Allegoria della rovina di Achitofel
Tarsia del coro di S. Maria Maggiore a Bergamo
opera di Lorenzo Lotto
Alla tua carne soggiogasti
la tua libera dignità, anima mia.
A tuo Achitofel eleggesti l’Avversario
e docile i consigli ne seguisti.
Ma vani li rese Cristo
perché tu fossi salvata.
la tua libera dignità, anima mia.
A tuo Achitofel eleggesti l’Avversario
e docile i consigli ne seguisti.
Ma vani li rese Cristo
perché tu fossi salvata.
(Dal Grande Canone delle lacrime di S. Andrea di Creta)
GIOVEDÌ DEL GRANDE
CANONE
del protopresbitero Alexander Schmemann
È oggi molto
importante tornare all’idea e all’esperienza della Quaresima in quanto
viaggio spirituale, il cui scopo è di trasferirci da uno stato spirituale
ad un altro. All’inizio della Quaresima, come inaugurazione, troviamo il “Canone di sant’Andrea di
Creta”, il grande canone penitenziale che è come il diapason che dà il tono
all’intera melodia. Diviso in quattro parti, viene letto al Grande Apodipnon
(compieta), la sera dei primi quattro giorni di Quaresima. Lo si può
adeguatamente descrivere come una lamentazione penitenziale, che ci rivela
l’estensione e la profondità del peccato, che scuote l’anima con la
disperazione, il pentimento e la speranza. Con un’arte straordinaria,
sant’Andrea ha intrecciato i grandi temi biblici – Adamo ed Eva, il paradiso e
la caduta, Noè e il diluvio, i patriarchi, Davide, la terra promessa, e infine
Cristo e la Chiesa – con la confessione del peccato e il pentimento. Gli eventi
della storia sacra sono presentati come eventi della mia vita, le azioni
di Dio nel passato come azioni che concernono me e la mia
salvezza, la tragedia del peccato e del tradimento come mia tragedia
personale. La mia esistenza mi viene mostrata come parte della lotta gigantesca
e universale fra Dio e le potenze delle tenebre che si rivoltano contro di
lui.
Il Canone inizia
con questa nota profondamente personale: “Da dove comincerò a piangere sulle
azioni abominevoli della mia vita? Quale fondamento porrò, o Cristo, per questa
lamentazione?”.
Uno dopo l’altro,
i miei peccati vengono rivelati nel loro rapporto profondo con il dramma perenne
della relazione dell’uomo con Dio; la storia della caduta dell’uomo è la mia
storia: “Ho fatto mio il misfatto di Adamo; mi riconosco privato di Dio, del
Regno eterno e della beatitudine, a motivo dei miei
peccati...”.
Ho perduto tutti i
doni divini: “Ho macchiato la veste del mio corpo, ho oscurato l’immagine e
la somiglianza di Dio... Ho ottenebrato la bellezza della mia anima; ho lacerato
la mia prima veste intessuta per me da Creatore, ed eccomi nella
nudità...”.
Così, per quattro
sere consecutive, le nove odi del Canone mi dicono e ridicono la storia
spirituale del mondo che è anche la mia storia. Esse mi confrontano con gli
eventi e le azioni decisive del passato, il cui significato e la cui portata,
tuttavia, sono eterni, perché ogni anima umana – unica e insostituibile – passa
attraverso lo stesso dramma, si trova ad affrontare le stesse scelte
fondamentali, scopre la stessa realtà ultima. Gli esempi scritturistici sono ben
più di semplici “allegorie”, come pensano tanti, i quali trovano, perciò, questo
Canone “sovraccarico”, troppo appesantito da nomi ed episodi irrilevanti. Perché
parlare, si chiedono molti, di Caino e Abele, di Davide e Salomone, quando
sarebbe tanto più semplice dire “Ho peccato”? ciò che non comprendono, però, è
che la parola stessa peccato ha, nella tradizione biblica e cristiana, una
profondità e una densità che l’uomo “moderno” è incapace di cogliere e che fa
della sua confessione dei peccati qualcosa di molto differente dal vero
pentimento cristiano. La cultura in cui viviamo e che modella la nostra visione
del mondo esclude in effetti la nozione di peccato. Perché, se il peccato è
innanzitutto la caduta dell’uomo da un’altezza incredibilmente elevata, se è il
rigetto da parte dell’uomo della sua “alta vocazione”, ch e cosa può significare
tutto questo all’interno di una cultura che ignora e nega questa “altezza” e
questa “vocazione”, e definisce l’uomo non a partire “dall’alto”, bensì “dal
basso”? Che spazio può avere in una cultura che, anche quando non nega Dio
apertamente, è di fatto materialistica da cima a fondo e pensa la vita dell’uomo
esclusivamente in termini di beni materiali ignorandone la vocazione
trascendente? Il peccato, in tale contesto, è visto in primo luogo come una
“debolezza” naturale, dovuta di solito a un “disadattamento”, il quale, a sua
volta, ha delle radici sociali e può, quindi essere eliminato da una migliore
organizzazione sociale ed economica. Per questo, anche quando confessa i propri
peccati, l’uomo “moderno” non si pente più: in base alla comprensione che egli
ha della religione, o enumera in modo formale delle trasgressioni formali a
regole formali, oppure comunica i propri “problemi” al confessore, attendendosi
dalla religione qualche trattamento terapeutico che lo renda di nuovo felice e
ben inserito nel suo ambiente. Ma in nessuno dei due casi abbiamo il
pentimento come esperienza sconvolgente di colui che vede in se stesso
“l’immagine della gloria ineffabile” e si rende conto di averla deturpata,
tradita e rifiutata nella propria vita; come dispiacere che viene dal più
profondo della coscienza dell’uomo, come desiderio di ritornare, come un
arrendersi all’amore e alla misericordia di Dio. Questo il motivo per cui non è
sufficiente dire: “Ho peccato”. Una tale confessione prende significato ed
efficacia solo se il peccato è compreso e sperimentato in tutta la sua
profondità e tristezza.
Scopo del Grande
Canone è proprio quello di rivelarci il peccato e di condurci così al
pentimento; ed esso lo svolge non attraverso definizioni ed enumerazioni, bensì
attraverso una profonda meditazione sulla grande storia biblica, che è, in
effetti, la storia del peccato, del pentimento e del perdono. Questa meditazione
ci introduce in un mondo spirituale diverso, ci confronta con una visione
totalmente differente dell’uomo, della sua vita, delle sue mete e delle sue
motivazioni. Essa ristabilisce in noi il quadro spirituale fondamentale,
all’interno del quale ridiventa possibile il pentimento. Per esempio, quando noi
ascoltiamo: “Non ho fatto mia la giustizia di Abele, o Gesù, non ti ho
offerto un dono accettabile né un’azione divina né un sacrificio puro né una
vita immacolata...”, noi comprendiamo che la storia del primo sacrificio,
ricordato in forma così breve dalla Bibbia, rivela qualcosa di essenziale
riguardo alla nostra propria vita, riguardo all’uomo stesso. Comprendiamo che il
peccato è innanzitutto il rifiuto della vita in quanto offerta o sacrificio a
Dio o, in altri termini, il rifiuto dell’orientamento della vita a Dio; che il
peccato, quindi, è, nelle sue radici, la deviazione del nostro amore dal suo
fine ultimo. È questa rivelazione che ci permette allora di affermare qualcosa
che è profondamente rimosso dalla nostra esperienza “moderna” della vita, ma che
ora diventa “esistenzialmente” vero: “Riempiendo di vita la polvere, tu mi
hai dato carne ed ossa alitando il tuo soffio di vita. O Creatore, Redentore e
Giudice, accetta il mio pentimento...”.
Per ascoltare in
modo appropriato il Grande Canone è necessario aver indubbiamente una certa
conoscenza della Bibbia e la capacità di meditare sul significato che essa ha
per noi. Se oggi tanti trovano la Bibbia noiosa e senza interesse, è perché la
loro fede non si nutre più alla sorgente delle sante Scritture, che per i Padri
della Chiesa erano la sorgente della fede. Dobbiamo reimparare a penetrare nel
mondo qual è rivelato dalla Bibbia e a vivere in esso; e per questo non c’è via
migliore di quella della liturgia della Chiesa, che non solo ci trasmette gli
insegnamenti biblici, ma ci rivela il modo di vivere conforme alla Bibbia. Il
viaggio quaresimale comincia così con un ritorno al “punto di partenza”: il
mondo della creazione, della caduta e della redenzione; il mondo in cui tutte le
cose parlano di Dio e ne riflettono la gloria, in cui tutti gli eventi sono
riferiti a Dio, in cui l’uomo trova la vera dimensione della propria vita e, una
volta trovata, si converte.
Il giovedì della
quinta settimana, al Mattutino, udiamo ancora, ma questa volta nella sua
totalità, il Grande Canone. Se all’inizio della Quaresima esso era come una
porta aperta sul pentimento, ora, alla fine della Quaresima, esso appare come
una sintesi del pentimento e del suo compimento. Se all’inizio l’abbiamo
semplicemente ascoltato, ora – speriamo!
– le sue parole sono
diventate le nostre parole, la nostra lamentazione, la nostra speranza, il
nostro pentimento, e anche il criterio del nostro sforzo quaresimale, il metro
con cui misurare il cammino fino ad ora percorso.
da A. Schmemann, Great Lent, St.
Vladimir’s Seminary Press 1974
Dal sito: http://tradizione.oodegr.com/
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