Dalle
“Istruzioni” di san Doroteo di Gaza
Cristo ci ha
dato il potere di fare il bene, se lo vogliamo, e di non essere trascinati per
forza al male. Perché chi è schiavo del peccato, ne è oppresso e trascinato,
come dice la Scrittura: Ognuno è
catturato dalle funi del suo peccato (Pro 5,22). E poi ci insegna come per
mezzo dei santi comandamenti possiamo trovare purificazione dalle passioni
stesse, così da non ricadere di nuovo negli stessi peccati per loro
istigamento. Infine, ci mostra anche la causa per cui si giunge a disprezzare e
a trasgredire gli stessi comandamenti di Dio e così ci offre un rimedio anche a
questo male, perché possiamo obbedire ed essere salvati.
Qual è questo
rimedio e qual è la causa del disprezzo? Ascoltate che cosa dice lo stesso
nostro Signore: Imparate da me che sono
mite e umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime. Ecco,
brevemente, con una sola parola, ci ha mostrato la radice di tutti i mali e il
rimedio, causa di ogni bene.
Il Signore ci
ha additato che è stata la superbia a farci cadere e come non sia possibile
trovare misericordia in altro modo se non opponendo alla superbia l’umiltà.
La superbia
infatti genera il disprezzo e la disobbedienza che portano alla rovina, come
l’umiltà genera l’obbedienza e la salvezza per le nostre anime. Questo però
succede se siamo veramente umili, non solo a parole o in apparenza, ma se
abbiamo un atteggiamento di vera umiltà che nasce dal cuore stesso, dalla
coscienza stessa. Così dice infatti il Signore: Sono mite e umile di cuore.
Chi vuole
trovare la vera pace per il cuore, impari l’umiltà e veda che in essa vi è ogni
gioia, ogni gloria e ogni pace; come anche nell’orgoglio è tutto l’opposto!
Come siamo
giunti a tutte queste tribolazioni? Perché siamo caduti in tanta miseria? Non è
forse a motivo del nostro orgoglio?
Senza umiltà è
impossibile seguire i comandamenti o arrivare a un qualche bene. I santi lo
sapevano e cercavano l’unione con Dio in una vita di umiltà. Vi furono infatti
alcuni amici di Dio che dopo il santo battesimo, non solo rinunciarono ad agire
sotto l’impulso delle passioni, ma vollero vincere anche le passioni stesse e
raggiungere l’impassibilità; così fecero il santo Antonio, Pacomio e gli altri
padri teofori.
Essi
compresero che, restando nel mondo, non avrebbero potuto ottenere facilmente la
virtù e così escogitarono un’esistenza da stranieri, voglio dire la vita
solitaria. Cominciarono a fuggire dal mondo, ad abitare nei deserti;
digiunavano, dormivano per terra, vegliavano nella notte, affrontavano ogni altra
penitenza; rinunciarono ad avere una patria, ai parenti, alle ricchezze e ai
beni; in breve crocifissero per sé stessi il mondo. E non si accontentarono di
osservare i comandamenti, ma offrirono a Dio anche dei doni. La verginità e la
povertà sono doni: non sono comandamenti, sono doni.
E noi? Se
abbiamo abbandonato le grandi cose, abbandoniamo anche le piccole; abbiamo
abbandonato il mondo, abbandoniamo anche le sue attrazioni; infatti il fascino
del secolo, anche tramite cose piccolissime, da nulla, veramente di nessun
conto, ci lega di nuovo alle realtà mondane, senza che ce ne accorgiamo.
Se vogliamo
essere del tutto liberi, impariamo a spezzare la nostra volontà; allora, poco
per volta, con l’aiuto di Dio, avanzeremo fino a giungere alla piena liberazione
dai moti passionali. Nulla è così utile all’uomo quanto rinunciare all’io.
Davvero percorrendo questo itinerario uno progredisce sorpassando quasi ogni
altra virtù. Come un uomo in viaggio scopre ad un certo punto una scorciatoia e
la imbrocca, in modo che seguendo quella via guadagna un buon pezzo di strada,
così è anche per chi percorre la via dell’amputazione egoistica. Rinnegando le
proprie voglie è facile distanziarci da tutto e tramite quel distacco
arriviamo, con l’aiuto divino, alla perfetta “apatheia”.
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