La questione dell’Esicasmo
La preghiera
di Gesù era legata ad un metodo che si era sviluppato e definito gradualmente
nel corso dei secoli. Sembra che la sua pratica fosse divenuta, presso molti
monaci, un po’ meccanica e formale. È intorno a tale questione e alla dottrina
della visione della luce increata che si scatenò l’accesa polemica tra Barlaam
di Seminara, detto il Calabrese (m. 1348) e san Gregorio Palamas, monaco
dell’Athos (1296-1359).
Barlaam,
originario della Calabria, si stabilì a Costantinopoli verso il 1330. I suoi
meriti di uomo erudito e di filosofo gli conferirono presto una solida
reputazione. Giunto dall’Italia, dove cominciava ad affermarsi lo spirito
rinascimentale, egli aveva coltivato la propria formazione intellettuale negli
ambienti umanistici aperti alla scuola tomista. Negli scritti dello pseudo
Dionigi l’Areopagita, che lo interessavano in particolare per l’apofatismo,
cioè per la tendenza a dire di Dio ciò che non è piuttosto che ciò che è, egli
trovò una base metafisica per la sua riflessione sull’inconoscibilità di Dio.
Gregorio
Palamas si levò contro tale posizione e contro l’agnosticismo di Barlaam,
inviandogli alcune lettere. Barlaam, messo in difficoltà dall’avversario,
cominciò a frequentare alcuni monaci esicasti.
La sua
sensibilità umanistica e neoplatonica fu vivamente urtata dalle loro pratiche.
Li accusò apertamente definendoli omphalo’psychoi,
perché si concentravano sul loro ombelico, e nella loro pratica della preghiera
costante gli parve di riconoscere una prova di messalianismo. Egli sapeva che i
messaliani («coloro che pregano», in siriaco) o euchiti (lo stesso senso in
greco) hanno dato vita a un’eresia condannata al concilio di Efeso del 431.
Essi avrebbero insegnato che Satana e lo Spirito Santo coabitano nell’anima del
battezzato. Il battesimo è infatti inefficace contro il Maligno, solo la
preghiera riesce a cacciarlo con potenza quasi magica.
Credeva così
di averli smascherati: gli esicasti erano degli eretici. Per completare il
quadro della loro eresia, aggiunse che essi pretendevano di vedere la luce
divina. La polemica era innescata. Secondo la visione messaliana, nonostante il
battesimo l’anima è abitata dal demonio, che va sconfitto ed eliminato. Per
riuscirvi, arma di combattimento spirituale è la preghiera costante, dotata di
virtù apotropaiche, cioè efficaci contro gli influssi del Maligno. Sforzo
puramente umano, che procura la grazia ma è indipendente dall’intervento
divino, la preghiera diviene un mezzo infallibile e automatico che esclude ogni
altra attività. D’altra parte, così come il male è sperimentato in modo
sensibile, la presenza dello Spirito Santo infuso nell’anima è percepita
fisicamente e viene accompagnata da fenomeni luminosi, da estasi ecc.
Gregorio
stesso, postosi a difesa degli esicasti, non negò i malintesi o le
approssimazioni che potevano indurre i monaci in grossolani errori e pericolose
confusioni. E ammise che Niceforo aveva composto la sua opera «in modo semplice
e senza approfondire». Per contro, un’altra opera fu al centro del dibattito:
il Metodo, erroneamente attribuita a
san Simeone il Nuovo Teologo. In questo testo lo pseudo Simeone invita i suoi
lettori ad appoggiare il mento sul petto e a dirigere lo sguardo e al tempo
stesso il pensiero verso il centro del ventre, sull’ombelico. Trattenuto il
respiro, l’esicasta deve, secondo l’autore, scrutare mentalmente l’interno
delle proprie viscere per trovarvi la sede del cuore. Allora, dopo aver
conosciuto la propria oscurità, lo spirito può, se l’esercizio viene ripetuto
giorno e notte, vedere sé Stesso completamente inondato di luce.
Il metodo
appare così semplice, basta fare uno sforzo di volontà per attenersi ad esso
fino a quando mostra la sua efficacia... La pretesa di vedere la luce divina
increata con gli occhi del corpo era per Barlaam motivo di scandalo: «dottrine
assurde [...] prodotti di una fallace credenza e di un’immaginazione
sconsiderata» (Lettera V a Ignazio).
L’opinione
pubblica si appassionò alla questione dell’esicasmo. Mentre l’Impero Bizantino
dava sempre più gravi segni del proprio declino, ci si abbandonava al gusto
della polemica e ci si schierava a favore o contro la possibilità di vedere la
«luce taborica».
La disputa
dottrinale scosse la Chiesa greca, e ambizioni politiche e intrighi di palazzo
vi si mescolarono. Nel 1341 si riunì un concilio in Santa Sofia sotto la
direzione del basileus Andronico III.
Quest’ultimo dichiarò che soltanto i vescovi potevano deliberare sui dogmi, e
costrinse Barlaam a porgere le proprie scuse ai monaci che aveva criticato.
Sconfitto, Barlaam tornò in Occidente e morì in Italia, vescovo di Gerace. La
polemica non era conclusa e alcuni umanisti bizantini che condividevano le
posizioni del filosofo calabrese continuarono ad opporsi a Gregorio Palamas.
Dopo la morte
di Andronico III, Gregorio venne sospettato di aver appoggiato il colpo di
stato del reggente Giovanni VI Cantacuzèno. Guerra civile, peste nera
proveniente dall’Asia centrale (1348), minacce ottomane e controversie
religiose turbarono il regno di Giovanni VI. Gregorio Akyndinos, vecchio
discepolo di Gregorio Palamas, criticò alcune affermazioni del maestro, il
quale fu condannato da un concilio presieduto dal vescovo di Costantinopoli, il
patriarca Giovanni Calecas.
Entrato in
Costantinopoli, Giovanni Cantacuzeno fece deporre Giovanni Calecas e,
favorevole a Gregorio, convocò un concilio nel quale vennero condannati gli
avversari del monaco esicasta. Gregorio Palamas venne consacrato arcivescovo di
Tessalonica. Si succedettero diversi vescovi «palamiti » e fu grazie ai loro
sforzi che Gregorio, morto il 14 novembre 1359, venne canonizzato nel 1368.
L’adozione
delle formule di san Gregorio Palamas confermò lo scisma tra la Chiesa greca e
quella di Roma.
L’opera di san Gregorio Palamas
Per ribattere
alle critiche di Barlaam era necessario correggere alcuni precetti del metodo
esicastico e soprattutto dimostrare che la posta in gioco interna al dibattito
era di stampo prettamente teologico, essenziale per la comprensione delle
conseguenze dell’incarnazione del Figlio di Dio. Fu Gregorio Palamas l’autore
di questa fondamentale riflessione. Dal suo eremo di San Saba, nei pressi della
Grande Laura nella penisola athonita, egli reagì agli attacchi di Barlaam
redigendo le sue Triadi in difesa dei
santi esicasti.
Difesa del metodo psicosomatico
Palamas non
nega gli equivoci. Quel che preme non perdere di vista è, secondo lui, il
coinvolgimento del corpo nella preghiera. Tale principio si basa sulla pratica
sacramentale e sulla considerazione che la salvezza in Cristo riguarda l’uomo
nella sua totalità di corpo, anima e spirito. Dal battesimo e dall’eucarestia
«dipende tutta la nostra salvezza, poiché in essi si trova interamente
riassunta l’economia divino-umana» (Omelia
LXII).
L’individuo
trova espressione nel corpo e la dualità di corpo e anima, che tanto ha segnato
il pensiero occidentale, non è né biblica né cristiana. Il cristianesimo è la
religione dell’incarnazione, la vita in Cristo non può venire disincarnata.
L’assunzione della natura corporea da parte del Verbo implica per l’uomo un
destino superiore a quello degli esseri incorporei, gli angeli. Che il corpo
possa partecipare alla preghiera costituisce una necessità, perché l’uomo è un
tutto votato obbligatoriamente ad essere riunificato.
Difesa della visione della luce divina
Attraverso la
visione è dato all’uomo di entrare in comunione con Dio. La teofania (theòs: Dio; phainein: apparire) che ebbe luogo con la trasfigurazione di Gesù
sul monte Tabor significò la manifestazione dell’umanità deificata e circonfusa
di luce divina increata. Quando gli apostoli videro Gesù splendente di gloria,
non videro altro che il Dio-Uomo, l’uomo deificato. Il loro sguardo, esso
stesso trasfigurato, era sommamente penetrante.
«Nessuno, uomo
o angelo che sia, ha veduto Dio né mai lo vedrà, poiché non vede che attraverso
i propri sensi e la propria mente [...]. Al contrario, come potrebbe, colui che
è divenuto Spirito e vede in Spirito, non contemplare ciò che è simile alla
forma della sua contemplazione [...]? Nella visione spirituale, tuttavia, la
luce trascendente di Dio non appare che ancor più nascosta» (Triadi, Il, 3, 31).
Verso la deificazione
Secondo la
bella espressione di sant’Atanasio di Alessandria (295-373), «Dio si è fatto uomo perché l’uomo possa divenire Dio».
La deificazione (théòsis) rappresenta
il nostro giusto destino. La struttura teologica che sta alla base della
dottrina di Palamas sulla deificazione è quella elaborata dai concili di
Calcedonia (451) e di Costantinopoli (680-681). L’interpretazione simbolica
della théosis viene rifiutata: «Quando avrai nella tua anima lo stato divino,
allora veramente possederai Dio dentro di te. Il vero stato divino è l’amore
per Dio, e si afferma solo attraverso la pratica dei suoi comandamenti».
Palamas si pone sulla linea dei padri, in particolare di Massimo il Confessore
(580-662) e di Giovanni Damasceno (?-750 ca.).
La dottrina patristica della deificazione viene in genere definita nei termini
di visione di luce, in accordo con il grande tema giovanneo del prologo, ma
anche con riferimenti al neoplatonismo. Su questo punto Palamas si trovava
costretto a difendersi dall’accusa di messalianismo.
Al fine di
eliminare ogni ambiguità e di rendere chiara la propria opposizione all’errore
dei messaliani, Palamas distingue l’essenza divina dalle sue operazioni (enérgeia). Tale posizione dottrinale è
importantissima. Distinguere senza separare, poiché in Dio non è data alcuna
dualità. L’essenza divina, sempre trascendente, è «causa» o «origine» delle
operazioni, dato che Dio resta trascendente alla sua propria rivelazione e tali
operazioni o energie rendono partecipi le creature della vita divina.
Le proprietà
costituiscono il modo in cui la natura divina palesa la sua esistenza pur
rimanendo trascendente. Dio è completamente presente e attivo in ciascuna di
esse, che non sono degli intermediari, delle emanazioni tra il Creatore e le
creature. La distinzione tra il Creatore e le creature è mantenuta al livello
dell’essenza e delle proprietà, ma in Cristo c’è unione ipostatica: nella
persona del Verbo, l’increato e il creato si uniscono senza confondersi: «Con
la sua grazia, Dio rende dèi sempiterni coloro che partecipano delle proprietà
e che agiscono in comunione con esse» (Apologia).
tratto da: H-P.
RINCKEL, La preghiera del cuore.
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