Quarta domenica di Quaresima
di Roberto Pagani
La quarta
domenica della Grande Quaresima è incentrata su san Giovanni Climaco, monaco
delle cui origini si hanno scarse notizie, vissuto nella prima metà del VII
secolo e divenuto egumeno del famoso monastero del Sinai dedicato a santa
Caterina. Più che sulla figura di Giovanni, il tema quaresimale è incentrato
sui contenuti dell’opera più famosa di Giovanni, la Scala del Paradiso, che,
scritta in greco, fu da subito tradotta in latino, siriaco, armeno, arabo e
slavo.
La pericope
evangelica domenicale è Mc 9, 17 – 31:
Uno della folla disse a Gesù: “Maestro, ho
portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. Quando lo afferra, lo
getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai
tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”. Egli allora in
risposta, disse loro: “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi?
Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”. E glielo portarono. Alla
vista di Gesù lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a
terra, si rotolava spumando. Gesù interrogò il padre: “Da quanto tempo gli
accade questo?”. Ed egli rispose: “Dall’infanzia; anzi, spesso lo ha buttato
persino nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi
pietà di noi e aiutaci”. Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi
crede”. Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: “Credo, aiutami nella mia
incredulità”. Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito
immondo dicendo: “Spirito muto e sordo, io te l’ordino, esci da lui e non vi
rientrare più”. E gridando e scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo
diventò come morto, sicché molti dicevano: “È morto”. Ma Gesù, presolo per
mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi. Entrò poi in una casa e i discepoli
gli chiesero in privato: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?”. Ed egli
disse loro: “Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non
con la preghiera”. Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva
che alcuno lo sapesse. Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: “Il
Figlio dell’uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo
uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà”.
Gesù continua
ad istruire i suoi discepoli: stanno attraversando la Galilea in direzione di
Gerusalemme, e il viaggio non è soltanto uno spostarsi da un luogo all’altro,
ma è teso verso il compimento della Pasqua. È sempre l’immagine biblica del
Figlio dell’uomo quella che Gesù usa per parlare di sé e della sua missione,
nella duplice accezione di mitezza e di gloria. Ma i discepoli non sono ancora
in grado di capire il senso pieno e la portata di quanto Gesù sta dicendo. Così
anche noi, dopo aver sostato all’ombra della Croce, dopo averla venerata
durante tutti gli uffici celebrati nella settimana appena trascorsa, siamo
chiamati a riflettere sui limiti della nostra fede. La nostra incredulità
permane, non siamo in grado di essere segno nel mondo della potenza del Cristo
che ha vinto la morte, l’opacità del nostro essere non riflette adeguatamente
la luce divina. Può essere utile continuare questa considerazione attraverso
una particolarità liturgica interessante. A partire dalla quarta settimana, le
rubriche della liturgia dei presantificati, ufficio vesperale dei giorni di
digiuno in cui viene distribuita la comunione consacrata nella liturgia
domenicale precedente, prevedono una litania specificatamente rivolta agli
illuminandi, ovvero a coloro che nella notte di Pasqua riceveranno la santa
Illuminazione, i sacramenti dell’iniziazione cristiana, cioè battesimo, cresima
ed eucaristia. Dopo aver congedato i catecumeni al termine dell’ufficio
vesperale, e prima dell’ufficio di comunione, il diacono invita “coloro che
sono stati ammessi al battesimo ad avvicinarsi”. E prosegue, mentre i presenti
rispondo ad ogni invocazione con il Kyrie, elèison: “Voi che riceverete
l’illuminazione, pregate il Signore”, “Fedeli, preghiamo il Signore per i
nostri fratelli che si preparano alla santa illuminazione e per la loro
salvezza, affinché il Signore nostro Dio li confermi e li fortifichi, li
illumini con la luce della conoscenza e della fede, li renda degni nel tempo
propizio del Lavacro di rigenerazione, della remissione dei peccati e della
veste incorruttibile, li rigeneri per mezzo dell’Acqua e dello Spirito, doni
loro la pienezza della fede, li annoveri nel suo gregge santo ed eletto”. Nel
frattempo il Sacerdote recita questa preghiera: “Signore, mostra il tuo volto a
coloro che si preparano alla santa Illuminazione battesimale e desiderano
scuotersi di dosso la macchia del peccato. Rischiara, la loro mente, confermali
nella fede, fortificali nella speranza, rendili perfetti nell’amore, e membra
degne del tuo Cristo che ha donato se stesso in riscatto per le nostre anime,
poiché tu sei la loro Illuminazione, e noi ti rendiamo gloria, Padre, Figlio e
Spirito Santo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli”.
Il richiamo
che questa litania esercita su ciascun cristiano potrebbe essere forse
sufficiente per far sì che il Signore, guardando alla nostra vita, non debba
risottolineare la nostra incredulità, non debba costatare che il suo stare con
noi è per lui una perdita di tempo, non debba sopportarci. La risposta del
padre del fanciullo: “Credo, aiutami nella mia incredulità”, è il paradigma
antinomico della nostra condizione. Non siamo come all’inizio del cammino,
questo no, ma la mèta è ancora lontana, la nostra fede, come dice san Giovanni
Crisostomo, è ancora molto debole, perché tutto è possibile per chi crede. È
troppo più comodo delegare al Cristo l’intervento onnipotente e risolutore (Se
tu puoi qualcosa), ma anche in questa condizione Gesù richiede il
coinvolgimento totale della nostra libertà. Sant’Agostino ci dice che “se manca
la fede, la preghiera è impossibile. Chi mai prega ciò che non crede? Per
pregare dobbiamo dunque credere e, perché non venga meno la fede con cui
preghiamo, dobbiamo pregare. La fede fa sgorgare la preghiera, la preghiera
sgorgata ottiene la stabilità della fede”. Preghiera e fede sono due atti
intrinsecamente congiunti. Nelle sue conferenze ai monaci, san Giovanni
Cassiano, commentando la richiesta del padre del ragazzo epilettico, dice:
“ecco un altro che, avvertendo in se stesso il medesimo rischio e vedendo in un
certo qual modo che la sua fede, tra i flutti dell’infedeltà, stava per
infrangersi contro gli scogli di un funesto naufragio, si rivolge al Signore
chiedendo il suo aiuto in soccorso alla propria fede. Questi uomini del
Vangelo, e anche quelli chiamati apostoli, erano persuasi a tal punto che tutto
il bene si compie unicamente con l’aiuto del Signore e che neppure la fede
stessa, se si presume di potersi fidare solo delle proprie forze e della
libertà del proprio arbitrio, avrebbero potuto conservarla, da domandare essi
stessi al Signore che in loro essa fosse preservata o addirittura tutta
donata”. Ai discepoli increduli e, forse, delusi della loro impotenza, Gesù
sottolinea che con la preghiera si scacciano anche i demoni che ci possiedono,
e proprio quando la tentazione si fa più forte, più alto deve salire il grido
del nostro cuore. Nel passo parallelo di Matteo (Mt 17, 21), oltre alla
preghiera Gesù cita anche il digiuno come potente arma per la battaglia.
Tertulliano, nel suo discorso sul digiuno, afferma: “Gesù insegnò che il
digiuno è l’arma migliore per combattere la peggiore specie di demoni. Cosa c’è
di strano se con la medesima operazione con la quale si fa entrare lo Spirito
Santo, si fa uscire lo spirito iniquo?”.
Preghiera e
digiuno ci riconducono direttamente al tema dell’ufficiatura. La scala del
Paradiso si presta a diversi piani di lettura. Nel suo senso letterale, la
scala era quella scavata nella roccia del Sinai, che già dal IV secolo
ricordava ai cristiani del tempo l’esperienza biblica dell’Esodo e l’ascensione
di Mosè sul monte. San Giovanni vedeva nella scala di trenta gradini i trenta
anni della vita di Gesù che hanno preceduto la sua vita pubblica, quelli della
crescita e della maturazione di Gesù in vista della sua missione, scala sulla
quale si incamminano i monaci desiderosi di raggiungere Cristo e, passo dopo
passo, in una progressiva purificazione, giungono alla mistica unione.
Se si avvicina
l’opera del Climaco con un interesse filosofico-religioso o semplicemente
teologico la si può forse apprezzare come trattato sistematico di spiritualità.
Ma il padre Placide Deseille, a differenza di altri, ci tiene a precisare:
“Giovanni è un monaco che ha fatto esperienza del fine della vita spirituale:
le deificazione dell’uomo per la luce increata e la via che vi conduce. È
questa via che egli traccia, in modo essenzialmente pratico. L’unico mezzo per
acquisirne una vera intelligenza, è quello del coinvolgimento personale. La
Scala non è un trattato di ascetica né un codice di morale. Vuole soprattutto
indicare, con molteplici annotazioni che non pretendono di avere un carattere
normativo, il senso e la direzione della cooperazione della libertà umana
all’opera di crocifissione della nostra individualità non trasfigurata, e della
trasfigurazione del nostro intero essere nella luce della risurrezione, opera
che non può realizzarsi se non sotto l’azione della grazia divina”. Da un punto
di vista biblico, l’immagine della scala risale a Giacobbe, che nel sogno
descritto in Gn 28, 10-17 “vide una scala che appoggiava sulla terra e la sua
cima raggiungeva il cielo, e gli angeli di Dio salivano e scendevano su di
essa, mentre il Signore vi si appoggiava”. A partire da qui i Padri poterono
associare alla Madre di Dio l’immagine della scala. I monaci, che hanno
rivestito l’abito angelico, salgono sulla scala verso Dio, mentre i dèmoni
cercano di far perdere loro l’equilibrio per farli precipitare negli inferi. È
quindi più che suggestivo, oltre che teologicamente ben fondato, trovare nella
nuova chiesa del monastero femminile di Santo Stefano alle Meteore le icone di
Gesù e di Maria a destra e a sinistra della porta che dal nartece introduce
alla navata: sotto la Madre di Dio è dipinta la scala di Giacobbe, mentre sotto
il Cristo è raffigura la scala del paradiso di Giovanni Climaco.
Così nelle
strofe del Lucernario del Vespero Giovanni è cantato “poiché avevi levato in
volo l’intelletto verso Dio, tramite la fede, hai detestato l’inquieta
confusione mondana e, presa la tua croce, hai seguito colui che tutto vede,
assoggettando alla ragione, per la forza del divino Spirito, il corpo
riluttante alle regole dell’ascesi”. E più avanti: “Udita la voce del vangelo
del Signore, hai abbandonato il mondo, la ricchezza e la gloria, senza far
conto di nulla; perciò gridavi a tutti: Amate Dio, e troverete eterna grazia;
non anteponete nulla al suo amore, affinché quando verrà nella sua gloria,
possiate trovare riposo insieme a tutti i santi”.
Nel mattutino,
oltre al canone risurrezionale proprio del tono, sono presenti due canoni: il
primo è incentrato sulla parabola del buon samaritano, il secondo è in onore di
Giovanni Climaco, definito il somigliante in quanto, come tutti gli asceti,
hanno portato a termine con successo la riacquisizione della somiglianza divina
persa con il peccato.
Affrontiamo
dapprima il canone in onore del santo, composto secondo il Triodion greco da un
non meglio identificato Ignazio, associabile forse al Patriarca di
Costantinopoli morto attorno all’870. Possiamo assaporarne alcuni frammenti
ricollegandoli ai temi già emersi qui e in tutto il percorso di preparazione
alla Pasqua che ci ha preceduto. “Avendo succhiato il dolce latte della
continenza, respingesti l’amarezza della voluttà”. “Hai bruciato col carbone
ardente dell’ascesi le spine delle passioni”. “Esercitandoti nelle norme
dell’ascesi hai sommerso le passioni come altrettanti faraoni nei flutti delle
tue lacrime”. “Tutto risplendente delle virtù che portano al cielo, fermamente
consolidato sei piamente asceso all’immenso abisso della contemplazione, e
poiché hai esposto al ludibrio tutte le insidie dei demoni, proteggi gli uomini
dalle loro vessazioni, o Giovanni, scala di virtù”. “Piantato presso le acque
della continenza, sei apparso o padre somigliantissimo come rigoglioso tralcio
che produce grappoli di pietà”. “Spente tutte le passioni con la rugiada delle
tue lotte, o padre somigliantissimo, ti sei magnificamente acceso col fuoco
dell’amore e della fede: sei divenuto lampada di continenza, luce di impassibilità
e figlio del giorno”. “Sei entrato nel celeste banchetto nuziale del Cristo Re
indossando una veste degna di chi ti invitava, e lì ti sei posto a mensa”. E
quest’ultimo tropario della nona ode ci riconduce al tema del brano di Marco:
“Da Dio sei stato fatto medico di quanti soffrono per le colpe, capace di
scacciare e perseguitare gli spiriti maligni, o somigliantissimo”.
Forse può
essere casuale, ma è sicuramente interessante rapportare il tema dell’altro
canone, quello del buon samaritano, al tema della scala. Gesù inizia il suo
racconto dicendo “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. Il fatto che
questa strada, scendendo per diversi chilometri nel deserto di Giudea verso la
depressione del Mar Morto, non molto lontano da Gerico, allora fosse infestata
da briganti così come oggi è abitata da rarissimi beduini, ci interessa molto
meno dell’interpretazione che ne da la liturgia, in piena fedeltà ai Padri
della Chiesa. Gesù era partito da Gerico per la salita a Gerusalemme, l’ultima
tappa, così come il nostro cammino di preparazione alla Pasqua era partito
dall’episodio di Zaccheo, ambientato appunto a Gerico. Si può dire che questa
città rappresenti ad un tempo perdizione e salvezza: la prima per chi vi
discende, la seconda mediante la salita, da Gesù a Zaccheo, dai monaci del
Sinai a ciascuno di noi che ripercorre quotidianamente la strada nella sua
sequela personale al Cristo verso la Gerusalemme celeste.
Mègara, monastero di san Giovanni il Precursore,
affresco della parabola del buon samaritano
Si sa che per
tutti i padri che hanno commentato la parabola (Ireneo, Clemente, Origene, Severo
di Antiochia e molti altri), il buon Samaritano rappresenta il Salvatore,
l’uomo aggredito è il genere umano, i briganti rappresentano i demoni, il furto
e le ferite sono i nostri peccati, l’albergatore è una allegoria della Chiesa.
Troviamo questi temi percorrendo le odi del canone. “O Cristo, sono simile al
viandante caduto nelle mani dei briganti e quasi morto sotto i loro colpi,
perché sono vittima dei miei peccati”. “Non disprezzare la mia debolezza, o Dio
Salvatore, ascoltando il mio grido e i miei gemiti: ho consegnato la tua
ricchezza ai briganti”. “Tu, o Cristo Salvatore, hai curato la mia anima ferita
dal peccato e dai pensieri malvagi”. “Cristo Salvatore, mi sono lasciato
spogliare dalle mie passioni, e la voluttà mi ha inferto i suoi colpi: effondi
su di me il balsamo del tuo amore”. “Spogliandomi, i briganti mi hanno tolto
l’impronta dell’opera divina, e mi hanno abbandonato mezzo morto sotto i loro
colpi”. “Il levita, vedendomi tutto piagato, senza far caso alle mie ferite, ha
proseguito il suo cammino, ma tu, o Salvatore, fermati per salvarmi”. “Poni il
tuo sguardo sulle ferite della mia anima, come facesti per il viandante caduto
nelle mani dei briganti, e guarisci il mio dolore, te ne prego”. “La mia anima
soffre, tutta indolenzita dai colpi con cui i miei peccati l’hanno flagellata;
eccomi giacente e privo di virtù”. “Il sacerdote e il levita proseguono il loro
cammino, non avendo avuto il coraggio di soccorrermi”. “Vedendo la mia pena, il
levita se ne è andato per evitare di macchiarsi con le mie piaghe, ma tu, o
Signore amico degli uomini, mi hai versato l’olio della tua ricca
misericordia”. “Sotto le rapine dei miei pensieri e i colpi dei miei peccati,
la mia vita svanisce, ed eccomi privato della tua divina immagine, o
Salvatore”. “Tu venisti dal cielo sulla terra, o mio Salvatore, e davanti alle
ferite che mi ricoprivano, poiché avevo subito l’assalto dei miei peccati, hai
versato il balsamo della tua compassione sulle mie piaghe, o Cristo salvatore”.
“Tu, o Dio e Salvatore, hai dato il tuo corpo e la tua anima per riscattarmi,
per salvarmi, ferito come ero dai miei peccati, senza altra speranza di
guarigione che la tua bontà, o Signore”. “Signore, non ho osservato i tuoi
precetti, ma ho seguito di mia volontà le inclinazioni delle passioni e della
voluttà”. “Non sono stati il sacerdote o il levita a lavare le mie piaghe, ma
tu, o Dio di bontà: nella tua compassione, sei venuto verso di me, su di me hai
versato l’olio del tuo amore e come un saggio medico mi hai curato per
guarirmi, o Salvatore”. “O Cristo, pieno di tenerezza, nella tua ardente
compassione mi hai salvato quando soffrivo, lacerato dai colpi dei briganti, e
come il buon Samaritano versò due denari, tu hai dato il tuo corpo e il tuo
sangue per riscattarmi”.
Non resta che
concludere facendo riferimento ad un altro affresco, sempre in un monastero
femminile greco, quello di san Giovanni il Precursore a Mègara, non lontano da
Atene. Due monache iconografe hanno dipinto nel loro refettorio la parabola del
Samaritano: che commozione nel vedere non solo che il Samaritano ha il volto di
Cristo, ma anche il viandante ferito ha il volto di Cristo, perché anche noi
possiamo vedere il volto di Cristo nel nostro fratello sofferente che la divina
economia fa trovare sulla nostra strada, in modo da essere noi stessi Cristo
per il nostro prossimo, e gli albergatori che accolgono il samaritano e il
viandante, entrambi sempre con il medesimo volto di Cristo, altri non sono che
i santi Pietro e Paolo sulla soglia della Chiesa, luogo della nostra salvezza.
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