Quinta domenica di Quaresima
di Roberto Pagani
L’ultima
domenica del percorso quaresimale si riflette in una grande meditazione che
ricapitola la condizione dell’uomo peccatore dando significato al cammino di
conversione. La principale intenzione educativa è quindi quella di concludere
la Quaresima e di guidare verso i due eventi che inaugurano il transito
pasquale, introducendo nella Settimana Santa attraverso il sabato e la domenica
seguenti: la risurrezione di Lazzaro e l’ingresso di Gesù in Gerusalemme. Ai
consueti esempi tratti sia dall’Antico che dal Nuovo Testamento, si aggiunge,
come già nella quarta domenica Giovanni Climaco, una figura singolare che,
molto probabilmente, a un cristiano di tradizione occidentale dice poco o
nulla: santa Maria Egiziaca.
Non è
possibile stabilire con certezza cosa sia storicamente fondato e cosa sia
evoluzione nella tradizione. Possiamo dire che nel VI secolo i pellegrini
veneravano, nei pressi di un monastero egiziano, la tomba di una santa donna
chiamata Maria, che aveva vissuto nel deserto in solitudine e penitenza. Nel
VII secolo il patriarca Sofronio di Gerusalemme scrisse una vita di santa Maria
Egiziaca che, pur non risalendo ad alcuna fonte storica verificabile, servì da
base a tutta la successiva letteratura. Come esempio di questa tradizione,
riportiamo la vita della santa tratta dal Sinassario del calendario liturgico
di Grottaferrata, monastero alle porte di Roma che ha celebrato nel 2004 il
millennio della propria fondazione, avvenuta per opera di san Nilo, un monaco
calabro di tradizione greca. L’origine di tale sinassario, pubblicato proprio
in occasione del millenario, sono tre manoscritti XII secolo, risalenti ad una
fonte databile tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo. “La nostra santa
madre Maria prima era peccatrice ed aveva sedotto molte anime di giovani in
Egitto, con la brama del piacere, rimanendo nel peccato per 18 anni. In seguito
si diede a Dio, attraverso le seguenti circostanze. Essendo molti andati a
Gerusalemme per venerare la preziosa Croce, vi andò anche lei e da un angelo
veniva impedita di entrare nel tempio per venerare il prezioso legno e se ne
addolorò. Dopo che si sottomise a servire Dio, le fu permesso l’ingresso.
Allora, postasi sotto la protezione della Madre di Dio, attraversò il Giordano
e nel deserto si diede all’esercizio ascetico per 47 anni, non vedendo più
nessun uomo. Ma Dio, volendola manifestare, dispose che san Zosima andasse nel
deserto, ed egli, incontratala, ricevette la sua confessione. Ritornato poi
indietro, prese la Santa Comunione e la comunicò. Ritornato da lei
successivamente, la trovò morta; scrisse su un coccio il suo nome e la
seppellì, con l’aiuto del leone che lo accompagnava”. L’icona che rappresenta
la santa ora appare sicuramente più intelligibile: la Chiesa ha voluto fare di
lei un esempio di pentimento, di conversione, di contrizione e di austerità;
ponendo la sua memoria proprio nell’ultima domenica di Quaresima, la Chiesa
rivolge un chiaro invito a ciascuno di lasciar perdere ogni altra cosa per
rivolgere la nostra vita verso l’unica cosa necessaria, per la quale si può
vivere e con la quale si può anche morire.
La pericope
evangelica domenicale è Mc 10, 32 – 45:
Mentre erano in viaggio per salire a
Gerusalemme, Gesù camminava davanti ai discepoli ed essi erano stupiti; coloro
che venivano dietro erano pieni di timore. Prendendo di nuovo in disparte i
Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: “Ecco, noi saliamo
a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli
scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno,
gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni
risusciterà”. E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo,
dicendogli: “Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”.
Egli disse loro: “Cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero:
“Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua
sinistra”. Gesù disse loro: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il
calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gli
risposero: “Lo possiamo”. E Gesù disse: “Il calice che io bevo anche voi lo
berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla
mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i
quali è stato preparato”. All’udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con
Giacomo e Giovanni. Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: “Voi sapete che
coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi
esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere
grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi
sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere
servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Ci si avvicina
sempre di più a Gerusalemme, e Gesù continua ad istruire i suoi discepoli su
ciò che li attenderà. Ci si avvicina sempre di più alla Pasqua, e noi siamo
invitati ad immedesimarci in Giacomo e Giovanni per misurare la nostra
disponibilità a seguire Gesù fino in fondo. San Giovanni Crisostomo commenta il
brano approfonditamente: “Quelli credevano di entrare nel regno senza passare
per la croce e la morte: infatti avevano ascoltato mille volte, ma certo non
avevano potuto capire chiaramente. Poiché non erano giunti ad una conoscenza
chiara ed esatta di ciò che veniva loro insegnato, ma credevano che Gesù si
incamminasse per un regno visibile, e che avrebbe regnato su Gerusalemme,
avvicinandosi a lui sul cammino e ritenendo che fosse il momento opportuno, gli
rivolgono questa domanda; infatti, separandosi dal gruppo dei discepoli, colta
l’occasione propizia, chiedono a Cristo il privilegio di sedere vicino a lui, e
di essere i primi fra gli altri; loro credevano che le cose fossero ormai
giunte al loro termine, che tutto era stabilito, e che era giunto il tempo
delle corone e dei premi. Vedi come quelli non sapevano ciò che chiedevano,
quando parlavano con lui di corone e di premi, non essendo ancora iniziate le
lotte. Gesù chiama calice e battesimo la sua croce e la sua morte: calice,
perché andò verso la croce volontariamente; battesimo, perché con la sua morte
purificava la terra intera. E non esistono altri motivi, eccettuata la facilità
con la quale risuscitò. Come colui che battezza con acqua, con tutta facilità
si alza, non essendo impedito in nulla dalla natura dell’acqua; così anche lui,
dopo essere disceso nella morte, con molta facilità risuscita: per questo
chiama quella battesimo”.
Gesù ha voluto
condividere con noi anche la tentazione del potere: durante l’esperienza del
deserto, il diavolo gli mise davanti tutti i regni della terra. Così, di fronte
alla richiesta dei due discepoli, Gesù non si scandalizza, ma prende spunto da
un evidente limite di coloro che lo avevano seguito per ribadire il suo modo
decisamente fuori dai luoghi comuni di intendere il potere. In primo luogo la
risposta di Gesù alla domanda dei due fratelli, in cui si scorgono segnali di
messianismo a buon mercato, si articola sui simboli del calice e del battesimo.
Prendendo ad esempio il libro dei Salmi, il calice è ad un tempo elemento di
giudizio (Sal 74, 9) e di salvezza (Sal 115, 13). La morte di Gesù sarà a sua
volta giudizio e salvezza: l’amaro calice dell’obbedienza diventerà il vino del
banchetto celeste. Il battesimo, nel suo significato etimologico di immersione,
ha a sua volta una valenza veterotestamentaria, come ad esempio nel Sal 68, 2-3
dove il gorgo delle acque sommerge e travolge l’uomo sofferente. E se in questo
senso è un richiamo esplicito alla morte di Gesù, dall’immersione si riemerge,
come ricordava Crisostomo, in virtù della risurrezione. C’è una seconda
dimensione della risposta di Gesù che è indirizzata a tutti i discepoli, e
quindi a ciascuno di noi: la grandezza del servizio, la fecondità del dono di
sé come esercizio del potere.
Tenendo
presente da un lato la figura di Maria Egiziaca, dall’altro quanto emerso dal
brano evangelico, possiamo affrontare l’ufficiatura liturgica della domenica,
nella quale sono intrecciati due temi che riflettono due diversi strati
evolutivi, legati uno alla conversione attraverso l’esempio della santa, il
secondo alla parabola del ricco epulone e di Lazzaro. Per facilitare la lettura
e la riflessione, isoliamo dapprima il contenuto relativo al primo dei due
temi.
Le strofe
cantate al Lucernario del Vespero ci presentano la figura di Maria Egiziaca in
relazione alla Croce: “L’abominio delle depravazioni passate che ancora ti
trascinavi, ti impediva la contemplazione delle cose sacre, ma la tua
intelligenza spirituale e la consapevolezza di quanto avevi fatto, o sapiente
in Dio, hanno operato la tua conversione al bene. Volto infatti lo sguardo ad
una icona della benedetta Madre di Dio, riconosciute tutte le tue colpe
precedenti, o degna di ogni lode, con fiducia ti sei prostrata al legno
prezioso”. La prima parte di questa strofa richiama alla memoria una bellissima
scena del film Mission di Roland
Joffè, Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1986, che racconta le missioni dei
gesuiti in Sud America. In seguito all’uccisione di un suo confratello, padre
Gabriel (Jeremy Irons) parte per una regione ancora inesplorata, non raggiunta
dalla spinta colonizzatrice né dall’opera missionaria dei gesuiti, una terra
abitata solo dai Guaranì che la difendono da qualunque intrusione. Lì avverrà
il primo incontro con il capitano Rodrigo Mendoza (Robert De Niro), feroce
mercenario al servizio del governo spagnolo, il cui cammino si incrocia
misteriosamente con quello del gesuita. Dilaniato dal rimorso per aver ucciso
il fratello infatti deciderà di seguirlo alla ricerca di riscatto, legando il
suo destino a quello della missione. Commovente la sequenza in cui Mendoza-De
Niro trascina il pesante fardello di un passato violento (fatto di spade,
corazze, pistole e fucili) da cui non vuole e non può liberarsi e il cui nodo
sarà sciolto dalle vittime della sua brutalità. Quale rappresentazione più
semplice e nello stesso tempo più efficace della colpa? Ma ritorniamo alle
strofe del Lucernario: “Venerando piena di gioia i luoghi santi, nei ha
ricevuto un viatico di virtù sommamente salutare; hai percorso con slancio il
bel cammino e, attraversato il corso del Giordano, hai scelto coraggiosamente
la dimora del Battista; hai dominato l’esuberanza della carne ammansendo con la
tua vita la selvaggia ferocia delle passioni”. La strofa che si canta al
Gloria, per certi versi è sorprendente: “La potenza della tua croce ha operato
prodigi, o Cristo, perché anche colei che era una meretrice ha combattuto la
lotta dell’ascesi: bandita la debolezza della natura, ha nobilmente resistito
al diavolo. Avendo ricevuto il trofeo della vittoria, ora intercede per le
nostre anime”.
Bergamo, Basilica di Santa Maria Maggiore,
Santa Maria Egiziaca penitente nel deserto di A. Fantoni
Invece che
limitarsi a considerazioni moraleggianti, il canone della santa che si canta al
Mattutino riesce a dare una profonda lettura teologica ed antropologica. Nella
prima ode infatti cantiamo: “Ignorando, o somigliantissima, i divini decreti,
hai deturpato l’immagine divina di Dio; ma per divina provvidenza l’hai di
nuovo purificata, o degna di ogni lode, poiché sei stata deificata, o santa,
per le tue divine azioni”. Nella terza ode l’accento si sposta sulla dinamica
passione-morte-risurrezione: “a te, che con le tue malvagie azioni ti eri
avvicinata alle porte della perdizione, colui che ha infranto le porte dell’ade
con la forza della divinità apre ora le porte del pentimento, o
generabilissima, egli che è la porta della vita”. “Colui che aveva già sparso
il suo sangue in riscatto per tutti e che a tutti dona l’essere, ti rende pura
col lavacro delle lacrime, affetta come eri dalla tremenda lebbra di un pessimo
agire”. Prosegue la quarta ode: “Cercando di vedere la croce, dalla luce della
croce sei stata rischiarata, o Maria, al divino cenno di colui che vi fu
confitto, e sei stata crocifissa al mondo, o degna di ammirazione”. Nella
quinta ode c’è una sottolineatura del tema del corpo come tempio: “Colei che ha
contaminato il tuo tempio desidera contemplare, come dice il salmo, il decoro
del tuo tempio e la spirituale dimora della tua gloria, per l’intercessione
spirituale, o Cristo, di colei che, ignara d’uomo, è divenuta tuo tempio,
rendimi tempio dello Spirito che tutto crea”. Nella sesta ode: “Le schiere
degli angeli si rallegrano vedendo in te una vita divina simile alla loro”,
mentre “le folle dei demoni tenebrosi tremano davanti alla costanza della tua
forza, perché tu, una donna sola e nuda, li ha prodigiosamente svergognati”. Il
kontàkion che si canta dopo la sesta ode sintetizza mirabilmente i vari
elementi: “Colei che un tempo era dedita al vizio ed alle passioni, oggi
diviene una Sposa di Cristo grazie al pentimento, desidera la vita degli angeli
e sconfigge i demoni con l’arma della croce, divenendo così la sposa del Re”.
Nella settima ode viene presentato un dialogo tra Zosima e Maria: “perché, o
padre, sei venuto a vedere una povera donna, estranea ad ogni virtù?” “hai
mortificato, o beata, i moti delle tue passioni, e sei approdata al porto
dell’impassibilità”.
Nell’esapostilario
che si canta tra la fine del canone e le lodi, è spiegato il senso della
memoria di Maria: “poiché tu sei per noi modello di pentimento, supplica il
Cristo che ce lo doni”.
Codex Aureus Epternacensis, Parabola del ricco epulone
Il canone
dedicato a Lazzaro e al ricco epulone tende ad assimilare ciascuno di noi, come
soggetto liturgico, a quest’ultimo: “sono simile al ricco che ogni giorno si
dilettava nell’abbondanza dei suoi piaceri”. Non dobbiamo intendere la parabola
solo in senso pauperistico, come subito saremmo tentati di fare, perché “sono
ricco di passioni e di piaceri, ma povero per la mancanza di virtù”. Infatti
“la porpora e la seta rivestite dal ricco rappresentano i piaceri e il
peccato”, fino a constatare che “i cani ebbero verso il povero più cuore del
ricco, dato che ebbero compassione di Lazzaro leccandone le piaghe”. Si ritorna
alla spiegazione esortativa della parabola, perché “il ricco sperperò tutta la
sua vita nel lusso e la menzogna dei piaceri, e in questo senso sono ricco come
lui, ma ti prego di risparmiarmi dal fuoco, nella tua immensa bontà”. Se
fossimo onesti con noi stessi, non potremmo che pronunciare una sentenza di
auto-condanna: “Ho prosperato nei piaceri come il ricco, rivestito ogni giorno
di porpora; Dio misericordioso, anch’io mi condanno per la mollezza della mia
vita”. Per fortuna possiamo contare sulla misericordia divina: “ho disprezzato
i tuoi precetti come il ricco senza pietà, o Signore, e sono disteso
miseramente davanti alla tua porta; ma nel tuo amore e nella tua compassione
rialzami dalla fossa, come il tuo amico Lazzaro”. Così uno degli ultimi tropari
del canone rieccheggia un tema emerso all’inizio del percorso, nella domenica
del fariseo e del pubblicano: “noi conosciamo la parabola del Signore:
detestiamo la mancanza di cuore del ricco, per evitarne lo stesso castigo;
allora noi godremo di una gioia senza fine nel seno di Abramo”.
I temi del
canone sono ripresi nel Vespero della domenica, dove al Lucernario cantiamo:
“da ricco che eri, o Cristo, sei divenuto povero per arricchire i mortali con
il tesoro della tua luce immortale; concedi l’abbondanza delle virtù a me,
impoverito dai piaceri di questa vita, ponimi con il povero Lazzaro,
risparmiami il castigo del ricco che le mie azioni meriterebbero”. “Il Signore,
dimostrando la sua benevolente disposizione nei nostri confronti, ci espone la
vita di Lazzaro e del ricco malvagio; considerando la fine di ciascuno,
eviteremo l’egoismo e la durezza di cuore del secondo, per imitare la forza e
la sopportazione del primo”.
Possiamo ora
incamminarci verso l’altro Lazzaro, quello storico, che verrà celebrato al
termine della settimana: “cominciando con ardore la sesta settimana della santa
Quaresima, cantiamo al Signore, o fedeli, un cantico di lode per la vigilia
delle Palme, poiché egli viene nella gloria e la potenza della sua divinità;
avanza verso Gerusalemme per sconfiggere la morte: prepariamo dunque i simboli
della vittoria, i rami delle nostre virtù, per gridare Osanna al Creatore
dell’universo”.
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