa dimensione originaria, resta quella che chi partecipa alla sofferenza di Cristo partecipa già alla sua gloria, e soltanto così potrà essere considerato degno della risurrezione. Ogni innocente che muore porta nella sua innocenza i peccati del mondo e in questo è simile a Cristo, è unito a Cristo in un modo misterioso. È interessante notare come il popolo slavo-ortodosso, che era appena stato battezzato, scopra una sua via di santità nella sofferenza. Questa via manifesta essenzialmente il paradosso della croce: segno di sofferenza e di sacrificio, ma anche segno della salvezza e manifestazione della gloria di Dio. Un tratto che diventerà peculiare in tutta l’esperienza teologica del popolo russo, che ama e preferisce quasi istintivamente identificarsi con il Cristo umiliato, mite, crocifisso. La santa Russia non ha mai nascosto il suo amore per il Cristo sofferente: «Forse l’unico amore del popolo russo è Cristo, esso ama la sua figura a modo suo, cioè fino alla sofferenza»[7].

Come ha osservato Olivier Clément, nella Chiesa russa, malgrado i peccati dei suoi figli, esiste come un’elezione del sangue[8]; la sofferenza, per usare l’espressione del poeta Nekrassov, «vi si riversa a grandi fiotti, ancora più abbondanti di quelli del Volga nella stagione primaverile». A causa della storia e del tipo di terra che abita, il russo è, come «per natura», abituato a soffrire, e il cristianesimo non fa altro che mostrare la via di trasfigurazione di questa virtù naturale[9].

Difatti la storia del popolo russo è una via dolorosa, costellata di eventi sanguinosi. Dagli strastoterpcy uccisi all’alba della Chiesa russa dell’XI secolo, fino a tutti i cristiani perseguitati nel XX secolo, è la stessa immagine della sofferenza innocente che percorre le vie della santità russa. Come è stato colto con estrema lucidità e consapevolezza dal grande pensatore russo Pavel Florenskij, matematico, filosofo, teologo e sacerdote ortodosso, vittima delle atrocità staliniane, pochi giorni prima di essere fucilato: «Il destino della grandezza è la sofferenza, quella causata dal mondo esterno e la sofferenza interiore. Così è stato, così è e così sarà. Perché sia così è assolutamente chiaro: c’è una sorta di ritardo della coscienza rispetto alla grandezza e dell’“io” rispetto alla sua propria grandezza … È chiaro che il mondo è fatto in modo che non gli si possa donare nulla se non pagandolo con sofferenza e persecuzione. E tanto più disinteressato è il dono, tanto più crudeli saranno le persecuzioni e atroci le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma fondamentale (…) Per il proprio dono, la grandezza, bisogna pagare con il sangue»[10].

Appare fin troppo evidente che la «grandezza» alla quale si fa riferimento allude essenzialmente all’esperienza del dono «fino alla fine», sino alla croce, lungo il cammino di santità. In modo analogo, in tempi più recenti si potrebbe pensare alla figura del pope Alexander Men’ (ucciso nel 1990), che s’inserisce pienamente nella medesima linea di sofferenza e santità; non a caso anche il suo martirio ha molteplici elementi di consonanza con quello dei primi santi riconosciuti dalla Chiesa russa[11].

Il pittore Nesterov, nel suo celebre quadro Il Cristo e la santa Russia, ha colto in modo impareggiabile questo profondo sentimento religioso dell’ortodossia russa, in esso infatti si vede il Cristo circondato da mendicanti, sofferenti, infermi e piccoli di questo mondo in un atteggiamento naturale di contemplazione mistica, compassione, invocazione e lode. Giustamente anche Alexander Solženicyn ha più volte sottolineato che «la letteratura russa si è sempre rivolta a quelli che soffrono», essa segue il Cristo che compatisce, guarisce e consola.

All’interno della spiritualità slavo-ortodossa, sul modello di questi santi «che hanno sofferto la passione», la sofferenza viene intesa originariamente come il momento in cui si può essere giudicati degni di vivere la stessa passione di Cristo, la stessa agonia nel Getsemani e il suo abbandono sulla croce.

 

La croce della kenosi e della gloria

Di fronte alla croce la parola viene meno. «La croce di Cristo è al di là di ogni parola» (san Gregorio Nazianzeno), in essa trova compimento la teologia apofatica e mistica come esperienza dell’amore folle di Dio[12] («Mentre i giudei chiedono miracoli e i greci cercano la sapienza, noi predichiamo la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza [follia] per i pagani»; 1Cor 1,18.23).

Come è stato colto con acutezza dal vescovo Filarete, metropolita di Mosca, sulla croce si è manifestato «l’amore del Padre che crocifigge, l’amore del Figlio che viene crocifisso, l’amore dello Spirito, che trionfa per la potenza della croce. Tanto Dio ha amato il mondo! Ecco cristiano il principio, il mezzo e il fine della croce di Cristo: tutto e solo l’amore di Dio»[13]. La croce non è l’armonico comporre, né tanto meno il caotico confondere, ma il luogo supremo della storia trinitaria di Dio, poiché nella croce eretta sul Golgota si è manifestato il cuore eterno della Trinità. Fulcro dell’evento pasquale del «Venerdì santo storico» e non solo del «Venerdì santo speculativo» (Hegel), in essa è racchiuso il fondamento ontologico trinitario che dischiude il cammino del Figlio nel suo consegnarsi fino alla morte. Una «consegna», quella di Cristo, che dal tempo storico entra in quello escatologico, entra all’interno della vita di Dio, per riapparire e riconsegnarsi come il Risorto, il Vivente, e in quanto tale il vero Presente. Il cuore dell’esperienza spirituale cristiana, che il simbolo della croce testimonia, è in fondo l’incontro con il Vivente al quale scelgo di dedicare la mia vita.

Nella divina liturgia la croce è la realtà del sacrificio (della kenosi), l’offrirsi al Figlio «spezzato» e «versato», nel diluvio della sua misericordia e del suo amore infinito, ma anche il simbolo reale della salvezza. Croce come paradosso e antinomia: sacrificio e salvezza; morte e vita; impotenza e forza di Dio: «La liturgia del sacrificio di Cristo (che ha il suo compimento sulla croce) costituisce il cuore della nostra vita e della nostra autocoscienza. Essa è ciò che dà forma alla nostra vita. Trasfigura e santifica il visibile e il privo di significato. Nella liturgia (contemplando il mistero della croce), viviamo l’inconfusa pericoresi dell’increato e del creato, della vita e della morte, del mistero e della logica, del miracolo e della legge, della libertà e della natura. (…) La vita nella divina liturgia è annichilimento cosciente e integrale. Perciò è anche abbraccio di un mistero che ci supera. È fatica e riposo. È morte e vita…»[14].

La croce (nella sua lacerante antinomia dogmatica) non ha nulla della vaga e rasserenante conciliazione cosmico-metafisica dell’axis mundi. Albero primordiale e asse cosmico. «Punto in cui si conciliano e si risolvono tutte le opposizioni», in cui «si conclude la sintesi di tutti i termini contrari»[15]. La concezione autenticamente cristiana della croce, e in particolare quella ortodossa, mantiene una sua connotazione paradossale: la croce come segno vivo della passione di Cristo e insieme sorgente di santità. Il simbolo della croce non viene annullato, ma assunto in tutta la sua essenza antinomica, scandalo irriducibile, scandalo del Venerdì santo, e insieme esaltazione e venerazione gloriosa della santa croce.

Emblematica è a questo riguardo la concezione che Fëdor M. Dostoevskij ha della croce come compimento dell’amore nella libertà e insieme sofferenza nella kenosi. Nella sofferenza, nella metànoia, nel sacrificio lo spirito umano si purifica, trova la sua integrità. La verità ultima si dischiude entro una dinamica paradossale («i doppi pensieri»), passando attraverso la croce del sacrificio e del dono di sé. La croce è la «liberazione interiore» per chi si è già aperto al senso del perdono, della colpevolezza e della misericordia. La croce è la cifra dell’annientamento interiore (uniciženie) di Cristo, che una volta assunto nella propria interiorità opera una liberazione (Sonia propone a Radja di scambiarsi le croci in Delitto e castigo, e lo stesso fa Lev Miškin con Rogožin ne L’idiota). La croce è una conferma di rivelazione liberante, e non l’altare di un sacrificio espiatorio. L’incontro con la croce è l’incontro con un Vivente che libera.

Come osserva Pavel Evdokimov: «L’ideale religioso di un popolo si forma partendo dalla sua visione molto personale di Dio, dall’immagine artistica, iconografica che si fa di Cristo. Esiste anche un Cristo russo che ha qualche cosa di essenzialmente evangelico sotto l’aspetto kenotico del fratello umile degli umiliati, colui che è sempre con i poveri, gli infermi e i sofferenti»[16]. Gesù è il Messia umile annunciato da Zaccaria (Mt 21,5); egli, uguale a Dio, si è abbassato fino a morire sulla croce per la nostra redenzione (Fil 2,6): il Cristo kenotico è il Cristo glorificato (Fil 2,9). Questo l’insegnamento essenziale del cristianesimo particolarmente congeniale alla teologia ortodossa (russa in particolare).

Secondo Bulgakov, la figura che più ha penetrato l’anima del popolo ortodosso è quella «del Cristo dolce e umile, dell’Agnello di Dio, che prende su di sé i peccati del mondo e che si abbassa fino all’umiltà della condizione umana, venuto nel mondo per servire tutti gli uomini, non perché essi lo servano, e che accetta senza protesta bestemmie, ingiurie e sputi, rispondendo a essi con amore»[17]. E infatti caratteristiche nell’ortodossia, soprattutto russa, sono alcune figure ascetiche di santità che vivono una precisa consonanza spirituale con il Cristo kenotico unitamente a quella con il Cristo pneumatoforo, portatore della luce dello Spirito che si manifesta nella sua forma gloriosa, come i discepoli l’hanno vista sul Tabor, e fa risplendere ogni creatura della stessa bellezza celeste.

 

La presenza di Giobbe

Sulla base dei presupposti storici, teologici e spirituali brevemente richiamati, forse sarà possibile avvicinarsi con maggiore consapevolezza al mistero della sofferenza e del dolore innocente, e più in generale a ciò che viene definito lo scandalo del male, tenendo conto della particolare rilevanza che è venuta ad assumere la figura di Giobbe nella slavia ortodossa e nel pensiero religioso russo della seconda metà del XIX secolo e dell’inizio del XX[18]. Si tratta di una presenza decisiva all’interno del cammino teso verso una ricerca di senso del male innocente.

Seppure non così immediatamente evidente ed eclatante, questa presenza è apparsa molto significativamente (insieme a «La leggenda del grande inquisitore») «una delle perle più preziose della riflessione filosofico-letteraria russa», che meglio esprime le ansiose ricerche dell’epoca contemporanea, come afferma uno dei maggiori teologi ortodossi del Novecento[19].

Questa sottesa consonanza interiore con Giobbe dischiude in realtà una vicenda di pensiero che dalla prima fase di conversione della Russia giunge fino ai grandi pensatori religiosi dei primi decenni del Novecento. La profonda sintonia spirituale del cristianesimo orientale con l’uomo di Uz è alimentata da molteplici aspetti che qui di seguito tenteremo brevemente di richiamare.

Innanzitutto la tendenza, tipica dell’ortodossia, a rifiutare qualsiasi forma di concettualizzazione teologica, e in particolare ogni razionalizzazione tesa alla giustificazione della sofferenza e del male in rapporto all’esistenza di Dio, quindi ogni teodicea intesa in senso classico. Come sappiamo l’ortodossia ha sempre avuto una diffidenza istintiva alla formulazione e alle sistematizzazioni teologiche[20] a favore della dimensione prolettica, pneumatologica, escatologica. Nel pensiero religioso russo prevale il silenzio concettuale caro ai padri orientali[21],21 una consonanza fra silenzio e sapienza che ritroviamo in Giobbe (13,5; 21,5; 40,5). Questo tratto mistico va nella direzione della contemplazione e dell’apofatismo e viene condensato in modo emblematico prima dall’opera di Dionigi Areopagita, poi da quella di Gregorio Palamas, nelle quali, sia pure in maniera diversa, Dio resta sostanzialmente inattingibile alla ragione (cf. Gb 9,10-11; 28,12).

Va considerato poi che la santità ortodossa, così sensibile allo splendore della gloria del Signore, alla bellezza pneumatofora, alla persona santa, porta verso l’inclinazione evangelica dell’uomo interiore, e assume spesso come modello, oltre alla spiritualità del «pellegrino russo», quella di coloro che vengono chiamati jurodivyi, ovvero i «folli in Cristo»[22]. In essi risalta la risonanza originaria con la nudità e la sofferenza jobica e cristica, ovvero l’esperienza dell’irrilevanza del proprio io, lo svuotamento radicale, una sorta di annientamento kenotico che dispone alla piena divinizzazione.

Sempre nell’ordine della consonanza fra Giobbe e la spiritualità ortodossa, si pensi alla decisiva influenza della «dottrina sulla visione» (visione-ascolto nella liturgia e visione-contemplazione nell’iconografia) che in Giobbe trova un punto di riferimento biblico fondamentale, proprio per indicare il passaggio dall’ascolto alla visione[23].

 

La «sofferenza inutile» e l’armonia del creato

Oltre la grande tradizione canonica, diversi autori ortodossi ritengono che nell’opera di F. Dostoevskij vada ricercata la terza grande sintesi (dopo quelle di Dionigi Areopagita e san Gregorio Palamas) della visione ortodossa dell’uomo in epoca moderna[24]: si tratta di una sintesi antropologica del limite e della caduta, eppure di grande importanza per comprendere le ambiguità e le contraddizioni dell’animo umano, l’enigma e il mistero dell’uomo alle prese con le «questioni maledette», le domande terribili sul senso dell’esistenza e del male che lo insidia[25].

Il celebre romanzo I fratelli Karamazov resta uno snodo decisivo dell’intera opera dostoevskijana e, come ammette lo stesso autore nella corrispondenza privata, i capitoli V e VI ne costituiscono i punti culminanti. Tuttavia, mentre l’attenzione riservata dalla critica al c. V («La leggenda del grande inquisitore») è stata vastissima, non altrettanto si può dire del c. VI, nel quale l’ultima conversazione dello starec Zosima viene narrata, in forma agiografica, da Alëša Karamazov. Tale dimenticanza non ha risparmiato neppure quello che Dostoevskji stesso indica come il paragrafo più importante dell’agiografia, il secondo, intitolato «Della sacra Scrittura nella vita di padre Zosima» e nel quale compare la parafrasi di Giobbe[26].

Nella prima parte di questo capitolo, Zosima riprende il testo biblico con alcune varianti, poi richiama alcune annotazioni su quanto è accaduto a Giobbe, osservando: «Da quel momento non posso leggere questo santissimo racconto - e l’ho preso in mano anche ieri - senza lacrime. E quanto c’è qui di grande, di misterioso, di ineffabile! Ho sentito più tardi le parole dei motteggiatori e dei detrattori, parole orgogliose; come poteva il Signore consegnare al diavolo come zimbello il prediletto dei suoi santi, rapirgli i figli, colpire lui stesso con la malattia e le piaghe al punto che si raschiava il marciume delle ferite con un coccio, e per che cosa? Solo per vantarsi davanti a Satana: "Ecco che cosa può sopportare il mio santo per me!". Ma qui sta la grandezza, qui sta il mistero, che la fugace sembianza terrena e l’eterna verità vengano qui a combaciare. Davanti alla verità terrena si compie l’opera della verità eterna. Qui il Creatore, come già nei primi giorni della creazione, quando concludeva ogni giornata con la lode: "È bello ciò che ho creato", guarda Giobbe e di nuovo si vanta della sua opera (...) Che libro è questa sacra Scrittura, quale miracolo e quale forza sono dati con esso all’uomo! (...) E quanti misteri risolti e svelati: nuovamente Dio risolleva Giobbe, di nuovo gli concede ricchezza, passano nuovamente molti anni, ed ecco che ha già nuovi figli, degli altri, ed egli li ama - oh Signore! come poteva egli amare, come sembra, questi nuovi figli quando gli altri non ci sono più, quando ha perduto gli altri? Ricordando quelli poteva davvero essere pienamente felice come prima con i nuovi, per quanto cari gli fossero i nuovi? Ma certo, certo: il vecchio dolore per un grande mistero della vita umana si trasforma a poco a poco in una quieta gioia commossa»[27].

Il testo, oltre a offrire numerose implicazioni di carattere stilistico, richiama il legame inscindibile della Bibbia con la tradizione, ivi compreso il legame liturgico con il Cristo (Libro di Giobbe - liturgia della passione). Di seguito l’attenzione si rivolge a Giobbe come simbolo dell’umanità sofferente, una sofferenza che espone l’umano a una dura prova e che raggiunge un estremo, intollerabile confine quando colpisce l’infanzia innocente, anticipando così altre dense e drammatiche pagine del romanzo. Non a caso infatti Zosima cerca di concentrare l’attenzione, sua e nostra, sui figli di Giobbe, i primi essendo vittime innocenti della malizia di Satana, i secondi donatigli infine da Dio.

Analogamente a quanto avviene nel testo biblico, Dostoevskij collega questo mistero della sofferenza dell’innocente alla questione di un Creatore che si definisce giusto: «Ma qui sta la grandezza, qui sta il mistero..... E Giobbe lodando il Signore, serve non solo lui, ma anche tutta la sua creazione»[28]. Questa lode della creazione si ricollega inevitabilmente, all’interno dello stesso paragrafo, con un brano che è una vera e propria celebrazione del creato. Si pensi al dialogo notturno tra lo starec Zosima e il giovane Alëša incentrato sulla bellezza del mondo divino e sul suo grande mistero, che giunge a queste considerazioni conclusive: «Tutto è verità; guarda il cavallo, nobile animale che sta accanto all’uomo, o il bue che lo nutre e lavora per lui (...) Cristo è con essi ancor prima che con noi (...). Il Verbo infatti è per tutti, ogni creatura, ogni essere, ogni fogliolina tende al Verbo, canta la gloria di Dio, piange inconsapevolmente rivolta a Cristo, questo fa per il mistero della propria esistenza senza il peccato»[29].

Per meglio intendere l’accostamento di questi brani e il rapporto inscindibile fra sofferenza e armonia del creato, appare inevitabile un rimando ai Taccuini preparatori del romanzo, che consentono d’intravedere sotto il Giobbe dostoevskijano anche la lettura del Cristo crocifisso-risorto, offerta probabilmente dalla frequentazione patristica[30].

Dal confronto con questi brani emergono diversi nuclei problematici attorno ai quali il lettore si tormenta con l’autore senza giungere a una soluzione pacificante. Soprattutto ci si chiede: come è possibile amare i nuovi figli dopo la morte dei primi? Perché soffrono gli innocenti e in particolare i bambini? Come si conciliano le sofferenze dei bambini con l’armonia promessa? Non è facile convivere a lungo con queste domande, anche se Dostoevskij sembra accennare non tanto a delle soluzioni, quanto a possibili percorsi di senso che ognuno deve poter interiorizzare, assimilare individualmente, a partire dalla constatazione che Giobbe può giungere ad amare i figli donati come i propri, perché il dolore si trasforma misteriosamente in quieta gioia, e ciò sembra possibile grazie all’opera del Redentore che ha riaperto la strada verso l’armonia del creato.

Le domande laceranti che scaturiscono dal confronto con questo capitolo del romanzo sono in fondo, sotto altra forma, le stesse terribili domande che tormentano Ivan Karamazov, domande che, come ferite, Ivan lascia aperte e sanguinanti suscitando un implicito confronto a distanza con Zosima, proprio alla luce dell’esperienza di Giobbe. Infatti, per sostenere le sue «posizioni ateistiche» - come osserva lo stesso Dostoevskij - Ivan prende un tema inoppugnabile, l’assurdità della sofferenza dei bambini, e ne deduce l’assurdità di tutta la realtà storica. Ma l’autore fa opportunamente notare che questa è «negazione non di Dio, ma del senso della sua creazione».

Sarà allora proprio la figura di Giobbe, sia pure cristianizzato, a dover rispondere anche se non direttamente alle domande maledette di Ivan, che alla fine si concentrano in una sola: «C’è in tutto il mondo qualcuno che possa e abbia il diritto di perdonare?». E la risposta di Alëša sta nell’apparire silenzioso del Redentore, che «ha donato il suo sangue innocente per tutti e per tutto». Dunque, il disporsi lungo il sentiero già intrapreso dallo starec Zosima, che intravede nella figura di Giobbe l’anticipazione di quella di Cristo, quasi la pre-apparizione del mistero dell’incarnazione.

Per questo Dostoevskij può chiudere la parafrasi con «l’estatica sintesi cosmologica», nella quale «ogni creatura, ogni essere, ogni fogliolina tende al Verbo», che ricalca analogicamente la teofania di Giobbe costituendone una sorta di confutazione indiretta al mistero del dolore. Tuttavia se da un lato tale argomento cosmologico permette al Giobbe dostoevskijano di assumere la provocazione di Ivan Karamazov intorno al mistero del dolore dei bambini, dall’altro il mistero della sofferenza si mantiene come tale, in tutta la sua paradossalità e antinomia, che nulla concede all’edificante teodicea.

Si tratta, per usare una categoria dostoevskijana molto cara al filosofo italiano Luigi Pareyson, di una «sofferenza inutile», nel senso di una sofferenza invendicata, incomprensibile e inspiegabile, che non si lascia riassorbire da un ordine che la trascende; quella stessa sofferenza che misteriosamente, eppure così chiaramente, Giobbe offre a Dio. Nessuno più acutamente di Dostoevskij ha saputo far saltare la meccanica giustificazionista della pietosa teodicea costruita sulla teologia razionale. In questa, come in altre sue opere, il Dio di Dostoevskij si rifiuta di essere colui che offre una giustificazione del male, una risposta inconfutabile, senza lasciare cadere tale «sofferenza inutile» nell’assurdo (A. Camus), ma piuttosto serbandola in sé, assumendola fino in fondo nella sua carne. Alla luce di questa posizione, dopo un’acuta interpellazione filosofica dei testi dostoevskijani, Pareyson giunge a questa valutazione conclusiva: «L’idea del Dio sofferente (che partecipa fino in fondo della sofferenza umana) è infatti l’unica che possa resistere all’obiezione della sofferenza inutile»[31].

 

Domanda di senso o caduta nell’assurdo

La risonanza che queste pagine di Dostoevskij ebbero nel pensiero russo del Novecento, soprattutto nel rapporto inscindibile fra lo scandalo del male e il problema della libertà, fu davvero straordinaria[32]. L’opera di Dostoevskij diviene un modello filosofico e teologico, oltre che letterario, al quale tutti i grandi filosofi del Novecento fanno riferimento. Il confronto del pensiero russo su questo problema è straordinariamente ricco e fecondo, ma anche ribollente di passioni e arditi paradossi.

Uno dei primi e più acuti interpreti dell’opera di Dostoevskij e del problema del male è stato certamente Vassili Rozanov[33]: il pensatore inquieto e tormentato, che prorompe nelle esclamazioni più terribili ed esasperate sul mistero metafisico della sofferenza[34]. Anche Sergeij Bulgakov ha colto con acutezza la portata filosofica di Dostoevskij esaminando la figura di Ivan Karamazov come «tipo filosofico», con preciso riferimento jobico al problema da questi posto, il quale ritorna con forza tragica e folle audacia, sull’origine e il significato del male nel mondo.

Una soluzione al problema della teodicea (con la quale tutti i sistemi filosofici hanno tentato di misurarsi) è pensabile in ultima analisi - secondo Bulgakov - «solo per proprio conto e a proprio rischio, non con il solo intelletto e con la semplice logica, ma con tutto il proprio essere»[35]. Sentire sulle proprie spalle il peso di questa terra desolata, portare nel cuore, con pietà e compassione, anche soltanto una parte di questo dolore, soffrire in sé stessi della sofferenza altrui, è la condizione fondamentale per la fecondità della propria vita interiore e per riconoscersi creature fragili, vulnerabili, avvolte dal mistero della vita.

Tuttavia uno dei filosofi che, in ambito russo, ha prestato una rigorosa attenzione alle domande di Ivan Karamazov è stato Nikolaj Berdjaev. Le sue riflessioni, sia pure talora nella loro estrema paradossalità, colgono compiutamente il senso di questa «tragedia della libertà». La «mente euclidea» di Ivan è incapace di capire Giobbe (grazie al quale dirà: «fui così crudelmente gabbato al tempo dei tempi») e quindi il senso della sofferenza e del male, perché è incapace di corrispondere al problema della libertà. Se la sua rivolta prende inizio dalla libertà, termina tuttavia nel tentativo di costruire il mondo sulla sola necessità raziocinante e oggettivante. In una folgorante pagina di una delle sue opere, che così insistentemente tornano su questo punto così decisivo per la sua prospettiva filosofica, Berdjaev giunge a constatare che «il problema della teodicea è insolubile per il pensiero oggettivante, che si muove nell’ordine oggettivo del mondo; lo si può risolvere solo sul piano esistenziale, in cui Dio si rivela come libertà, amore e sacrificio, in cui soffre e lotta con l’uomo contro l’ingiustizia e le intollerabili sofferenze del mondo»[36].

All’eterna obiezione contro Dio circa la presenza del male nel mondo, alla quale tutta l’opera di Dostoevkij cerca di rispondere, Berdjaev formula in modo paradossale questa risposta: «Dio appunto perciò esiste, perché esiste il male e il dolore nel mondo: l’esistenza del male è una prova dell’esistenza di Dio. Se il mondo fosse esclusivamente buono e giusto, allora Dio non sarebbe più necessario, allora il mondo sarebbe Dio. Dio esiste perché esiste il male. Ciò significa che Dio esiste, in quanto esiste la libertà»[37].

Per Berdjaev, al di là dell’estremo paradosso, Dostoevskij porterebbe al limite la convinzione interiore che l’esistenza di Dio non possa prescindere dalla libertà dello spirito, quindi solo in rapporto a Dio la domanda sul «perché» della sofferenza e del male può collocarsi in un orizzonte di senso. Là dove Dio non ci fosse, la domanda si perderebbe inevitabilmente nell’assurdo, nella vacuità del non-senso. Basti pensare alla figura mitica di Sisifo e all’uomo in rivolta di Albert Camus, che infine si chiedono: a che vale alzare i pugni contro Dio di fronte all’intollerabilità del male, se Dio non c’è?

 

Il grido e il senso: oltre le evidenze logiche della teodicea

Tra i pensatori che, sulla scia di Dostoevskij e in costante dialogo con Kierkegaard, hanno posto al centro della propria attività speculativa la domanda intorno al senso della sofferenza, occupa un rilievo particolare Lev Šestov. Gran parte della sua opera[38], infatti, ha come paradigma «il grido di Giobbe», tanto da diventare interprete originalissimo e prosecutore di quella «filosofia della tragedia» attraverso la quale già Dostoevskij aveva presagito che il luogo di Dio è oltre il muro delle evidenze logiche, ed è pura follia cercarlo tra i saggi e i sapienti, piuttosto bisogna cercarlo (come aveva fatto Kierkegaard) sulle tracce di Giobbe, «l’uomo piagato che ha conquistato il cielo».

Il grido di Giobbe, secondo Šestov, inaugura una nuova dimensione del pensiero, che consiste nel superamento della ragione speculativa fino al completo abbandono alle «tenebrae fidei», inteso come riconquista della libertà perduta, grazie alla quale «la verità s’insinua nella vita senza alcun documento giustificativo». In questo pensatore, in maniera molto più veemente che in altri a lui contemporanei, emerge la necessità di un superamento della ragione logica formale come condizione per un disvelamento di ciò che al pensiero appare come indeducibile mistero. Coerente con la propria prospettiva Šestov, pensatore del conflitto e del paradosso, assume Giobbe come vero e proprio paradigma teoretico ed esistenziale nel contrasto che oppone Atene e Gerusalemme, nel quale «quel che per Atene è sapienza, è follia per Gerusalemme». In questa opposizione radicale si riflettono i simboli di molti conflitti: tra ragione e fede; tra speculazione e rivelazione; tra il generale e il particolare; tra l’etica dei «maledetti bene e male», come li definisce Ivan Karamazov, e il «De profundis». Dentro tale conflitto Giobbe diviene riferimento imprescindibile verso una ricerca filosofica del senso, ricerca «delle sorgenti della vita», oltre il trionfo della ragione teorica e del necessario comprendere, afferrare e misurare il mondo.

Šestov si fa promotore quindi di una filosofia esistenziale intimamente unita alla fede, che cerca non la comprensione ma la vita, che non è riconoscimento teorico o pratico dell’ordine della realtà, ma sforzo di liberazione dalla necessità verso le sorgenti della vita. In tale prospettiva la fede diviene la dimensione costitutiva del pensiero e impone il confronto con Giobbe e con il suo Dio. Se «dire Dio», infatti, significa biblicamente dire che «tutto è possibile», contro il «tutto necessario» della filosofia speculativa, questo Dio jobico non potrà essere riconosciuto che mediante una conoscenza non evidente. Šestov giunge così ad affermare: «Dio esige sempre da noi l’impossibile e principalmente in questo sta la differenza fra Dio e gli uomini. O forse il contrario, la somiglianza: non è detto che Dio ha creato l’uomo a sua immagine? E l’uomo si rivolge a Dio soltanto quando desidera l’impossibile. Per ottenere cose possibili si rivolge ai suoi simili»[39].

Nel conflitto aperto con la ragione, in cui alla fine il nulla ci sta di fronte e con esso l’angoscia, Šestov incontra Kierkegaard, riattingendo in Giobbe il senso della rivolta totale e radicale. Quando si guardano in faccia il dolore, la nausea della vita e la morte stessa, come Giobbe, la disperazione e l’angoscia, come Kierkegaard, ci si trova ricchi solo della propria sofferenza, al cospetto dell’impossibile. Allora dobbiamo chiederci da quale parte penderà la bilancia di Giobbe; il peso della nostra sofferenza riuscirà a sollevare il piatto in cui sarà gettata tutta la saggezza del mondo? O forse, l’uomo dovrà accettare il giogo della ragione, rassegnarsi alla propria sventura perché, come insegna Spinoza, l’uomo non deve «ridere, piangere, né indignarsi, ma capire»?

Šestov richiama il Kierkegaard de La ripresa, là dove il filosofo danese osserva: «Giobbe fu benedetto, tutto gli fu reso doppio. Questo è ciò che si chiama ripetizione (...) La “ripetizione” dunque esiste». Ma quando e come può accadere? - si chiede Šestov con Kierkegaard -: «È difficile spiegarlo con le parole umane. Quando si è prodotta per Giobbe? Quando ogni creatura, ogni probabilità umanamente pensabile provano la sua impossibilità. Soltanto l’orrore giunto alla disperazione sviluppa nell’uomo le sue forze più alte»[40].

Così per Šestov le grida di Giobbe non sono un vociferare insensato, assurdo e inutile, ma in esse è presente la forza inaudita che, come le trombe di Gerico, deve fare cadere le mura della fortezza. E se all’inizio Giobbe sembra quasi trattenere queste grida, man mano che le sciagure si moltiplicano e s’ingigantiscono, si solleva la tensione dell’indignazione e dei pianti repressi, spezzando la dura scorza delle evidenze che paralizzano la sua libertà. Per Šestov, infatti, «il significato di Giobbe sta precisamente in questo: che egli non sfoga il patetico della libertà in false consolazioni. La benevolenza e la sapienza parlano per bocca degli amici di Giobbe; eppure essi non solo non riescono a calmarlo, ma lo irritano ancora di più (…) Per Giobbe ogni teodicea appare sacrilega. Ogni tentativo di spiegare la disgrazia non faceva che aggravarla agli occhi di Giobbe; non sapeva proprio che farsene delle spiegazioni e delle consolazioni»[41].

Come sappiamo Giobbe cerca salvezza nel «clamare», nell’invocazione a quel Dio che giunge a rendergli il doppio di quanto ha perduto. Secondo Šestov solo «là nell’abisso insondabile della disperazione il pensiero stesso si trasforma; solo là può essere compreso il senso delle parole enigmatiche del salmista “de profundis ad te, Domine clamavi”»[42].

Nella perdita di questa facoltà del «clamare» risiede quanto di più desolante è accaduto nel pensiero moderno contemporaneo. Solo nell’abisso, nel tremore e nella sofferenza insorgono le domande ontologicamente decisive, ed è qui che l’interrogazione jobica s’incontra con l’interrogazione filosofica. Šestov si chiede in proposito di che cosa sono fatte le domande, segno dell’umana forza investigativa, ma anche della sua limitatezza. Secondo Spinoza si possono fare solo domande che non riguardano ciò che più ci riguarda, a cui si danno risposte di cui non abbiamo nessun bisogno; questo perché la filosofia ha preteso di essere «vera» anziché «ottima», qualifica che spetta solo a una filosofia della vita. La filosofia contemporanea, a differenza di Giobbe e dei grandi profeti dell’antichità, «è convinta che le domande debbono essere fatte di una materia indifferente e senza valore. Essa spazza via come inutili detriti la bellezza, il bene, le estasi, le lacrime, le maledizioni, senza nemmeno sospettare che tutto questo è ciò che di più prezioso abbia la vita, e che proprio di questa materia dovrebbero esser fatte le vere domande filosofiche»[43].

Nelle sue opere Šestov, come Giobbe, grida! Un grido acuto contro la filosofia che della necessità è il discorso, contro il «muro di cristallo delle evidenze», contro l’incantesimo della ragione, che impedisce ogni apertura possibile verso la fede, sulla terra insicura e vacillante, in cui risuonano soltanto grida e domande. Il senso della sofferenza va ricercato allora all’interno della stessa domanda, dentro quello stesso grido che scaturisce dalla fede «quia absurdum»: «Pensate i miei spasimi e sul piatto mettete la mia cancrena, peseranno di più che la sabbia di tutti i mari, perciò barcollano le mie parole» (Gb 6,2-3).

 

La sofferenza, un mistero di preghiera e di amore

Nella posizione di Šestov traspare non soltanto una forte precomprensione ebraica, ma anche un’accentuazione del conflitto con la ragione che inevitabilmente porta a una fuga verso l’irrazionale. Più mediata ed equilibrata appare invece la concezione di gran parte degli autori citati, nei quali il superamento translogico della ragione non ha nulla di irrazionale, ma sembra piuttosto una necessità stessa del pensiero di fronte al mistero della rivelazione. Tra questi merita un’attenzione particolare Pavel Florenskij, considerato la punta di diamante del pensiero religioso russo del XX secolo, una personalità davvero geniale che stupisce per profondità e vastità di cultura, definito dai suoi contemporanei «il Leonardo da Vinci della Russia».

Nella sua opera fondamentale pubblicata nel 1914, La colonna e il fondamento della verità, considerata recentemente uno dei capolavori del pensiero filosofico e teologico del Novecento, la questione della sofferenza e del male in relazione alla figura di Giobbe anticipatore di Cristo, diviene un luogo di confronto di particolare decisività nel percorso teso verso la ricerca della verità dell’essere, verità viva (istina e non pravda), misura e origine di ogni senso, che trova nella relazione trinitaria del Dio-amore il suo approdo e la sua sorgente.

L’opera originale ha come sottotitolo: «Saggio di teodicea ortodossa in 12 lettere», ma il senso di questa «teodicea» si muove nell’ortodossia lungo un versante assai diverso da quello del pensiero filosofico e teologico elaborato più compiutamente da Leibniz. Pur muovendo da un ripensamento radicale dei problemi inestricabili (il male, la sofferenza, il peccato, la geenna), Florenskij intende la teodicea come processo ascensionale dell’uomo verso la vita di Dio, sotto l’influsso della grazia. Lontano da ogni lettura retribuzionistica e meccanicistica del male, la teodicea sembra qui piuttosto suggerire un percorso ascetico verso la perfezione interiore[44].

Come più tardi afferma Semën L. Frank, portando a piena maturazione le intuizioni di Florenskij, «il problema della teodicea, che insorge con il libro di Giobbe, è assolutamente insondabile razionalmente (...) poiché il male nasce dall’abisso ineffabile che sta come al limitare fra Dio e il non-dio»[45].

Per Florenskij la vita stessa della verità (istina), la sua inesauribile pienezza, oltrepassa qualsiasi tentativo di volerla racchiudere dentro una definizione puramente logica e formale. Per questo, nel suo senso ultimo, «la verità è antinomica e non può non essere tale». Questo significa che la verità comprende in sé il dramma della sua caduta, della sua sofferenza, del suo grido, della sua croce. Solo così sarà verità e non una parte di essa (come vuole l’eresia), solo così può accogliere in sé la vita e salvarla. «Antinomia» intesa come «coincidentia oppositorum», come coincidenza in Dio stesso delle definizioni contraddittorie, secondo la classica definizione del Cusano.

L’antinomia, categoria chiave di tutto l’itinerario di pensiero di Florenskij, è l’essenza stessa delle esperienze vitali, ha origine nella frammentarietà dell’essere, segno della distanza tra intelletto umano e verità divina. Un invito a riconoscere il mistero che attraversa la realtà e la radice paradossale della fede cristiana, che ha nella croce, quale luogo della «sconfitta» di Dio e insieme della sua gloria, il punto culminante.

Nella VI «lettera» dell’opera dedicata alla «contraddizione», l’autore coglie nella figura di Giobbe la chiave d’accesso che porta alla verità antinomica. Molto significativamente Florenskij osserva: «Tutto il libro di Giobbe rappresenta questa esperienza incarnata della contraddizione, è tutto costruito sull’idea dell’antinomicità. Dio ci ricorda che l’uomo non è la misura della creazione, che l’universo è costruito secondo un piano che infinitamente trascende la ragione umana. I desideri e le opere di Dio sono essenzialmente incomprensibili per l’uomo e perciò sembrano irragionevoli (Gb 23)»[46].

Il libro di Giobbe dunque, proprio nel suo acme di antinomicità, ci invita a ripensare radicalmente al mistero della sofferenza in relazione al mistero inattingibile di Dio. In perfetta consonanza con il più profondo sentire filosofico russo, Florenskij fa risuonare accanto alle parole di Giobbe quelle di Dostoevskij, là dove osserva: «Tutto è mistero, in tutto c’è il mistero di Dio... Ed è meglio che sia mistero: esso è terribile e mirabile al cuore, e questo timore è per la letizia del cuore... È ancora più bello che sia mistero» (I demoni). L’antinomia è nelle fibre della verità di fede, ne dischiude in qualche modo il mistero, sospingendo la ragione verso un superamento di sé nell’apofasi. Questo «mistero del disordine morale colpisce Giobbe per la sua grandezza, mentre i suoi amici non lo percepiscono nemmeno (Gb 21). “Mettete il dito sulle vostre labbra”; un gesto di silenzio e di mistero, lo stesso gesto che vediamo spesso sulle icone di Giovanni il Veggente»[47].

Per Florenskij quindi Giobbe è colui che coglie con profondità abissale il senso del male, come esperienza indescrivibile e indicibile, che non «può rivestirsi di parole se non nella contraddizione del sì e del no». Noi non possiamo, al pari degli amici di Giobbe, fingere che le contraddizioni siano inesistenti, che la ragione conoscitiva sia monolitica e non frazionata, che il mondo conoscibile sia la perfetta armonia, nascondendone le crepe. Non dobbiamo lenire la contraddizione con l’unzione dei filosofemi: «Che la contraddizione resti così come è (...) poiché essa (come insegna Giobbe per primo) è sempre un mistero dell’anima, un mistero di preghiera e di amore. Quanto più ci si avvicina a Dio, tanto più chiare sono le contraddizioni»[48]. Solo nella Gerusalemme celeste le contraddizioni si dissolveranno e la verità sarà una, ma sulla terra queste sono in tutte le cose, contro ogni deduzione filosofica, ed è proprio questa presenza dell’antinomia che richiama «l’assoluto inesprimibile».

L’ingiusta sofferenza di Giobbe nella sua antinomicità, nel suo apparire persino scandalosa, diviene non causa di separazione da Dio, ma addirittura motivo per entrare in maggiore intimità con lui nella permanenza profonda della fede, e infatti «di fronte all’antinomia è necessaria la fede, vista l’impossibilità di costringerla al piano del raziocinio. È un “sì” e un “no” e questa è la migliore dimostrazione della sua portata religiosa (…) Dove non c’è antinomia non c’è nemmeno la fede: ed essa scomparirà solo quando la fede e la speranza verranno meno e rimarrà soltanto l’amore (1Cor 13,3-13)»[49].

Il senso della sofferenza può donarsi dunque solo nella sua libertà e gratuità infinita come pura grazia, come rivelazione indeducibile dell’amore di Dio. Soltanto per l’anima sfiorata dalla grazia, gratuitamente donata all’amore, le contraddizioni sono superabili. La sofferenza è come l’aprirsi di una ferita che, mentre mostra il segno dell’antinomia del reale, può far perdere il senso ma lo può anche far sorgere. Dal fondo di questa ferita può sorgere un clamore destato dalla grazia ineffabile e invisibile, che salva solo sfiorando.

 

La sofferenza trasfigurata

In questo confronto con alcuni tratti del pensiero religioso russo, all’interno del più vasto sfondo spirituale dell’ortodossia slava, abbiamo tentato di avvicinarci alla peculiarità cristiana ortodossa relativamente alla sfida della sofferenza e del male per l’esistenza umana. Senza alcuna pretesa di esaustività, ma con la preoccupazione di restituire uno stile, una sensibilità, un modo altro di essere del pensiero cristiano orientale che, nella reciprocità con il versante occidentale, può aiutare a scorgere le diverse ricchezze che scaturiscono da un’unica sorgente. Per la tradizione ortodossa slava, ripensare la sofferenza significa innanzitutto ripensare le proprie radici, ritornare a Giobbe, letto e interpretato alla luce della croce di Cristo.

Anche se questo approccio presenta non pochi problemi dal punto di vista del rigore esegetico, tuttavia colloca il problema nell’orizzonte della storia della salvezza, e mentre mostra quel profondo legame con la tradizione liturgica e patristica, ne offre anche il dono di un senso della sofferenza oltre il tempo, un dono permanente.

Sulla base di questa tradizione i pensatori cristiani, soprattutto russi, hanno tentato di mostrare che in fondo è possibile comprendere l’enigma della sofferenza, a partire da Giobbe, tenendo conto delle molteplici possibilità di interpretazione e di relazione con il problema, delle quali l’indagine razionale costituisce soltanto un aspetto, e certamente non il più convincente per corrispondere alla sfida estrema che la questione pone. Nella prospettiva spirituale cristiana, la sofferenza, come il male, è la radice del mistero, un mistero posto all’origine della relazione tra Dio e l’uomo.

Tuttavia proprio lungo questo cammino ascetico verso la divino-umanità la sofferenza può diventare anche la radice della conoscenza, una «conoscenza che diviene amore» (s. Gregorio Nisseno), se l’esistenza stessa è vissuta come dono, nella perfetta gratuità. Questo anche quando l’esistenza è straziata dal dolore? Il simbolo di Giobbe riflette per intero la condizione umana, avvertendo sulla propria pelle, sia pure nella prospettiva di Dio, la distanza che lo separa da Dio, il peso della sua impotenza, la sua abissale solitudine, infondatezza, fragilità e inquietudine (Gb 14) in cui la vita ha la consistenza dell’ombra. Giobbe con il suo dolore, con le sue grida, con le sue terribili domande, ma anche con la sua fede, delinea la via dell’esodo da ogni presupposto e sicurezza.

Per il pensiero cristiano russo la fede di Giobbe è già tutta nel suo grido, in cui rifiuto e invocazione si tendono verso l’inattingibile. In questa prospettiva di pensiero, la sofferenza come enigma per l’uomo si è incontrata in Cristo crocifisso con la sofferenza come enigma di Dio. Il grido di Giobbe si incontra così con l’abbandono di Gesù sulla croce, in cui Dio onnipotente risponde nel silenzio della sua infinita debolezza, nella sua estremità di dolore che rivela l’amore, assumendo in sé tutta l’umana debolezza e sofferenza[50].

Permanendo all’interno dello stesso orizzonte di pensiero, tra le diverse concezioni contemporanee emerse in ambito occidentale, quella che più si avvicina alla sensibilità teologica e filosofica russa sembra essere quella di Simone Weil, che lasciandosi provocare fino in fondo da Dostoevskij e in particolare proprio dalle terribili domande di Ivan Karamazov coglie lo «scandalo» della sventura al suo punto limite, non tanto nelle diverse forme della sofferenza fisica, morale, sociale, che affliggono il genere umano, bensì nel fatto che Dio abbia permesso alla sventura di afferrare l’anima degli innocenti, al punto da impadronirsene completamente. Solo un miracolo può strappare e salvare l’anima di chi è schiacciato da questa disperazione e orribile prova, restituendola alla bellezza del dono. Questo miracolo di trasfigurazione interiore è tutto racchiuso nella possibilità di «continuare ad amare a vuoto, … sia pure con una parte infinitesimale di se stessi»[51].

Una delle peculiarità spirituali dell’anima russa è sempre stata quella di tenere insieme la profonda coscienza del proprio dolore e sofferenza con il bisogno interiore di salvezza, di redenzione, di trasfigurazione dell’esistenza. Per questo il cristianesimo russo ha saputo coniugare con particolare vigore spirituale e dogmatico la sofferenza della croce con la gioia pasquale, la memoria dell’agonia e del dolore con la luce trasfigurante della risurrezione. La profonda convinzione di tutti i grandi pensatori russi è che nel cuore della terra russa palpiti l’anima spirituale per la gioia trasfigurante della Pasqua[52]. Da questo evento scaturito dal dramma dell’amore e della libertà, l’uomo è chiamato nella libertà dello Spirito a lasciarsi penetrare dalla luce, fino a diventare un’esistenza trasfigurata, una «corporeità trasfigurata»[53], quale compimento dell’esperienza di fede cristiana.

Dunque, il problema della sofferenza è essenzialmente un problema spirituale, dispiegamento di un duro cammino ascetico costellato di domande, afflizioni, cadute sotto il peso della propria croce. In questo cammino di invocazione e compassione, di dono e misericordia, è forse possibile giungere a «trasformare l’oscura sofferenza che conduce alla perdita dell’uomo in una sofferenza trasfigurata, la quale è via di salvezza (…). Ogni cristiano dovrebbe vivere la sofferenza come una penetrazione di luce, come qualche cosa che ha senso nell’ambito del proprio destino»[54]. La sfida ultima resta quella di riconoscersi creature generate da un mistero di amore e ritrovare in sé stessi il diamante nascosto, riposto da Dio nell’uomo come sua immagine. Un diamante che se si lascia attraversare dalla luce radiosa e senza tramonto del Risorto, può restituire tutto il suo splendore.

 

Testo tratto dal sito: www.ilregno.it



[1] Il presente saggio ripropone sostanzialmente il contributo dell’autore apparso recentemente nel volume di Aa. Vv., Ripensare la sofferenza, a cura di G. Galeazzi (con contributi di L. Ciotti, G. Dall’Asta, E. De Dominicis, E. Fizzotti, G. Galli, P. Grassi, F. Pesaresi, F. Riva, B. Testa), Città aperta, Troina (EN) 2004.
[2] Sulla peculiarità spirituale di questa esperienza si veda T. Špidlik, «Il problema della sofferenza nella spiritualità russa», in Aa.Vv., La sapienza della croce oggi, Atti del congresso internazionale, Roma 13-18 ottobre 1975, Torino 1976, vol. II, 479-485.
[3] N. Berdjaev, Dialectique existentielle du divin et de l’humain, YMCA Press, Paris 1947, 185. Una percezione problematica analoga è presente in diversi altri autori: cf. in particolare V. Solov’ëv, I fondamenti spirituali della vita, Lipa, Roma 1998.
[4] N. Berdjaev, Dialectique existentielle, 89ss.
[5] Cf. P. Sbriziolo (a cura di), Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, Einaudi, Torino 1971.
[6] N.S. Arsen’ëv, O žizni preizbytocestvujušèej, Foyer Oriental Ch., Bruxelles 1966, 253.
[7] F. Dostoevskij, Diario di uno scrittore, Sansoni, Firenze 1981.
[8] Cf. O. Clément, La Chiesa ortodossa, Queriniana, Brescia 1989.
[9] Cf. P. Kologrivof, Saggio sulla santità in Russia, Queriniana, Brescia 1955; successiva ed. Santi russi, La Casa di Matriona, Milano 1977.
[10] P. Florenskij, «Non dimenticatemi». Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Mondadori, Milano 2000, 374-375.
[11] Ucciso nel 1990 in circostanze rimaste ancora misteriose, comunque a quanto pare dai «fratelli», il padre Men’ è oggi un esempio tipico di «sofferente glorificato», di «ferito dall’amore di Dio». La frase più nota egli la pronuncia alla vigilia della sua morte: «Il cristianesimo sta per iniziare». Infatti ogni volta che uno muore con Cristo, il cristianesimo risuscita con lui a nuova vita.
[12] Cf. P. Evdokimov, L’Amore folle di Dio, Paoline, Roma 1981.
[13] Filarete, metropolita di Mosca, «Meditazioni sul Grande venerdì», in Meditazioni e discorsi (Opere) (in russo), Mosca 1873, 90.
[14] Basilio di Inviron, Canto d’ingresso, Cens-InterLogos, Milano XXXX, 75.
[15] Cf. R. Guenon, Il simbolismo della croce, Rusconi, Milano 1973, 64.
[16] P. Evdokimov, Cristo nel pensiero russo, Città Nuova, Roma 1970, 41.
[17] S. Bulgakov, L’orthodoxie, Felix Alcan, Paris 1932, 7; per una riflessione teologico-sistematica su questo punto si veda dello stesso: Id., L’Agnello di Dio. Il mistero del Verbo incarnato, Città Nuova, Roma 1990.
[18] Per un confronto sistematico su questo tema cf. N. Valentini, Giobbe nel pensiero russo, Atti del convegno di Vallombrosa (con interventi di P. De Benedetti, P. Sequeri, A. Bodrato ecc.), «Biblia», Firenze 1992.
[19] S. Bulgakov, «Ivan Karamazov come tipo filosofico», in Aa.Vv., Il dramma della libertà. Saggi su Dostoevskiij, La Casa di Matriona, Milano 1991, 85.
[20] Come sottolinea icasticamente P. Evdokimov, «Gli ortodossi non hanno mai avuto simpatia per le “summe teologiche”, né per i sistemi scolastici. Ogni formulazione o definizione eccessiva provoca una diffidenza istintiva. L’ortodossia non ha bisogno di formulare, ha bisogno di non formulare. È una convinzione innata che viene dai padri della Chiesa, che non sia bene speculare sui misteri, che sia meglio contemplarli e lasciarsi illuminare, penetrare dalla loro luce; senza lasciarsi razionalizzare, il mistero diviene illuminante. Da qui un tipo di spiritualità molto più liturgico e iconografico che discorsivo, concettuale, dottrinale»: Evdokimov, Cristo nel pensiero russo, 35.
[21] Frequente è il richiamo infatti a Gregorio Nisseno, secondo il quale: «I concetti creano gli idoli di Dio, solo lo stupore afferra qualcosa»; cf. Gregorio Nisseno, De vita Moysis, PG 44, 3777 b; antica canticorum, PG 44, 1028 d.
[22] Non dimentichiamo che all’origine dell’Idiota dostoevskiano vi è proprio la figura spirituale dello jurodivyi. La radice stessa del termine jurod, nello slavo antico, indica la feccia del mondo, coloro che non sono nulla, rifiuti inutili. Giustamente lo ieromonach A. Kuznekov in uno scritto del 1913, Folli in Cristo e stiliti, descrivendone i tratti caratterizzanti precisa: «Egli (ossia il folle in Cristo) non può vivere senza le sue piaghe e offese, restando sempre seduto in mezzo alla cenere come Giobbe, paladino di ciò che è vergognoso e innaturale». Così questo jurodivyi-jobico, come l’uomo del sottosuolo dostoevskiano, grida la «verità dell’uomo senza pelle; (....) Mi hanno scorticato, e ormai un solo sguardo mi fa male». Sono parole che ricordano Gb 19,25-26. Per un confronto con questa particolare esperienza mistica si veda I. Gorainoff, I pazzi in Cristo nella tradizione ortodossa, Áncora, Milano 1988.
[23] Cf. G. Kittel, cit. da P. Evdokimov, Teologia della bellezza. L’importanza della visione di Dio e della sua gloria nel pensiero biblico, a partire da Giobbe, viene sottolineata soprattutto da V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, EDB, Bologna 1985, ove l’attenzione è posta su Giobbe 19,25-26, in cui «il giusto provato da Dio esprime con la speranza della risurrezione, la certezza che vedrà Dio con i suoi occhi».
[24] Questa posizione, condivisa da numerosi pensatori russi dell’inizio del Novecento, è stata più recentemente ripresa dal teologo greco ortodosso C. Yannaras, in particolare nel saggio: «La morale della verità. Presupposti per una visione ortodossa della morale», in Aa.Vv., La legge della libertà. Evangelo e morale, Jaca Book, Milano 1973.
[25] Tra i numerosi filosofi e teologi russi che si sono occupati dell’opera di Dostoevskij alla luce di questa problematica, segnaliamo in particolare P. Evdokimov, Dostoevskij e il problema del male, a cura di S. Givone, Città Nuova, Roma 1995.
[26] L’unica eccezione è costituita dall’accurata analisi stilistica ed ermeneutica proposta da G. Ghini, «Il simbolo "Giobbe" ne "I fratelli Karamazov" di F.M. Dostoevskij: tra connotazione ed ermeneutica», in Lingua e stile 22(1987) 1, 91-118; Id., «Figure di Giobbe nella letteratura russa», in Aa. Vv., Le provocazioni di Giobbe, Marietti, Genova 1992.
[27] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Sansoni, Firenze 1963, vol. II, c. VI. A rendere ancora più rilevante tale parafrasi di Giobbe in prosa è il fatto che lo starec Zosima la presenti come ricordo della sua prima esperienza spirituale: una «liturgia ascoltata nella fanciullezza», sottolineando così implicitamente che la liturgia è nell’ortodossia la radice stessa della «forma culturale», che genera la cultura dal culto. Zosima dice: «La mamma mi aveva condotto da solo (non ricordo dove fosse quella volta mio fratello) nel tempio del Signore, alla liturgia del Lunedì della settimana di Passione (...) Io guardavo commosso e per la prima volta, da quando ero nato, ebbi coscienza che il seme della parola divina entrava nella mia anima». Il motivo di questa prima emozione spirituale e di consapevole interiorizzazione della Parola passa attraverso la lettura di Giobbe.
[28] Ivi.
[29] Ivi.
[30] In essi tra l’altro l’autore annota in riferimento alla parafrasi: «Giobbe amava anche gli altri bambini (trasposizione dell’amore). Non dimenticava neppure gli altri. Fede che rivivremo e tutti ci ritroveremo l’un l’altro in una armonia universale»; cf. F.M. Dostoevskij, Romanzi e taccuini, a cura di E. Lo Gatto, Sansoni, Firenze 1963.
[31] L. Pareyson, «La sofferenza inutile in Dostoevskij», in Giornale di metafisica 1 (1982), 123-170, ora nella raccolta postuma Id., Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, a cura di G. Riconda e G. Vattimo, Einaudi, Torino 1995.
[32] Una risonanza che ebbe una sua particolare incidenza teoretica all’interno della corrente sempre viva dello slavofilismo, più incline alla recezione di queste problematiche, passate attraverso la lezione di Schelling. In fondo, da questo punto di vista, l’idea etico-metafisica dostoevskiana è la stessa di quella che Schelling ha svolto in alcune pagine delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, ora in Id., Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1975.
[33] Uno dei suoi biografi, Leskovec, lo definisce significativamente «il nuovo Giobbe russo dell’inizio del secolo, coinvolto dalle contraddizioni della realtà circostante e dalla rovina delle cose più care», cf. P. Leskovec, Basilio Rozanov e la sua concezione religiosa, Orientalia Christiana, Roma 1966, 8.
[34] Si veda in particolare il penetrante commento di V. Rozanov, La leggenda del grande inquisitore, a cura di N. Caprioglio, Marietti, Genova 1989.
[35] Bulgakov, «Ivan Karamazov come tipo filosofico», 83.
[36] N. Berdjaev, Schiavitù e libertà dell’uomo, Comunità, Milano 1952, 102-103.
[37] N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Roma 1945, 85; ora in Einaudi, Torino 2002.
[38] Dalle prime opere quali La filosofia della tragedia (Dostoevskij e Nietzsche), ESI, Napoli 1950, ad altri scritti fondamentali come Athenes et Jérusalem. Un essai de philosophie religieuse, Vrin, Paris 1936, fino alla più nota raccolta dal titolo Sulla bilancia di Giobbe. Peregrinazione attraverso le anime, Adelphi, Milano 1991.
[39] Šestov, Athen et Jerusalem, 456.
[40] L. Šestov, Kierkegaard et la philosophie existentielle, Vrin, Paris, 1936, 72.
[41] Šestov, Athen et Jerusalem, 390.
[42] Ivi.
[43] Šestov, Sulla bilancia di Giobbe, 211.
[44] Per un confronto che evidenzi la radicale diversità d’impostazione del problema della teodicea all’interno del contesto filosofico occidentale rimandiamo in particolare all’accurato studio di G. Moretto, Giustificazione e interrogazione. Giobbe nella filosofia, Guida, Napoli 1991; cf. inoltre S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1986.
[45] S. Frank, L’inattingibile. Verso una filosofia della religione, Jaca Book, Milano 1977, XXX.
[46] P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1974, 205.
[47] Ivi.
[48] Ivi.
[49] Ivi, 211.
[50] Su un altro versante del pensiero cristiano del Novecento, vengono in mente a questo proposito le celebri riflessioni del pastore luterano D. Bonhoeffer presenti in Resistenza e resa. Nella lettera all’amico E. Bethge del 16.7.1944, egli affermava: «Il Dio che è con noi, è il Dio che ci abbandona (...) il Dio che si lascia scacciare dal mondo, sulla croce, è un Dio impotente e debole nel mondo e soltanto così rimane con noi e ci aiuta (...) La Bibbia indirizza gli uomini all’impotenza e alla sofferenza di Dio»: D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 440.
[51] L’intensa e persuasiva argomentazione proposta dalla pensatrice francese ha il suo fulcro in questo passaggio: «Nella sventura Dio è assente, più assente di un morto, più assente della luce in un sotterraneo completamente buio. Una specie di orrore sommerge completamente l’anima. Durante questa assenza non c’è nulla da amare. La cosa terribile è che, se in queste tenebre in cui non c’è nulla da amare l’anima cessa di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva. Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, sia pure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora viene il giorno in cui Dio le si mostra e le rivela la bellezza del mondo, come avvenne a Giobbe. Ma se l’anima cessa di amare, cade, già in questo mondo, in qualcosa che assomiglia molto all’inferno» (S. Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972, 85). Molto significativamente lostarec Zosima, perno spirituale de I fratelli Karamazov, aveva infatti affermato in un punto cruciale del romanzo che «l’inferno è il tormento di non avere più niente e nessuno da amare».
[52] Per un confronto più ampio e sistematico su questo aspetto così rilevante per la comprensione della spiritualità ortodossa, ci permettiamo di rimandare al nostro studio Memoria e risurrezione in Florenskij e Bulgakov, Pazzini, Verucchio (RN) 1997.
[53] Questa concezione presente in molti pensatori russi è stata più recentemente richiamata in diversi scritti da Olivier Clément.
[54] N. Berdjaev, Dialectique existentielle, 100; 109.

Nessun commento:

Posta un commento