mercoledì 30 gennaio 2013

Sant’Antonio il grande

 
Sant'Antonio abate
Chiesa di S. Giorgio in Lemine
 
Sant’Antonio il grande

17 (30) gennaio

 
Patrono di Berbenno, Costa Volpino, Vedeseta, Cantoni d’Oneta

  

Antonio il Grande di Luciana Mortari

 
Se le date tramandate dalla tradizione sono esatte, visse più di 100 anni, dal 250-51 al 356. Era nativo di un villaggio copto; di famiglia cristiana, di cultura semplice e limitata. «Frequentava con i genitori la chiesa… era sottomesso ai genitori» (Vita Antonii, 1, 3), era un giovane molto pio. Rimase presto orfano, solo con una sorellina: «aveva 18 o 20 anni e si prendeva cura della casa e della sorella» (ibid., 2, 1). Pochi mesi dopo, sentì irresistibilmente rivolta a lui la parola del Signore al giovane ricco, che udì leggere in chiesa: «Se vuoi essere perfetto va’, vendi tutto quello che possiedi, dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi» (cf. Mt 19, 21). Per gradini successivi si diede a una vita di preghiera e penitenza, prima in casa; poi affidò la sorella «a delle vergini fedeli, che ben conosceva, perché fosse allevata nella verginità» (Vita, 3, 1), e iniziò una vita più solitaria nelle vicinanze del villaggio, seguendo l’esempio e l’insegnamento di un vecchio asceta che viveva da quelle parti. Vi erano infatti già persone che, da sole o in piccoli gruppi, consacravano tutta la loro vita al Signore nella verginità, penitenza e preghiera. Ma il fenomeno non aveva ancora raggiunto né particolari dimensioni, né l’aspetto di esodo dai luoghi abitati che si verificò sulla scia di Antonio; a buon diritto quindi egli ha avuto il titolo di padre del monachesimo. Il suo rapporto con quell’anziano, congiunto alla ricerca di qualche contatto con gli uomini amanti di Cristo, è una testimonianza viva di un punto essenziale della vita ascetica: il doversi mettere a scuola, il non poter iniziare senza maestro. Seguì poi il ritiro di Antonio più lontano dal mondo, in una delle tante tombe di una regione disseminata di sepolcri. Qui visse fino all’età di 35 anni, per inoltrarsi quindi nel deserto e insediarsi a Pispir, in un fortino semidistrutto. La sua fama diventa sempre più grande, e sempre più numerosa la gente che vuole udire da lui qualche parola. Frattanto cresce in lui il desiderio, inappagato, del martirio e di una solitudine sempre maggiore. Durante le persecuzioni di Diocleziano e Massimiano, si recò ad Alessandria sperando di essere anch’egli martirizzato, ma non avvenne così. «Serviva tuttavia i martiri nelle miniere e nelle carceri e, assistendo ai processi, con i suoi discorsi esortava appassionatamente i lottatori perché avessero più pronta buona volontà al martirio» (ibid., 46, 3). Placatasi la persecuzione, Antonio ritornò nella sua solitudine, ove «subiva ogni giorno il martirio della coscienza e lottava la lotta della fede» (ibid., 47, 1). Dato che molti lo molestavano insistentemente, si allontanò dal Nilo inoltrandosi ancor più nel deserto, in direzione del Mar Rosso, per fermarsi «in monte interiore» (ibid., 51, 1), nella parte più interna di una montagna che ancora oggi porta il nome di monte di S. Antonio, monte da cui si può vedere il Sinai. Questo fu l’ultimo luogo di soggiorno di Antonio, che egli non lasciò più se non per recarsi una seconda volta ad Alessandria, sollecitato dal vescovo Atanasio a intervenire a suo sostegno, assieme ad altri, in favore dell’ortodossia nella lotta contro gli ariani. Tornò presto nel luogo della sua solitudine ove, negli ultimi anni della sua vita, compì grandi prodigi. Previde la sua morte e ordinò ai due fedeli discepoli di seppellire il suo corpo in luogo sconosciuto a tutti, perché non avvenisse – come soleva accadere – che in eccessi di devozione i fedeli lo rubassero. I discepoli obbedirono; e analogamente a quanto è scritto del patriarca Mosè nella Bibbia (cf. Dt 34, 6), Atanasio scrive che «nessuno sa dov’è nascosto il corpo di Antonio» (Vita, 92, 2).


 
Bergamo, ex chiesa di S. Antonio in foris,
lunetta sopra l'architrave



Questi sono i dati essenziali di una vita che si sviluppa in modo organico verso una solitudine e un’immersione in Dio sempre più grandi, pur non potendo Antonio evitare un certo numero di contatti spirituali con persone che venivano a cercarlo. La Vita Antonii, scritta da Atanasio poco dopo la morte del grande eremita, ebbe subito un grandissimo successo, com’è provato dalla testimonianza di Agostino alla cui conversione contribuì fortemente (cf. Conf., VIII, 6, 14ss.), dal fatto che in breve fu tradotta in latino, copto, armeno, siriaco, arabo, etiopico e georgiano, e da numerose tracce del suo vasto influsso. Dalla Vita e da altre fonti risulta che Antonio scrisse – anzi quasi sicuramente dettò, non essendo in grado di scrivere direttamente – sette lettere ai monaci e alcune altre lettere di risposta all’imperatore, al vescovo, ad altri personaggi. Antonio conosceva soltanto il copto e aveva bisogno dell’interprete per rivolgersi a persone di lingua greca. La più antica versione greca è andata perduta, ma ne abbiamo una successiva, insieme ad altre versioni in diverse lingue, oltre a qualche frammento copto. «L’autenticità di queste lettere viene oggi unanimemente affermata» (VA, Cremaschi, p. 86, v. l’ampia bibliografia nella nota 8). In esse Antonio ribadisce la vocazione a “uscire” da tutto come Abramo e ad affaticarsi cercando il timore di Dio nella pazienza e nella quiete (I, 1, 239). Lo Spirito di conversione viene in aiuto e insegna a lottare contro l’avversario (I, 2, 240). Queste lettere sono un modello di teologia “pneumatica”; lo Spirito vi appare continuamente nella sua dinamica: «Lo Spirito gli attesta i suoi peccati affinché non vi ricada» (I, 4, 245). Davanti all’intercessione di tutti i santi, che pregavano per la guarigione della profonda ferita dell’uomo, il Padre celeste (…) disse: «Figlio dell’uomo, prepara quello che occorre per la prigionia (Ez 12, 3) e parti di tua volontà per l’esilio» (III, 2, 253). Nella biografia, Atanasio pone in bocca ad Antonio un lungo discorso, per così dire programmatico, della vita ascetica: penitenza, preghiera, lotta accanita contro i demoni compiuta soprattutto col segno della croce e col nome di Cristo; vivere giorno per giorno, non volgersi indietro alla vita passata, tener fisso lo sguardo all’eternità futura; un discorso molto più breve contro l’arianesimo; alcune dispute con filosofi pagani. Antonio appare come il tipo del cristiano formato dalla Scrittura e dall’esperienza, opposto al tipo del dotto educato nella cultura ellenistica. Com’è noto, nella Vita scritta da Atanasio occupa un posto eminente l’aspetto della lotta contro i demoni, che appaiono in tutte le fogge e sono inventori di ogni sorta di astuzie. Il quadro offerto dagli apoftegmi, che, pur non essendo moltissimi sono tuttavia estremamente ben scelti e bene accostati, è più ricco e ampio di quello che risulta dalla Vita, è più vario e completo del ritratto di altri anziani, che emerge da gruppi, numericamente anche più cospicui, di apoftegmi a loro attribuiti. Il compilatore della raccolta ha voluto evidentemente aprirla con un ritratto che si distinguesse per una particolare esemplarità e pienezza. Per fare ciò non ha avuto bisogno di aggiungere altri detti di Antonio che si trovano in altre raccolte, tanto è vasta e molteplice la gamma di questi. L’intenzione programmatica del compilatore è manifesta fin dal primo brano, che è chiaramente introduttivo, non solo della figura di Antonio, ma di tutto il mondo degli apoftegmi. Ci dipinge infatti con semplicità e forza la giornata di un monaco del deserto: giornata di solitudine, preghiera, lavoro, tentazioni. Non è possibile né elencare né riassumere le innumeri testimonianze rese ad Antonio dalla tradizione. Basti accennare a due fra le tante: l’autore di storia ecclesiastica Socrate dice che egli aveva gli occhi degli angeli, attraverso cui si vede Dio e si coglie la sua luce (HE, IV, 25); nel Commento al Vangelo di Matteo, Giovanni Crisostomo inserisce una grande lode di Antonio: «Si consideri il grande e beato Antonio, cui va ancora oggi l’ammirazione di tutto il mondo e che, nato in Egitto, è divenuto quasi uguale agli apostoli. Ricordiamoci che quest’uomo santo è nato nella terra dei faraoni, senza che da questi gli derivasse alcun danno. Anzi, egli è stato ben degno della visione divina e la sua vita non è stata altro che l’esatta manifestazione di quanto Gesù Cristo aveva comandato. Coloro che leggeranno attentamente il libro che riporta la storia della sua vita, riconosceranno ciò che ora io dico e si renderanno conto, da molte circostanze, che egli ha avuto anche il dono della profezia… leggete il libro della sua vita… questa lettura istillerà in voi grande virtù» (VIII, 5).

 

Da: L. MORTARI (edd), Vita e detti dei padri del deserto, Città Nuova, Roma, 1997, 77-81.

 

Le reliquie

Nel 561 le sue reliquie vennero traslate ad Alessandria d’Egitto, presso la chiesa di San Giovanni. Verso il 635, in seguito all’occupazione araba dell’Egitto, furono spostate a Costantinopoli. Nel XI secolo il nobile francese Jocelin de Chateau Neuf le ottenne in dono dall’Imperatore di Costantinopoli e le portò in Francia nel Delfinato. Nel 1070 il nobile Guigues de Didier fece costruire nel villaggio di La Motte presso Vienne una chiesa dove vennero traslate.

 

Per la tua edificazione puoi leggere:

Vita di Antonio di sant’Atanasio di Alessandria

 

Per conoscere le tradizioni legate a Sant’Antonio a Bergamo:





 

 
 

 
M. Mencaroni Zoppetti, Sant’Antonio di Vienne. Devozione e storia nell’antica contrada di Prato in Bergamo, Sestante, 2008

 

 

 

 

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