domenica 25 novembre 2012

San Nilo il Sinaita

 

Il santo monaco Nilo il digiunatore

12 (25) Novembre

 

       Il santo monaco Nilo il digiunatore era nativo di Costantinopoli. Visse durante il V secolo ed è stato allievo di San Giovanni Crisostomo. Avendo ricevuto una fine educazione, quando era ancora giovane fu nominato prefetto della capitale. Durante questo periodo Nilo era sposato ed ebbe anche dei figli. Ma i fasti della vita di corte turbavano la coppia. San Giovanni Crisostomo esercitò una grande influenza sulla loro vita e le loro aspirazioni. I coniugi decisero di separarsi e dedicarsi alla vita monastica. La moglie e la figlia di Nilo decisero di entrare in uno dei monasteri femminili in Egitto, e Nilo e suo figlio Teodulo andarono al Sinai, dove si stabilirono in una grotta scavata con le proprie mani. Per quarant’anni questa grotta servì come dimora di Nilo. Con il digiuno, la preghiera e le opere, il monaco raggiunse un alto grado di perfezione spirituale. Cominciò a venire a lui gente di ogni rango sociale e occupazione - dall’imperatore fino al contadino -, trovando ognuno consiglio e conforto dal santo. Nella solitudine Nilo scrisse molto. Si conosce una sua lettera in cui fa una accesa denuncia dell’imperatore Arcadio, che aveva esiliato San Giovanni Crisostomo. E note sono le sue opere ascetiche, composte in una forma perfetta, profondamente ortodosse, e piene di senso sincero e pensiero chiaro.

Nilo subì molte disgrazie nel deserto. Come, ad esempio, quando i Saraceni catturarono il figlio Teodulo, che avevano intenzione di offrire in sacrificio ai loro dèi pagani. Attraverso le preghiere del santo il Signore salvò Teodulo, e il monaco lo trovò con il vescovo di Emessa, che aveva riscattato il giovane dai barbari. Questo vescovo quindi li ordinò entrambi presbiteri. Dopo la chirotonia tornarono al Sinai, dove vissero insieme in ascesi fino alla morte di Nilo.



Nilo è un nome diffuso in Oriente. Si contano ventuno scrittori con questo nome. Nei secoli i copisti li hanno confusi, ed è difficile stabilire quali scritti appartengano al più celebre di essi, San Nilo del Sinai. Molti scritti di San Nilo non riflettono l’esperienza della vita eremitica, ma quella cenobitica; si attribuiscono all’omonimo superiore di un monastero presso Ancyra nella Galazia, morto verso il 430. La critica più recente inclina a rivendicare ad Evagrio il Pontico vari scritti riportati col nome di Nilo nel Vol. 79 della patrologia greca del Migne. Così il celebre Trattato sulla preghiera, Migne 79, 1165-1200, dal quale prendiamo i testi che seguono, è da attribuirsi ad Evagrio.

 
 

Dai 153 Capitoli sulla preghiera

 
2. Purificata dal compimento dei comandamenti, l’anima conquista una calma capacità di contemplare, atta a raggiungere lo stato necessario alla preghiera.

3. La preghiera è il colloquio della facoltà mentale con Dio; quale stato le è necessario per tendere, senza divagazioni, verso il Signore, e parlare con Lui senza intermediari?

4. A Mosè fu impedito di accostarsi al roveto ardente, finché non tolse i calzari dai suoi piedi (Es 3, 5). Se non libererai il tuo intimo io da ogni forma passionale di pensiero, non potrai vedere e parlare con Colui che è oltre i sentimenti e i pensieri.

5. Prima di qualunque altra cosa domanda, nella preghiera, il dono delle lacrime, perché il piangere ammollisca l’aridità dell’anima tua, e riconoscendo il tuo peccato davanti al Signore, possa da Lui ottenere il perdono.

9. Sii pazientemente fedele, e prega senza stancarti mai; respingi l’assalto delle preoccupazioni mondane e degli altri pensieri; essi ti turbano e agitano cercando di smorzare lo slancio della tua preghiera.

11. Sforzati di mantenere, durante la preghiera, la tua mente muta e sorda; così potrai pregare come devi.

14. La preghiera è il virgulto della mitezza e della libertà dall’ira.

15. La preghiera è il frutto della gioia e della gratitudine.

16. La preghiera è la medicina della tristezza e dello scoramento.

17. Va’, vendi ciò che possiedi e dallo ai poveri (Mt 19, 21). Prendi la tua croce, rinnega il tuo io (Mt 16, 24). Potrai in tal modo pregare senza distrazione.

19. Di ogni pena, accolta con saggezza, troverai il frutto nell’ora della preghiera.

20. Se vuoi pregare veramente, non contristare alcun essere vivente; altrimenti inutilmente corri.

21. Il Signore dice: “Lascia il tuo dono davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti col fratello” e quando tornerai riuscirai a pregare senza turbamento. Perché il rancore acceca la facoltà mentale di colui che prega e avvolge di tenebre la sua preghiera.

22. Chi s’impegna nella pratica della preghiera e conserva in sé delle ansietà e dei risentimenti, è come se volesse tirar acqua dal pozzo con un secchio bucato.

31. Non domandare, nella preghiera, che le cose vadano come vuoi tu, non sempre il tuo desiderio è in accordo col volere divino. La preghiera migliore, come ti è stato insegnato, è “la tua volontà sia fatta” in me...

33. Cos’è il bene se non Dio stesso? Affidiamo a Lui tutto ciò che ci riguarda, e in noi farà scendere il giusto volere. Egli che è il Bene è anche l’Elargitore di ogni dono di bene.

36. La preghiera è l’elevarsi della mente a Dio.

37. Se desideri la vera preghiera, rinuncia a tutto per avere in eredità il Tutto.

38. Domanda d’essere purificato dalle passioni, poi di venir liberato dall’ignoranza, infine di essere immune dalle tentazioni e dall’essere lasciato alla deriva.

40. È giusto domandare nella preghiera la purificazione per se stessi e per tutti gli uomini. Tale è la preghiera degli angeli.

44. Se la tua mente si lascia ancora sorprendere proprio nel tempo della preghiera, non sa ancora che il monaco prega ma è tuttora mondano e intento ad abbellire l’esterno della tenda.

45. Quando preghi, tieni ben aperti gli occhi sulla tua memoria, perché invece di suggerirti i suoi ricordi, ti conservi alla presenza del tuo esercizio. La mente, infatti, tende a lasciarsi saccheggiare dalla memoria quando è in orazione.

47. Il demonio è grandemente invidioso di colui che prega, usa molteplici astuzie per disturbarlo dal suo intento. Agita la memoria e il pensiero delle più svariate cose; mette in azione tutte le passioni fisiche. Il suo scopo è di corrompere il vero progresso che l’uomo compie ascendendo, con la preghiera silenziosa, a Dio.

48. Quando il demonio scaltro non riesce ad alterare la preghiera dell’orante attento, desiste per breve spazio di tempo. Terminata la preghiera, tenta la rivincita, provocando in lui l’irascibilità, cerca di distruggere la pace mentale raggiunta, oppure scatenandone la concupiscenza, si fa beffe del suo puro pensare.

49. Quando ti accingi a pregare veramente, aspettati il peggio dal demonio; tu resta saldo e proteggi il frutto della preghiera. Fin dai primordi, il compito dell’uomo fu di coltivare e custodire (Gn 2, 15). Perciò dopo avere atteso, con la preghiera, all’opera di coltivazione, non lasciare indifesi i frutti del tuo lavoro, altrimenti la tua preghiera sarà stata vana.

51. I demoni risvegliano in noi la gola, la sensualità, la cupidigia, l’ira, il risentimento e le altre passioni, perché la mente, sotto il loro peso, non riesca a pregare veramente. Quando predomina l’attività delle passioni della nostra parte irrazionale, la mente è ostacolata dall’agire razionalmente.

53. Lo stato della preghiera è puro da ogni passionalità; in esso l’amore supremo trasporta verso l’alto la mente spirituale ed amante della sapienza.

56. Quando avrai raggiunto il distacco dagli impulsi passionali, non possederai ancora la preghiera pura. La tua mente rimane ancora occupata da pensieri e distratta dalle loro rappresentazioni, e quindi lontana da Dio.

57. Anche se la mente non si sofferma su semplici pensieri concernenti le realtà esteriori, non vuol dire che abbia raggiunto ancora la dimora della preghiera, se è occupata nelle speculazioni attorno ad esse e nel misurare i loro rapporti casuali. Anche in questo modo le realtà esteriori imprimono la loro immagine nella mente e la tengono lontana da Dio.

58. Quando la mente riesce ad andare oltre le speculazioni attorno alle creature materiali, se rimane ferma nelle creature immateriali, non ha trovato ancora Dio, perché è colma di immagini estranee.

59. Cercando la vera preghiera, cerca di capire prima di tutto che tu hai bisogno di Dio, il quale dà lo stato di preghiera a chi prega. Invocalo nella preghiera dicendo: sia santificato il tuo Nome. Il tuo Regno venga. Cioè, venga lo Spirito Santo e il tuo Unigenito Figlio. Il Signore ci ha così insegnato: “Dio è Spirito, e chi Gli presta culto, lo deve fare nello spirito e nella verità” (Gv 4, 24).

60. Chi prega nello spirito e nella verità non attinga dalle creature pensieri per render gloria a Dio, ma dal Creatore stesso prenda pensieri contemplativi a sua lode.

61. Se sei teologo, devi pregare nella verità; se preghi nella verità, sei teologo.

62. Quando la tua mente, in un ardente amore di Dio, esce, per così dire, a poco a poco dalla tua carne, e abbandona tutti i pensieri che vengono dai sensi, dalla memoria e dal temperamento, e si trova ricolma di sentimenti di adorazione e di gioia, allora puoi dire di essere giunto al confine della preghiera.

63. Lo Spirito Santo, compassionevole per le nostre insufficienze, viene in noi anche quando siamo tuttora impuri. È contento di trovare la nostra mente sinceramente aperta verso di Lui, per stabilire in noi la sua dimora ed allontanare tutto il turbinio dei pensieri e delle immagini che ci avvolge, preparandoci così al desiderio della preghiera spirituale.

66. Se desideri raggiungere la realtà della preghiera, non compiere nulla che le sia contrario. Dio verrà a te e accompagnerà il tuo cammino.

67. Nella preghiera non voler dare una figura alla divinità, né permettere alla tua mente di ricevere l’impronta di qualsiasi immagine: avvicina Colui che è immateriale liberandoti dalla materia; e potrai con Lui comunicare.

71. Non ti è possibile arrivare alla preghiera pura se rimani impigliato nelle cose e nei traffici esteriori, ed agitato da preoccupazioni insistenti. La preghiera è la deposizione di ogni pensiero.

72. Chi è legato non può correre; la mente asservita a turbamenti passionali non potrà raggiungere lo spazio della preghiera spirituale. Venendo tratta qua e là dai pensieri passionali, non può avere l’immobilità della preghiera vera.

73. Quando la mente è giunta, finalmente, alla realtà della preghiera pura e serena, il demonio l’assale con immagini che attinge non dalla parte tenebrosa, ma da quella luminosa dell’essere. Le presenta delle apparenze della chiarità divina, e delle immagini gradevoli alla sensibilità, come se avesse di già raggiunto la completezza dello stato di preghiera. Un saggio asserisce che la scaturigine di queste suggestioni è la vanagloria, unita all’azione dello spirito del male che opera, sovreccitandola, su una particolare sezione del cervello.

74. Penso che, operando su questa sezione del cervello, lo spirito del male, a suo arbitrio, riesca a trasmutare la luce che è attorno alla mente di colui che prega. In seguito a questa azione demoniaca, la vanagloria invade ogni pensiero, forzando la mente ad attribuire a se stessa la conoscenza sostanziale propria di Dio. In tal modo l’orante, non sentendosi esposto a turbamenti impuri e inferiori, anzi, consapevole del grado raggiunto nella purezza della preghiera, mai immagina di esser sotto l’azione del nemico. Stima l’effetto dell’opera demoniaca, che trasmuta la luce della sua mente, essere qualcosa che proviene da Dio.

75. Giunte a questo punto le cose, solo un atto di misericordia divina può liberare l’orante dall’illusione. Se vicino a lui accorre l’angelo di Dio che, con la sua parola, tronca l’azione del nemico e riporta l’energia illuminata della mente ad operare senza illusione.

82. Prega nella pace e nella serenità, canta con intelligenza e con capacità sarai come aquila che volteggia nell’alto dei cieli.

83. Il canto dei salmi è utile a quietare il turbamento delle passioni, e attutisce gli impulsi dell’intemperanza fisica. L’elevazione dell’anima a Dio, nella preghiera, permette alla mente di fare ciò che le è connaturale.

84. La preghiera è un’attività propria della dignità della mente, o meglio costituisce il vero uso della mente.

85. Il canto dei salmi appartiene alla conoscenza tuttora legata alla varietà delle immagini; la preghiera pura è il preludio alla conoscenza libera dalla materia e dalla varietà delle immagini.

95. È necessario che tu conosca anche questa astuzia demoniaca: alle volte gli spiriti del male si dividono i compiti. Alcuni si presentano con la tentazione, quando implori il soccorso, vengono gli altri travestiti da angeli e mettono in fuga i primi. Vogliono farti credere che sono dei veri angeli per lasciarti in preda alla vanagloria.

96. Abbi cura di te con l’essere umile e fiducioso, la violenta guerra degli spiriti del male non ti prostrerà, ed il flagello dei demoni non cadrà sul tuo corpo, perché Dio ha affidato ai suoi Angeli la cura di te; vigilano su te in ogni circostanza...

98. Durante l’assalto dei demoni ripeti incessantemente una preghiera breve e intensa.

101. Il pane è l’alimento del corpo, la virtù dell’anima, la preghiera spirituale lo è della mente.

105. Quando preghi trascura le necessità corporali, altrimenti la puntura di una pulce, o di una zanzara o di una mosca, ti priveranno del frutto della preghiera.

108. Avrai sicuramente letto la vita dei monaci di Tabenne, dove è riferito che mentre l’Abate Teodoro teneva un’istruzione ai suoi frati, due vipere si rifugiarono ai suoi piedi. Non si scompose; curvò le piante dei piedi in modo da offrire un riparo ai due rettili, e proseguì il suo sermone. Solo al termine mostrò le bestiole ai frati e riferì l’accaduto.

112. Ad un monaco, pieno d’amore di Dio, mentre percorreva il deserto intento alla preghiera interiore, apparvero due angeli che accanto a lui fecero un buon tratto di cammino. Ma lui non prestò la minima attenzione alla loro presenza, per non perdere ciò che era migliore. Ricordò le parole dell’Apostolo: “Né gli Angeli, né i Principati, né le Potenze potranno separarci dall’amore di Dio, che è in Gesù Signore nostro” (Rm 8, 38-39).

114. Non desiderare né, tanto meno, cercare, durante la preghiera, forme e immagini che ti facilitino il compito.

115. Non desiderare neppure la sensibile visione degli Angeli o delle potenze celesti, neppure quella di Cristo. Correresti il rischio di esser preda dell’illusione, di confondere il lupo con il pastore e di prestare il culto ai demoni invece che a Dio.

116. La superbia è il primo passo verso l’inganno della mente, essa spinge l’intelligenza a cercare di dare una forma al Sacro.

117. Torno a ripetere ciò che dissi ai monaci giovani: beata la mente che custodisce il silenzio perfetto durante la preghiera.

118. Beata la mente che, durante la preghiera senza distrazioni, acquista un desiderio crescente di Dio.

119. Beata la mente che, nella preghiera, non porta i richiami delle cose esteriori e dei possessi.

120. Beata la mente che, durante la preghiera, è morta alle realtà esteriori.

121. Perfetto è il monaco che in ogni essere umano vede Dio.

122. Perfetto è il monaco che pensa al progresso e alla salvezza di tutti gli uomini come si trattasse di lui stesso.

123. Perfetto è il monaco che sente se stesso, il più inquinato degli esseri.

124. Il vero monaco è chi, pur separato da tutti, vive in comunione con ogni creatura.

125. Vero monaco è chi si sente in unione vitale con tutti e se stesso vede in ogni essere umano.

126. Prega veramente chi non cessa di far fruttificare per Iddio la sorgente prima di ogni pensiero.

141. Finché non sarai del tutto libero dagli impulsi passionali e la tua mente resisterà alla virtù e alla verità, non sentirai salire dal tuo profondo il soave incenso della preghiera.

151. La bontà della preghiera non è nella quantità, ma nella qualità. Ne testimoniano quei due che salirono al tempio a pregare (Lc 18, 10) e anche le parole: “non moltiplicate le parole nelle vostre preghiere” (Mt 6, 7).

152. Finché metterai attenzione soltanto alla posizione del corpo e la tua mente sarà fissa sulla bellezza esteriore della tenda, sappi che ancora non hai veduto il luogo della preghiera e che sei lontano dalla via benedetta che ad esso conduce.

sabato 24 novembre 2012

L'antica chiesa di s. Vincenzo



L’antica chiesa pievana di San Vincenzo (sec. VIII - sec. XVII)

 
 
La cattedrale di Sant’Alessandro venne costruita sotto l’episcopato di Narno, nel IV secolo, e demolita nel 1561, per la costruzione delle mura venete. Essa fu la prima sede episcopale, ma essendo "extra moenia", i cristiani dovettero provvedere ad un posto "intra moenia": si sviluppò allora la chiesa dedicata a San Vincenzo. Non è certo se questa chiesa fu tolta ai cattolici dai Longobardi, che ne fecero una cattedrale ariana, oppure se continuarono a funzionare in Bergamo due cattedrali cattoliche. Il Chiodi suppone che i Longobardi provvidero ad includere Sant’Alessandro dentro le mura, disponendo di San Vincenzo come propria cattedrale (Diocesi di Bergamo 1988). Secondo Fornoni, la chiesa di San Vincenzo esisteva almeno dalla seconda metà del secolo VII, ai tempi di re Cuniberto. Nel testamento del gasindio regio Taido del 774, la chiesa di San Vincenzo è nominata insieme a Santa Maria (Pergamene archivi Bergamo 1988). Nel 774 "ecclesia", cioè chiesa battesimale, in Bergamo è solo San Vincenzo con Santa Maria, mentre le altre, compresa Sant’Alessandro con San Pietro, sono basiliche, cioè chiese non battesimali. Il vescovo Adalberto vi istituì la canonica nell’897. Non si dispone invece dell’atto di fondazione della canonica di Sant’Alessandro, che Dentella e Belotti collocano all’anno 953, ma che Chiodi anticiperebbe all’inizio del secolo X.

In città l’unica pieve era costituita attorno alla cattedrale e al vescovo. Tanto Sant’Alessandro quanto San Vincenzo ebbero la chiesa battesimale: San Pietro e San Giovanni in Arena la prima, Santa Maria la seconda. Ma con tutta probabilità in tempi successivi: prima solo San Pietro, poi solo San Giovanni per Sant’Alessandro, infine solo Santa Maria per San Vincenzo. San Giovanni risaliva al vescovo Tachimpaldo, alla fine del VIII secolo, quando Sant’Alessandro si trovava entro le mura di Bergamo. Scomparsa questa situazione nel secolo IX, tutte le funzioni si concentrarono in San Vincenzo, battesimo compreso, che veniva conferito in Santa Maria. Discordie tra i canonici dei due capitoli si protrarranno fino al secolo XVII, quando avverrà la fusione in un unico organismo, dopo la distruzione dell’antica cattedrale di Sant’Alessandro, e la consacrazione a Sant’Alessandro della ricostruita cattedrale già di San Vincenzo.

Dal 1561, con la distruzione della basilica alessandrina in seguito alla costruzione delle nuove fortificazioni venete, i due capitoli di Sant’Alessandro e di San Vincenzo convivevano nella cattedrale di San Vincenzo (Diocesi di Bergamo 1988).

All’epoca della visita apostolica dell’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, avvenuta nel 1575, così era esplicitata la questione giurisdizionale della chiesa Cattedrale di San Vincenzo "nullum onus curae animarum exercendae cathedrali huic imminet nomine certae particularis parochiae; verum liberum est unicuique de populo, etiam omisso proprio parocho, ad hanc cathedralem recurrere inibique peccata et in Paschate confiteri et Sancte Eucaristiae sacramentum sumere et tunc onus archipresbitero incumbit: id autem non mediocriter perturbat christianam populi disciplinam impeditque in parochis exactam gregis sui cognitinem, eorumque presertim observationem qui in Paschate non communicantur" (Visita Borromeo 1575).

Al 1689 risale l’atto di unione dei due capitoli e la dedicazione della chiesa, già di San Vincenzo, al solo Sant’Alessandro. A San Vincenzo venne intitola una cappella, edificata nel 1697.

 

Roberta Frigeni

 


 

San Vincenzo di Spagna

 
 
San Vincenzo diacono, martire di Augustopolis
 
11 (24) Novembre
 
 
Il Santo Martire Vincenzo di Spagna fu dalla sua infanzia discepolo di un pastore saggio, Valeriano, vescovo della città di Augustopolis (l’odierna Saragozza, in Spagna). Quando giunse ad età matura, essendo virtuoso, colto ed eloquente Vincenzo fu ordinato diacono dal Vescovo Valeriano. Dal momento che lo stesso vescovo non era abile nel parlare, diede benedizione al suo diacono, un eloquente oratore, di predicare in chiesa e tra la gente.
Durante la persecuzione di Diocleziano, Daciano, governatore della città di Valencia, in Spagna ricevette piena autorità per trovare e giustiziare i cristiani. Il popolino denunciò il savio vescovo e il suo diacono al governatore, che li arrestò. I soldati, montati su cavalli, trascinarono il Vecchio e il suo discepolo dietro di loro in catene da Augustopolis a Valencia, ove li gettarono in prigione picchiandoli e torturandoli, lasciandoli senza cibo né acqua.
Sottoposero il vescovo al primo interrogatorio. Il Vecchio parlò con calma, ma sembrava muto e incerto. Poi fu la volta del diacono Vincenzo che si fece avanti e tenne il discorso più eloquente della sua vita davanti ai giudici e alle persone lì presenti. Dopo aver rinviato il vescovo in prigione, il persecutore diede l’ordine di torturare il santo diacono.
Il martire subì molti tormenti: inchiodato ad una croce, venne frustato e bruciato con verghe di ferro incandescenti. Quando fu tolto dalla croce, da se stesso vi si stese nuovamente con gioia, dicendo che i carnefici erano stati pigri e non avevano rispettato gli ordini del loro padrone. Questi si adirarono e lo torturarono di nuovo, finché non furono tutti esausti.
Dopo le torture gettarono il martire di nuovo in prigione. Quella notte la guardia stupita udì cantare Salmi, e vide una radiosa luce ultraterrena nella prigione. La mattina seguente il santo martire fu condannato ad essere bruciato su una graticola. I cristiani preso il corpo del santo e lo seppellirono con riverenza. Questo avvenne nel corso dell’anno 304.
 
 
Tropario - Tono 4
I tuoi martiri, Signore, con la loro lotta hanno ricevuto da te, nostro Dio, le corone dell’incorruttibilità: con la tua forza, infatti, hanno abbattuto i tiranni ed hanno anche spezzato le impotenti audacie dei demoni. Per le loro preghiere, o Cristo Dio, salva le anime nostre.
 
 
Kontakion - Tono 8
Oggi la Chiesa onora coloro che hanno combattuto la buona battaglia e sono morti per la loro fede: Il vittorioso Minas, il nobile Victor e l’asceta Vincenzo. La Chiesa esalta la loro lotta divina e grida con amore: Gloria a te, o Cristo, amante del genere umano.

san Martino alla Pigrizia


La chiesa di San Martino “alla Pigrizia”

 

Sita al n. 10 dell’omonima via, sulla strada che collega Bergamo alta al quartiere Longuelo in città bassa. È detta “della Pigrizia” dalla zona “Pigrizia” in cui è ubicata, un’ampia conca che dal Monastero di Astino degrada verso il piano. Il luogo era detto anche “del costone” o “della Corna” per la presenza di una roccia dalla quale scaturiva una sorgente d’acqua.

La prima notizia della chiesa di S. Martino, si ha da una pergamena dell’anno 879. Risulta nel censimento in occasione della visita apostolica dell’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, avvenuta il 24 settembre 1575, come chiesa di San Martino “in contrata del Cornu extra moenia civitatis”.

L’attuale struttura è d’impianto cinquecentesco, a una navata, con soffitto piano. La parete destra presenta un affresco del ‘500 trasportato su tela.

San Martino il Misericordioso vescovo di Tours

11 (24) Novembre

 

 

Questo venerato e amato Santo d’Occidente, patrono della Francia, era nato in Pannonia (l’attuale Ungheria) nel 316, da una famiglia pagana militare di stanza lì. Successivamente la famiglia tornò a casa in Italia, dove Martino crebbe. Iniziò ad andare in chiesa all’età di dieci anni, e divenne catecumeno. Anche se desiderava diventare un monaco, entrò nell’esercito in obbedienza ai suoi genitori.

Un giorno, quando era di stanza ad Amiens in Gallia, incontrò un povero tremante per mancanza di vestiti. Aveva già dato tutto il suo denaro in elemosina, quindi estrasse la spada, tagliò il mantello da soldato a metà, e diede la metà al povero. Quella notte Cristo gli apparve, vestito con il mezzo mantello che aveva dato via, e disse ai suoi angeli, “Martino, anche se ancora un catecumeno, mi ha rivestito in questa veste”. Martino fu battezzato poco dopo. Anche se desiderava ancora diventare un monaco, non ottenne il suo congedo dall’esercito se non molti anni dopo, nel 356. I barbari avevano invaso la Gallia quando Martino aveva chiesto il permesso di dimettersi dal suo incarico per motivi religiosi. Ma il comandante lo accusò di codardia. Martino allora dimostrò il suo coraggio, offrendosi di stare disarmato in prima linea durante la battaglia, confidando nella potenza della Croce che lo avrebbe protetto. Il giorno seguente, i barbari si arresero senza combattere, e a Martino fu permesso di lasciare l’esercito.

Quindi divenne un discepolo di S. Ilario di Poitiers (commemorato il 13 gennaio), l’"Atanasio d’Occidente". Dopo aver viaggiato in Pannonia e in Italia (dove sua madre si convertì alla fede in Cristo), tornò in Gallia, dove gli eretici ariani stavano guadagnando molto terreno. Non molto tempo dopo divenne vescovo di Tours, dove ha brillato come pastore della Chiesa: portando i la fede ai pagani, la guarigione ai malati, e istituendo la vita monastica in tutta la Gallia, e combattendo l’eresia ariana così diffusa in tutto l’Occidente. Trovando la residenza episcopale troppo grande, andò a vivere presso una rude isolata capanna in legno, pur adempiendo tutti i doveri di un vescovo della Chiesa. Spesso conversava con gli angeli, ed ebbe in visione i santi Pietro e Paolo ed altri santi.

La sua severità contro l’eresia fu sempre accompagnata da amore e bontà verso tutti: una volta intraprese un lungo viaggio per implorare l’Imperatore Massimo affinché risparmiasse la vita di alcuni eretici Priscilliani che l’imperatore voleva far giustiziare.

Dopo una vita devota al servizio di Cristo e della sua Chiesa, il santo si ammalò a Candes, un villaggio nella sua diocesi, dove morì l’8 novembre 397. Fu sepolto tre giorni dopo a Tours, la sua memoria si celebra infatti nel giorno della sua deposizione. Mentre il santo Vescovo stava morendo nel 397, gli apparve il diavolo per tentarlo un’ultima volta. Il Santo gli disse: “Non troverai nulla in me che ti appartiene. Il seno di Abramo sta per ricevermi”. Con queste parole rese la sua anima a Dio.

Egli è stato il primo confessore non martire ad essere chiamato santo in Occidente. Il suo biografo, Sulpicio Severo, ha scritto di lui: “Martino non lasciò che un’ora o un momento passasse senza darsi alla preghiera o alla lettura e, anche quando leggeva o era in altro modo occupato, non smetteva di pregare Dio. Non era mai stato visto di cattivo umore o disturbato, afflitto o in preda al ridere. Sempre uguale, il viso sempre splendente di gioia celeste, sembrava aver superato la natura umana. Nella sua bocca non v’era altro che il nome di Cristo e nella sua anima, null’altro se non l’amore, la pace e la misericordia”.

Durante il Medioevo, molte chiese occidentali sono state dedicate a San Martino, tra cui St. Martin a Canterbury, e St. Martin-in-the-Fields a Londra.

Nel 1008 a Tours, sulle reliquie di San Martino, fu eretta una cattedrale, che fu distrutta nel 1793 durante la Rivoluzione francese, insieme con le reliquie di San Martino e di San Gregorio di Tours (17 novembre). Una nuova cattedrale fu costruita sul luogo molti anni dopo. Alcuni frammenti delle reliquie di San Martino furono recuperati e traslati in cattedrale, mentre non rimane nulla delle reliquie di San Gregorio.

Il nome di san Martino appare su molti calendari greci e russi. La sua commemorazione al 12 ottobre nel calendario russo sembra essere un errore, dal momento che le fonti antiche indicano la data di novembre.

 

 

Per la tua edificazione puoi leggere anche la Vita di san Martino di Sulpicio Severo

 

 

Dalle «Lettere» di Sulpicio Severo

Lett. 3, 6. 9-10. 11. 14-17. 21; Sc 133, 336-343

 

Martino previde molto tempo prima il giorno della sua morte. Avvertì quindi i fratelli che ben presto avrebbe cessato di vivere. Nel frattempo un caso di particolare gravità lo chiamò a visitare la diocesi di Candes. I chierici di quella chiesa non andavano d’accordo tra loro e Martino, ben sapendo che ben poco gli restava da vivere, desiderando di ristabilire la pace, non ricusò di mettersi in viaggio per una così nobile causa. Pensava infatti che se fosse riuscito a rimettere l’armonia in quella chiesa avrebbe degnamente coronato la sua vita tutta orientata sulla via del bene. Si trattenne quindi per qualche tempo in quel villaggio o chiesa dove si era recato finché la pace non fu ristabilita. Ma quando già pensava di far ritorno al monastero, sentì improvvisamente che le forze del corpo, lo abbandonavano. Chiamati perciò a sé i fratelli, li avvertì della morte ormai imminente. Tutti si rattristarono allora grandemente, e tra le lacrime, come se fosse uno solo a parlare, dicevano: «Perché, o Padre, ci abbandoni? A chi ci lasci, desolati come siamo? Lupi rapaci assaliranno il tuo gregge e chi ci difenderà dai loro morsi, una volta colpito il pastore? Sappiamo bene che tu desideri di essere con Cristo; ma il tuo premio é al sicuro. Se sarà rimandato non diminuirà. Muoviti piuttosto a compassione di coloro che lasci quaggiù». Commosso da queste lacrime, egli che, ricco dello spirito di Dio, si muoveva sempre facilmente a compassione, si associò al loro pianto e, rivolgendosi al Signore, così parlò dinanzi a quelli che piangevano: Signore, se sono ancora necessario al tuo popolo, non ricuso la fatica: sia fatta la tua volontà.

O uomo grande oltre ogni dire, invitto nella fatica, invincibile di fronte alla morte! Egli non fece alcuna scelta per sé. Non ebbe paura di morire e non si rifiutò di vivere. Intanto sempre rivolto con gli occhi e con le mani al cielo, non rallentava l’intensità della sua preghiera. I sacerdoti che erano accorsi intorno a lui, lo pregavano di sollevare un poco il suo povero corpo mettendosi di fianco. Egli però rispose: Lasciate, fratelli, lasciate che io guardi il cielo, piuttosto che la terra, perché il mio spirito, che sta per salire al Signore, si trovi già sul retto cammino. Detto questo si accorse che il diavolo gli stava vicino. Gli disse allora: Che fai qui, bestia sanguinaria? Non troverai nulla in me, sciagurato! Il seno di Abramo mi accoglie. Nel dire queste parole rese la sua anima a Dio. Martino sale felicemente verso Abramo. Martino povero e umile entra ricco in paradiso.

 

 

Tropario di San Martino il Misericordioso, Tono 4

In segni e miracoli fosti rinomato in tutta la Gallia. Per grazia e adozione fosti una luce per il mondo, o Martino, benedetto di Dio. L’elemosina e la compassione han riempito la tua vita con i loro splendori, l’insegnamento e i saggi consigli furono tue ricchezze e tesori, che dispensi liberamente a coloro che ti onorano.

 

Altro tropario, Tono 1

La tua pietà per la nudità del povero ti ha concesso, Martino, di contemplare Cristo, mentre diceva ai suoi angeli: Martino mi ha vestito con questo mantello. Anche di noi tuoi servi abbi quindi pietà, perché siamo poveri e nudi di buone azioni. Implora il Signore dell’universo di avere pietà delle nostre anime.

 

Kontakion di San Martino il Misericordioso, Tono 8

Come uomo devoto di Dio, hai proclamato i suoi misteri, e come veggente della Trinità, hai sparso le tue benedizioni sull’Occidente. Con le tue preghiere e suppliche, ornamento di Tours e gloria di tutta la Chiesa, preservaci, o san Martino, e salva tutti coloro che lodano la tua memoria.

 

Altro kontakion, Tono 4

Nella semplicità e umiltà di cuore, o sommo sacerdote Martino, hai guidato il tuo gregge, hai guarito i malati, scacciato i demoni, hai domato il fuoco e risuscitato i morti; hai fatto rifiorire i cuori appassiti con la tua vita angelica e la tua preghiera incessante. Il Maestro della Vigna ti ha  colmato d’una messe traboccante. O sommo-sacerdote santissimo che mai condannasti persona, sii con noi nell’ora del terribile Giudizio.

venerdì 23 novembre 2012

Morini - Il monachesimo: angeli terreni e uomini celesti


Il monachesimo: angeli terreni e uomini celesti

del prof. Enrico Morini

 

            Un lungo velo nero, che avvolge il copricapo a cilindro degli ecclesiastici ortodossi, dà un aspetto inconfondibile all’alto clero di questa Chiesa, quello celibe e più colto: patriarchi e metropoliti, vescovi e archimandriti. Questo velo, che cade sul petto con due sottili bande di stoffa e ricade dietro a punta abbracciando le spalle sino a mezza schiena – portato anche, in determinati momenti del rito, sopra i colorati paramenti –, conferisce a questi uomini di Chiesa quella caratteristica sagoma trapezoidale che rappresenta indubbiamente una delle immagini più evocative dell’Ortodossia. Non è forse altrettanto risaputo che questo indumento, che fa di questi ecclesiastici gli unici uomini per così dire “velati”, non connota affatto lo stato clericale, bensì la condizione monastica. Anticamente – e ancora oggi, soprattutto al monte Athos, in qualche comunità che ama ritornare all’antico – questo velo veniva steso direttamente sul capo, senza il berretto sottostante, durante la preghiera e le celebrazioni liturgiche. Il vescovo lo porta perché, almeno dall’alto medioevo, egli viene scelto tra i monaci. Ancor oggi, se il vescovo prescelto appartiene al clero secolare, prima dell’ordinazione deve rivestire l’abito monastico. Il medesimo monocromo nero – che rappresenta pertanto una parte considerevole del “paesaggio” umano tipico dell’Ortodossia – connota il monachesimo femminile: anche le monache, figure nere che lasciano solo vedere il triangolo del volto delimitato da un fazzoletto che copre la fronte e le guance, portano direttamente sul capo il lungo velo che discende sino a metà schiena (in Russia invece le monache più anziane portano il velo sull’alto berretto cilindrico proprio del clero).

            Difficilmente chi ha esperienza del monachesimo occidentale riesce ad avere una corretta comprensione di quello ortodosso, nonostante la matrice comune delle due esperienze religiose, provenienti entrambe dall’antico monachesimo cristiano, documentato, già nel IV e V secolo, nei deserti egiziano e siro-palestinese. Risulta soprattutto fuorviante una certa osmosi che si è verificata nell’occidente latino tra chierici e monaci, per cui ai primi sono stati imposti requisiti e compiti della condizione monacale, come il celibato e la recita quotidiana dell’ufficio divino, e ai secondi vengono talvolta affidati incarichi pastorali, propri del clero secolare. Sono soprattutto due i presupposti teorici del monachesimo ortodosso che lo fanno apparire così diverso da quello cattolico: il principio della coessenzialità del monachesimo alla vita della Chiesa quello dell’assoluta unitarietà della vita monastica, per cui non esiste pluralità di regole e l’estrema varietà delle forme di vita non altera la dimensione rigorosamente unitaria della professione monastica.

            In virtù del primo principio l’autocomprensione che il monachesimo ortodosso ha di se stesso e delle proprie origini presuppone una continuità anche formale non solo con l’età apostolica, ma anche con i modelli veterotestamentari di ascesi confluiti nella tradizione profetica di Elia e ripresi emblematicamente nella figura neotestamentaria del Battista. Il controverso problema delle origini del monachesimo cristiano viene risolto, nel sentire ecclesiale dell’Ortodossia, con argomentazioni non già storico-critiche, ma principalmente teologiche, in base al criterio dell’analogia del genere di vita. L’incontrovertibile e rapidissimo fiorire del monachesimo a partire dal IV secolo, per cui i deserti egiziano e siro-palestinese si popolarono di monaci come una città e la terra arida si riempì, in termini figurati, di fiori – sono espressioni e immagini tratte dagli antichi testi monastici – viene a sua volta spiegato con un’esigenza di vita cristiana integrale in un contesto ecclesiale di crescente mondanizzazione.

            Ne consegue che il monachesimo viene considerato la componente scelta della Chiesa, la porzione eletta, il resto del nuovo Israele, che ha cercato la salvezza nel deserto separandosi dalla massa sempre più compromessa col mondo. Nella loro funzione di membri eccellenti della compagine ecclesiale, ai monaci vengono riconosciuti dai fedeli compiti specifici – avvertiti pertanto non come abusivi, quando vengono esercitati, ma quasi come istituzionali –, quali la guida spirituale dei fedeli e soprattutto la difesa intransigente dell’ortodossia dottrinale, in un’implicita contrapposizione con il ruolo dei vescovi (abbiamo visto le sagome nere dei monaci e delle monache sfilare nel 2001 per le vie di Atene e di Kiev per protesta contro la visita del papa). Non si concepisce pertanto l’esistenza della Chiesa senza il monachesimo, come testimonia anche la qualifica monacale attribuita a vergini martirizzate prima della pace costantiniana (come s. Parasceve e s. Anastasia la Romana). Significativamente questo ruolo del monachesimo, sentito come coessenziale e coeterno alla Chiesa, ha contribuito in profondità alla formazione dell’identità ortodossa, nelle sue espressioni cultuali e spirituali. Basterà ricordare come la liturgia monastica si sia venuta generalizzando, sostituendosi progressivamente alla liturgia cattedrale, a partire dal critico periodo della francocrazia (1204-1261).

            Poiché il monaco è colui che riconduce tutto all’Uno, superando ogni divisione, ogni dicotomia, che il peccato ha introdotto nel cosmo e in quel microcosmo che è l’uomo, tutto ciò che lo riguarda presuppone l’unità. Per quanto molteplici e differenziate siano le forme esteriori della vita monastica, lo stato di vita che in esse si esprime è sempre uno perché l’essenza del monaco è comune a tutte: la rinuncia al mondo, in quanto alternativo all’amore assoluto per Dio, e la scelta di una perenne condizione di penitente per sé e per il mondo (donde l’abito nero), nella consapevolezza che il valore primario della salvezza eterna esige da lui un’opzione così radicale.

            Il termine monaco etimologicamente viene dal greco monos che vuol dire “solo”; ora, anche se è un cenobita, se vive cioè nell’ambito di una comunità, egli è nondimeno pienamente monaco, in quanto è primariamente il consorzio a cui egli appartiene a essere isolato rispetto all’altro più ampio consorzio, quello della società civile. Se poi è un eremita, se cioè vive in un piccolissimo gruppo sotto la guida di un anziano in una kaliva (capanna), spesso nell’ambito di un villaggio monastico (la skiti), oppure se dimora solitario in un esicasterio costruito in un luogo accessibile solo per ripidissimi sentieri ferrati a picco sul mare, non è mai integralmente solo, perché membro di questa società dove non si genera fisicamente ma spiritualmente e che tuttavia continua a riprodursi. Ciò che conta e che qualifica il monco ecclesiasticamente e sociologicamente è prima di tutto l’essere monaco e quest’unità si esprime esteriormente in una foggia d’abito comune a tutti i monaci ortodossi. Come l’Ortodossia non conosce più regole che differenzino profondamente una famiglia religiosa da un’altra, così non esistono diversi ordini monastici: apparentemente il pluralismo è totale, in quanto ogni monastero ha la sua regola particolare, ma tutte seguono un archetipo comune, attribuito collettivamente alla sapienza ispirata dei Padri.
 




            L’abito monastico viene convenzionalmente definito “abito angelico”, non solo perché, secondo una “leggenda delle origini” monastiche, esso non è frutto della fantasia dell’uomo ma viene dall’alto – in quanto indossato dall’angelo che in visione lo mostrò all’egiziano Pacomio, il legislatore della vita in comune –, ma soprattutto perché chi lo indossa, nel suo distacco dal mondo e nella sua rinuncia alla sessualità, anticipa in terra la condizione del secolo futuro, dove i redenti “non si sposano, ma sono come gli angeli nel cielo” (Mt 22, 30). Il monaco non solo preannuncia la condizione finale dell’uomo, ma riproduce anche quella iniziale dell’Eden, quando le bestie feroci erano docilmente sottomesse ad Adamo. Egli partecipa infatti alla nuova creazione, inaugurata dal Cristo, nuovo Adamo, che nel deserto stava con le fiere (Mc 1, 13). La familiarità di s. Gerasimo con il leone (come quella di s. Sergij di Radonež e di s. Serafim di Sarov con l’orso) non è un episodio di edificante zoofilia, ma un consapevole manifesto, in forma narrativa, di teologia monastica.

            Per poter vivere in anticipo la gloria futura dell’umanità e recuperare l’innocenza originaria, l’uomo ha bisogno di un supplemento di grazia, quasi di un nuovo sacramento, che nel profondo del proprio essere lo trasformi, non diversamente da come opera il battesimo. Per questo l’iniziazione monastica è qualificata come un nuovo battesimo, non certo nel senso della ripetizione di un sacramento non reiterabile, ma in quanto consente, nella vita di penitenza, il recupero della santità battesimale. Questo è il senso dell’imposizione al monaco di un nuovo nome, che di solito conserva però l’iniziale del primo, per esprimere efficacemente la continuità dell’iniziazione monastica con quella battesimale. L’assimilazione al battesimo del rito d’iniziazione monastica comporta anche l’irreversibilità della scelta dello stato di vita monacale: in altri termini, come non si può più perdere il carattere impresso dal battesimo, così non si dà, nella Chiesa ortodossa, dispensa dai voti monacali. Analogamente mutuata dalla teologia battesimale è la convinzione che la vestizione monastica rimetta i peccati: è forse questa motivazione più forte, anche se inespressa, che ha reso quasi una prassi nella regalità ortodossa – da alcuni imperatori costantinopolitani, ai re serbi e ai principi e zar russi – l’assunzione dello stato monacale sul letto di morte. L’occidente conosce forse questa consuetudine grazie alla mediazione culturale del melodramma, nel Boris Gudunov di Puškin, musicato da Musorgskij, e precisamente nella suggestiva scena finale della monacazione dello zar morente, roso dai rimorsi.

            Da questo compendio di teologia ortodossa del monachesimo si può vedere come lo stato monacale sia primariamente la lotta contro la propria natura corrotta dal peccato, impresa resa possibile dalla rigenerazione battesimale, avvalorata dalla professione monastica. Ciò significa che senza la coscienza del peccato non ci sarebbe monachesimo nel cristianesimo orientale. Se il monachesimo, anche nella sua gerarchia interna, è un microcosmo modellato sul macrocosmo della Chiesa, così il singolo monaco è il prototipo del fedele che, nel suo cammino verso la divinizzazione, compendia in sé la vicenda dell’umanità intera: il tracollo del peccato e insieme il recupero dell’innocenza originaria e l’anticipo della condizione gloriosa.

            Come c’è una teologia così c’è pure una geografia sacra del monachesimo ortodosso. Sono ben significativi i termini metaforici con cui nel mondo ortodosso vengono chiamati i monasteri più importanti. L’area monastica del monte Athos viene definita “arca santa dell’Ortodossia”, così come i più importanti monasteri del mondo ortodosso vengono presentati – complice anche la loro architettura – come “frouria (cioè cittadelle, fortezze) dell’Ortodossia”. Procedendo in un’ideale escursione storico-spirituale lungo le vie del monachesimo ortodosso il punto di partenza è il monte Sinai. Qui sul luogo dove il roveto che ardeva senza consumarsi – dove Mosè ha ricevuto la rivelazione del nome divino –, ai piedi del monte della teofania dell’Esodo, entro le alte mura erette da Giustiniano per proteggere e imporre una regola di vita comune a eremiti che prima popolavano sparsi la montagna sacra, l’Ortodossia ha ricevuto l’iniziazione alla più alta forma di preghiera, consistente nell’invocazione incessante del nome di Gesù. Nella Laura di S. Saba, un dedalo di costruzioni aggrappate alla parete di uno stretto wādī del deserto palestinese – attorno alla quale le grotte scavate per alloggiare gli eremiti ammontavano un tempo, si dice, a 14.000 –, l’Ortodossia ha ricevuto, oltre che un sapiente modello di vita eremitica organizzata nella forma appunto della laura, anche e soprattutto lo schema generale, destinato a soppiantare tutti gli altri, delle proprie celebrazioni liturgiche.

            Nell’isola sacra di Patmos, dove l’apostolo Giovanni aveva scritto l’Apocalisse, il monaco Cristodulo costruì nell’XI secolo un monastero dedicato al santo, che si erge proprio come una fortezza, una corona merlata e turrita che, con la sua sagoma oscura, sovrasta, in un suggestivo contrasto di colori, il bianco accecante delle case e delle chiese sottostanti. La bandiera gialla con l’aquila bicipite nera, vessillo del patriarcato ecumenico, che sventola a Patmos, la si trova anche nell’ingresso di tutti e venti i monasteri del monte Athos, un luogo unico al mondo, un’intera penisola – un lembo della calcidica – abitata solamente da monaci. Questo singolare fenomeno di monopopolamento si compone felicemente con la compresenza di tutte le forme di vita monastica tradizionali nell’Ortodossia e con l’apporto di tutte le sue componenti etnico-linguistiche: russi, serbi e bulgari vi possiedono un monastero per ciascuno e i romeni una skiti. Per questo il monte Athos è ancor oggi il luogo visibile dell’unità pan ortodossa nel segno del monachesimo e, da secoli ormai, il punto di partenza di ogni impulso di rinnovamento per tutta l’Ortodossia. Di fondazione athonita è, sempre in Grecia, l’area monastica dei Meteora, in Tessaglia, fiorentissima nei secoli XIV-XVI, dove oggi sono presenti anche forme di monachesimo femminile. L’intenso movimento turistico che si registra in questa località – un ostacolo insormontabile al rifiorire della vita monastica – è però giustificato non solo dallo straordinario valore artistico dei suoi monasteri, ma anche dall’incomparabile bellezza del paesaggio, un insieme di parallelepipedi rocciosi – un vero “bosco di pietra”, come è stato definito – lungo le cui pareti si distinguono a fatica le grotte eremitiche e sui quali, come nidi di aquile, si elevano gli irraggiungibili cenobi.

            Passando al mondo slavo il nostro ideale pellegrinaggio tocca i monasteri serbi del Kosovo, quello bulgaro di S. Giovanni, tra i monti boscosi della Rila, per approdare poi nella Piccola Russia (Ucraina) e varcare le porte della Laura delle Grotte di Kiev. Questo singolare monastero, fondato appena mezzo secolo dopo la cristianizzazione del paese nell’XI secolo, conserva ancora i due nuclei iniziali rupestri, un intrico di celle sotterranee che si visita a lume di candela, dove ogni ambiente custodisce in una bara di legno il corpo incorrotto del santo monaco che l’aveva abitato. Anche nella Grande Russia si formarono presto dei centri d’irraggiamento monastico, primo fra tutti la Laura della Trinità, fondata non lontano da Mosca da s. Sergij di Radonež nel XIV secolo, baluardo dell’autocoscienza nazionale russo-ortodossa. Proprio la Russia più interna, con le sue foreste disabitate che costituiscono il “deserto” del nord, si popolò di una miriade di monasteri, sino all’arcipelago, punteggiato di eremi e di cenobi, delle isole Solovki nel Mar Bianco, il punto più a nord raggiunto dal monachesimo cristiano, ad appena 164 km dal circolo polare.

            Come l’abito monastico così anche la tipologia costruttiva di questi monasteri è carica di valenze simboliche. Il monastero è sempre cinto da alte mura con pochi varchi di passaggio, non solo per esigenze difensive ma soprattutto per mettere in evidenza la separazione dello spazio sacro monastico da quello profano del mondo. La chiesa principale è al centro di questo spazio sacro come cuore dell’organismo monastico, in quanto è per il monastero ciò che l’anima è nel composto umano: essa è separata da ogni altro edificio non solo per consentire il periplo completo alle processioni, ma soprattutto perché la casa di Dio non può appoggiarsi a case di uomini. Il refettorio è anch’esso uno spazio sacro, perché il pasto dei monaci non è che il proseguimento dell’agape eucaristica. Tutta la vita del monaco è liturgia e primariamente nella liturgia monastica si ha la percezione istintiva ma reale di che cosa sia realmente l’Ortodossia. Per capirlo davvero bisogna partecipare alla veglia athonita – una celebrazione notturna che raccoglie in successione tutte le ufficiature della festa, dal vespro  alla divina liturgia –, con l’alternarsi continuo di momenti di compunzione austera e di splendore avvolgente. Oppure bisogna sentire il sobrio salmodiare delle monache russe che si alternano a leggere per tutta la giornata il salterio, perché non manchi mai chi canta in chiesa le lodi di Dio. Si riesce allora a comprendere come nell’Ortodossia l’apparente carenza di dinamismo pastorale sia efficacemente compensata dall’azione liturgica, luogo privilegiato per la pastorale, strumento di evangelizzazione e fonte della devozione personale.   

 

 

Da: E. MORINI, Gli Ortodossi,  Il Mulino, 2002, 99-107.

giovedì 22 novembre 2012

san Michele al pozzo bianco


La chiesa di “san Michele al pozzo bianco”

 

Le prime prove documentate dell’esistenza di questa chiesa risalgono al 774 e si trovano nel famoso “testamento di Taidone”, nel quale sono riportati tutti i lasciti che questo personaggio longobardo destinò alle varie chiese della città, tra le quali la “Basilica di S. Arcangelo Michele fuori le mura della città di Bergamo”. Essa, quindi, esisteva certamente prima di quella data, cosa che fa di questa stupenda, piccola chiesa una tra le più antiche di Bergamo, se non la più antica in assoluto. Il ritrovamento nella zona di una lapide dedicata a Vulcano porrebbe far pensare a un preesistente tempio pagano, sul quale forse fu edificata la chiesa originaria, che corrisponderebbe all’attuale cripta o “scurolo”. Pare ormai certo che la consacrazione della chiesa sia avvenuta nell’801 ad opera del Vescovo di Reims. In alcuni documenti del 905 troviamo, per la prima volta, l’appellativo “del Pozzo Bianco”, del quale sono state molte ipotetiche spiegazioni, ovviamente tutte legate alla presenza dell’acqua nelle vicinanze.

Una pietra circolare posta alla base del sagrato indica il luogo dove sorgeva l’antico pozzo, detto “Bianco” per il colore dell’anello di pietra che ne circondava la bocca. Prima della costruzione delle mura venete, questa chiesa era a capo di una “vicinia” che si estendeva oltre l’attuale tracciato delle mura; fu parrocchia per molti anni e solo nel 1805 venne definitivamente annessa alla Parrocchia di Sant’Andrea Apostolo. L’attuale struttura non è quella originale, di cui rimangono probabilmente solo parte della cripta, del muro esterno ad archetti romanici e poco altro, ma risale al quattrocento e ha subito nei secoli numerose modifiche: nel 1901 furono eliminate alcune aggiunte di epoca barocca, tra cui un altare posto nella seconda campata di destra, mentre nel 1915 venne eseguita la facciata in pietra viva, in stile lombardo, che vediamo ancora oggi. Nel 1928 furono restaurati gli affreschi di Lorenzo Lotto posti nella cappella di sinistra mentre i lavori eseguiti negli anni 1941-42 portarono alla luce molti altri dipinti, sia nella Chiesa che nella Cripta. La facciata, così come si presenta ora, risale agli inizi di questo secolo. Precedentemente il suo aspetto, come quello del caratteristico sagrato in pendenza, era molto diverso. A fianco della chiesa si trova la “Casa del Vicario”, nella quale aveva sede la Corporazione di San Michele. Gli affreschi cinquecenteschi che si vedono sulla facciata sono molto deteriorati, nonostante i numerosi interventi di restauro ai quali sono stati sottoposti nell’ultimo secolo. Si può ancora vedere una Madonna in trono, molto bella, che denota un accurato studio della prospettiva, cosa che ha fatto pensare a qualche studioso ad un’influenza bramantesca; ancora in parte visibile è un San Cristoforo, mentre a fatica si possono identificare San Martino che divide il mantello col povero e S. Carlo che dà l’Eucaristia a S. Luigi Gonzaga. La presenza della figura di San Cristoforo sulle pareti esterne delle chiese, soprattutto di quelle poste su grandi vie di comunicazione, era molto frequente, essendo il santo protettore dei viandanti. La casa, di proprietà della famiglia Bonghi, nella quale abitò intorno al 1520 Lorenzo Lotto, autore di stupendi lavori in questa chiesa, era situata nel vicoletto a destra della scaletta ed è ora in parte inglobata nel vicino pensionato delle suore Orsoline di Gandino. I lavori di abbattimento della scaletta e di chiusura del vicolo ebbero inizio il 17 maggio 1909. Alla chiesa si accede attraverso un androne, all’interno del quale si può notare, sistemato in un’edicola, un affresco quattrocentesco raffigurante una Madonna col Bambino. La chiesa è a pianta rettangolare, con un perimetro non perfettamente regolare; la navata è divisa in tre campate da due ampi arconi ogivali quattrocenteschi aggiunti a strutture preesistenti, che sostengono il tetto a capanna a travi di legno; la pavimentazione è in cotto. Ci sono tre cappelle di testa di cui quella centrale, con volta a crociera, ha dimensioni doppie rispetto alle due laterali; tutte e tre sono rialzate rispetto al pavimento e chiuse da inferriate seicentesche. A quella principale si accede attraverso tre gradini e da due finestrelle poste lateralmente a questi si può intravedere l’interno della cripta sottostante raggiungibile tramite una scala posta nella seconda campata di sinistra. Una scala parallela, ora scomparsa, collegava alla cripta anche la seconda campata di destra, dove fino al 1901 si trovava l’altare barocco ora nello scurolo. La porta che si trova nella terza campata di sinistra immette nella sagrestia, composta da tre vani che corrono paralleli alla parete sinistra della chiesa. La porta difronte conduce a un locale longitudinale adibito a ripostiglio. L’altare rivolto al popolo e posto alla base della cappella centrale reca sul fronte un paliotto barocco di legno dorato dello stesso stile dell’altare principale. Questa chiesa è un vero e proprio scrigno: contiene alcuni tra gli affreschi più antichi della nostra provincia e altre opere d’arte. Gli amanti dell’arte la considerano un’eccezionale lezione di storia della pittura nella nostra città, dai primissimi anni del ‘200 fino alla fine del ‘500. Nel lato inferiore l’affresco è delimitato da un fregio composto da festoni di frutta e figure di angeli musicanti, tipicamente rinascimentali. Il quadro di destra mostra una raffigurazione inconsueta, che vede la presenza contemporanea della Madonna in trono col Bambino e del Crocifisso; a destra c’è la figura di S. Antonio da Padova. Scendendo la scala che si trova nella seconda campata di sinistra si accede allo scurolo dedicato a San Cristoforo, che veniva solennemente festeggiato, fino ai primi anni del ‘900, il 7 gennaio di ogni anno.

Alcune parti dello scurolo appartengono con ogni probabilità all’antica originaria chiesa che ha subito molti rimaneggiamenti nel corso dei secoli, come dimostrano il vano che si intravede da una piccola apertura a destra della scala e la colonna con capitello, che sono parte della struttura più antica. A sinistra della scala si trova un vano rettangolare con un unico affresco, del tardo Quattrocento, con tre figure femminili: si tratta di S. Margherita, S. Apollonia e S. Lucia. Non se ne conosce con certezza l’autore, anche se alcuni studiosi ipotizzano possa trattarsi dello stesso artista che dipinse nel 1496 il San Donnino sul primo pilastro di sinistra della chiesa superiore e nel 1499 il grande trittico sulla parete di fondo del vano centrale di questo scurolo. In fondo al corridoio, all’ingresso della scala chiusa intorno al 1798 per dare spazio all’altare in onore della Madonna del Buon Consiglio, é stato creato un “sacrario” in pietra, dove veniva smaltita l’acqua benedetta. Il vano minore, detto “nicchione”, è un vano a nicchia con volta a botte rimaneggiato nel 1400 su una struttura preesistente, di cui rimane qualche traccia. La Madonna in trono col Bambino che vediamo sulla parete di fondo, a sinistra della finestra murata, e il San Cristoforo posto a destra della stessa finestra, affreschi degli inizi del ‘200 attribuiti al Maestro di Sant’Anna Metterza, sono certamente tra le più antiche opere presenti sul territorio della bergamasca. Caratteristica è la posizione del Bambino, che siede a gambe incrociate, cosa inconsueta nell’iconografia del tempo. Troviamo la stessa posizione del Bambino nella chiesa di S. Giorgio ad Almenno, proprio nell’immagine conosciuta come “Santa Anna Metterza”. Il secondo affresco raffigura San Cristoforo che cammina nell’acqua reggendo sulla spalla il Bambino. Il Santo è riccamente vestito, ha una corona in testa e intorno ai suoi piedi, immersi in un corso d’acqua di cui il pittore ha saputo cogliere la trasparenza, vediamo addirittura nuotare i pesci. Gli altri affreschi, della fine del ‘400 – inizio ‘500, sono in onore di San Girolamo, dottore della Chiesa, che troneggia nella parete di fondo seduto in cattedra e in abito cardinalizio, anche se il Santo rifiutò, in realtà, il titolo di cardinale. La volta a botte è completamente affrescata; al centro vi é un Cristo sul sepolcro e, alla base, gli altri tre grandi santi dottori, Ambrogio, Agostino, Gregorio, con S. Nicola da Bari. Curioso l’atteggiamento di Ambrogio, che si sta sistemando gli occhiali. Sulle pareti laterali troviamo, di diverso autore, scene della vita di Girolamo: il santo nel deserto, una tentazione e una religiosa inginocchiata davanti a un altare su cui è posto un quadro del Santo. Ogni affresco del nicchione è delimitato da fasce riccamente decorate e da finte lesene: sulla prima a sinistra è riportato lo stemma dei Carrara. Nel vano centrale, l’attenzione è subito attratta dal grande trittico che occupa tutta la parete di fondo, il cui autore potrebbe essere lo stesso che ha dipinto le tre Sante nel vano rettangolare di questo scurolo e il San Donnino della chiesa superiore. Al centro spicca un imponente San Cristoforo; ai lati San Sebastiano e San Rocco. Cristoforo, come nell’affresco duecentesco del nicchione, traghetta il Bambino Gesù ed è rappresentato, secondo la tradizione, come un gigante, forte e possente, con la veste rimboccata nella cinta, mentre trattiene per un piede il Bambino che stringe tra le mani il mondo. Un cartiglio, ancora abbastanza leggibile, recita: “Ego sum lux mundi ... sum via, veritas et vita”.

Completano questo affresco tre tondi, nei quali vediamo Cristo benedicente nella parte alta della finta ancona e, lateralmente, un’annunciazione, con l’angelo a sinistra e Maria a destra. I numeri sopra i capitelli dei pilastri compongono l’anno di esecuzione: 1499. Sulla parete di sinistra vediamo una “Madonna in trono col Bambino e Santi”, di scuola lombarda. I Santi raffigurati sono, da sinistra: Donnino (Defendente), Cristoforo, Sebastiano, Giuseppe, Caterina, la Vergine col Bambino, una santa (Margherita), Rocco, Colombano e Martino che dà il mantello al povero. Le aureole dei santi sono punteggiate in rilievo. La data “l514” ritrovata incisa a destra dell’affresco, in basso, pare potersi riferire a quest’opera. Sulla parete di destra troviamo un altro affresco, con una Madonna in trono e i santi Rocco e Sebastiano. La figura di S. Antonio è posteriore e certamente meno bella.

Un’altra immagine di San Rocco è nascosta dietro l’altare. Nel pavimento sono incastonate alcune pietre tombali.¹ Nell’anno 1941, quando il Vicario della chiesa di S. Michele al Pozzo Bianco, Dott. Don G. Carrara, si accinse con amore ed intelletto a fare col restauratore Cividini ricerche ed assaggi sulle pareti e sulle volte per rintracciare antichi affreschi, non pensava che tali ricerche avrebbero portato a risultati ben superiori a quanto si sperava. I lavori condotti con molta cura e ottimo esito rivelarono infatti, anche se talora frammentate, opere di vari artisti e di considerevole pregio; una Annunciazione trecentesca, una Madonna con Santi del secolo XV, un Cristo risorto con angeli di scuola quattrocentesca lombarda, un S. Michele che trafigge il drago, gli Evangelisti nelle imposte della crociera del presbiterio. Ma ad affermare con diretta conoscenza l’esistenza di una più antica chiesa sotto l’ossatura della quattrocentesca chiesa attuale, gli assaggi rivelarono la presenza di dipinti precedenti di oltre due secoli, di netto carattere bizantino, riconfermando così, come appariva dalla cripta colla scoperta di altri due affreschi di S. Cristoforo e della Vergine col Figlio pure bizantini, la lontana origine del sacro edificio. Notizie storiche su S. Michele del Pozzo Bianco risalgono ai tempi dell’Alto Medioevo. Il nome stesso del Santo a cui la chiesa era dedicata, definisce la sua origine longobarda in quanto quel popolo nordico era particolarmente devoto all’arcangelo Michele. La conferma viene appunto dal fatto che un longobardo Taidone, come appare dal testamento conservato in Biblioteca, lascia nell’anno 774 alcuni suoi beni a questa chiesa. E se anche si può ammettere che la cripta rivolta ad oriente possa essere nelle sue fondazioni parte della chiesa originaria, é da pensare che l’attuale scurolo sia quello sorto nel secolo XII in unione alla chiesa soprastante rinnovata poi nel secolo XV. Le pitture bizantineggianti qui riprodotte e che decorano un tratto di muro interno laterale sinistro della chiesa, con accanto una Madonna col Bambino purtroppo mutilata in parte e una testa di S. Alberto, raffigurano la Maddalena coi capelli spioventi che interamente la coprono e una Santa martire vestita di una lunga tunica ornata di bordi al collo, alle maniche e al piede di riquadrature geometriche policrome a punti bianchi caratteristiche dell’arte pittorica dei secoli XII e XIII. Ma mentre nelle figure scoperte nell’anno 1937, tanto nella lunetta della chiesetta di S. Antonio in Foris di Borgo Palazzo, quanto nei riquadri mistilinei dell’arcone della Curia antestante alla facciata di S. Maria Maggiore, e ancor più nei Santi Viatore e Narno affrescati sul fondo della bifora pure scoperta a lato dell’arcone della Curia, opere queste attribuibili ad una data intorno al 1250, si notano proporzioni normali, pure impreziosite da ornati decorativi di gusto primitivo e un disegno d’insieme, pur conservando costante il carattere di ieraticità, che preannuncia il Trecento, in queste figure di S. Michele al Pozzo Bianco l’ingenuità della forma, l’accentuata lunghezza dei volti, delle mani e dei corpi, la rudimentalità dell’impostazione degli atteggiamenti e delle movenze, rivela un’origine di parecchio più antica. Altri esempi lombardi analoghi e rappresentativi di quella decadenza della forma che, pur rievocando il partito ornamentale degli esempi musivi ravennati, segnano la decadenza di quelle splendide espressioni d’arte, pur mantenendo immutato il valore di sincera ispirazione religiosa, possono far dedurre che queste pitture datino da un’epoca che si aggira intorno alla metà del 1100. Se pertanto i tre Santi della lunetta di S. Antonio in Foris possono essere assegnati, come a documenti, ai primi anni del 1200 (vedasi cap. IX), si può con attendibilità presumere che questi avanzi precedano quelli di parecchi decenni costituendo così l’esempio più antico dell’arte pittorica medioevale cittadina.²

 

Tratto da: ¹ Rosella Ferrari Giazzi (testi di), Visitiamo insieme S. Michele al Pozzo Bianco, 1996. ² Luigi Angelini, “Affreschi bizantini nella chiesa di S. Michele al Pozzo Bianco”, Cose belle di casa nostra: Testimonianze d’arte e di storia in Bergamo, Stamperia Conti, Bergamo, 1955, pagg. da 72 a 74.

 



 
 

Parrocchia della diocesi di Bergamo. La prima notizia documentaria relativa a una cappella nel suburbio di Bergamo dedicata a San Michele risale all’VIII secolo. Nel testamento del gasindio regio Taido del 774 veniva nominata una "basilice Beatissimi Sancti archangeli Michaelis foris muro civitate Bergomate" (Pergamene archivi Bergamo 1988).

Si ha menzione della chiesa di San Michele in altra fonte più tardiva, risalente al XIV secolo. Nell’elenco dei rappresentanti delle chiese al sinodo del 1304 era infatti nominato "presbiter Martinus Sancti Michaelis de puteo albo" (Chiese di Bergamo sottoposte a censo).

Ulteriore attestazione della chiesa di San Michele al Pozzo Bianco in città si trova in una serie di fascicoli che registrano, a partire dal 1360, le taglie e le decime imposte al clero dai Visconti di Milano e dai papi. Tra di essi, un’ordinanza di Bernabò Visconti riporta un indice generale ("nota ecclesiarum") delle chiese e monasteri di Bergamo, per poi specificarne le rendite e la tassa, nominando di ogni beneficio il titolare. In questa fonte la chiesa di San Michele risulta "capela civitatis Bergomi". Dall’attestazione del reddito, si ricava che vi erano censiti due benefici (Nota ecclesiarum 1360).

In occasione della visita apostolica dell’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, avvenuta il 23 settembre 1575, presso la parrocchia di San Michele al Pozzo Bianco risultavano eretti la scuola del Santissimo Sacramento, il consorzio della Vergine e il consorzio del Corpo di Cristo. Entro la circoscrizione parrocchiale era compresa la chiesa annessa al monastero di Sant’Agostino, a cui era aggregato il consorzio di Sant’Orsola. Esistevano inoltre i consorzi della vicinia di San Michele, contiguo alla parrocchiale, e di San Nicola (Visita Borromeo 1575).

In occasione della visita pastorale del vescovo Barbarigo, avvenuta tra il 1658 e il 1660, la parrocchia cittadina di San Michele al Pozzo Bianco risultava godere di un beneficio dal reddito pari a 80 scudi. In essa erano erette le scuole del Santissimo Sacramento, dei disciplini e della Dottrina cristiana. Il clero era costituito a quest’epoca dal solo parroco (Montanari 1997).

Nel Sommario delle chiese della diocesi di Bergamo, redatto nel 1666 dal cancelliere Marenzi, presso la parrocchiale cittadina sotto l’invocazione di San Michele arcangelo, detta del Pozzo Bianco, risultavano erette le scuole del Santissimo Sacramento e della Dottrina cristiana, oltre alla confraternita dei disciplini militanti sotto il gonfalone di Santa Maria Maddalena di Bergamo. Entro la circoscrizione parrocchiale era compreso un luogo pio detto Consorzio. Nei confini della parrocchia si trovava la chiesa monastica di Sant’Agostino. A quest’epoca la comunità contava 850 anime, di cui 500 comunicate. Il clero era costituito dal un parroco, il cui reddito ammontava a 40 lire, e da un cappellano (Marenzi 1666-1667).

In occasione della visita pastorale del vescovo Dolfin, avvenuta nel 11 febbraio 1779, risultavano eretti un luogo pio detto il Consorzio, presso l’altare dell’Assunzione della Santissima Vergine, e la scuola del Santissimo Sacramento, governati entrambi da "gentiluomini" della parrocchia. Entro la circoscrizione parrocchiale era compreso l’oratorio pubblico di San Giuseppe, governato e amministrato dalla "compagnia dei marengoni", e l’oratorio di Maria Santissima "nominata delle Grazie". La comunità di San Michele, retta da un parroco, sei cappellani, tre sacerdoti e quattro canonici, contava a quest’epoca circa 603 anime, di cui 409 comunicate (Visita Dolfin 1778-1781).

Secondo quanto si desume dalla serie dei registri sullo Stato del clero della diocesi, contenenti le relazioni dei vicari foranei a partire dall’anno 1734, la parrocchia di San Michele al Pozzo Bianco risultava compresa nella vicaria cittadina. Nel 1734 la comunità contava 568 anime di cui 480 comunicate (Stati del clero 1734-1822).

Venne soppressa nel 1805 e accorpata, in qualità di chiesa sussidiaria, alla parrocchia di Sant’Andrea (decreto 22 giugno 1805). Le disposizioni governative vennero recepite nel decreto promulgato dal vescovo Dolfin in data 10 gennaio 1806 (decreto 10 gennaio 1806).

 

 Roberta Frigeni