“L’atteggiamento
dei cristiani verso il potere e l’impero prima di Costantino”
Testo della
relazione tenuta il 19 aprile 2012 al convegno internazionale di studio
“Costantino il Grande. Alle radici dell’Europa” dal professor Marco Rizzi,
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Le complesse
motivazioni che hanno condotto Costantino alla scelta di legittimare prima, e
sostenere poi il cristianesimo sono state oggetto di molteplici studi, come
abbiamo sentito ieri nell’intervento di apertura del Convegno e nella relazione
che mi ha preceduto. Il mio contributo si propone, più limitatamente, di
indagare l’evoluzione dell’atteggiamento dei gruppi cristiani nei confronti del
potere politico - e specificamente verso quello di Roma - nell’arco di tempo
che va dalla metà del primo secolo sino alla svolta costantiniana, per
verificare se anche ciò abbia in qualche modo potuto concorrere ad essa.
Anticipando le
conclusioni di quanto cercherò di mostrare, si può affermare che accanto ad una
linea di pensiero che mantiene a lungo il carattere di generica riflessione sul
potere nelle sue varie manifestazioni e sugli obblighi dei cristiani verso di
esso, si è progressivamente venuta elaborando, specie in occidente, una più
puntuale riflessione sui caratteri e le funzioni proprie dell’impero romano;
una dinamica che risulta tanto più significativa perché sviluppatasi in
parallelo allo strutturarsi dell’organizzazione ecclesiastica nella forma del
monoepiscopato cittadino e, nella pars occidentis dell’impero, della sua
gravitazione su Roma.
Al cuore della
prima fase della riflessione cristiana sul potere, sta un problema molto
concreto e sentito nel contesto giudaico prima, e poi più generalmente nella
sensibilità delle popolazioni orientali sottomesse a Roma, ovvero quello della
tassazione.
Nella
formulazione paolina del tredicesimo capitolo della lettera ai romani (“rendete
a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse,
le tasse; a chi il timore il timore; a chi l’onore, l’onore”), che nel corso
dei secoli ha rappresentato il testo chiave di ogni teologia politica
cristiana, sono nitidamente individuate le due forme di tassazione proprie del
sistema fiscale romano: l’imposta capitaria sulle persone e i patrimoni
(phoros/tributum), inteso quale segno di sottomissione al potere del
vincitore, e quella indiretta sulle attività e le transazioni economiche (telos/vectigal); accanto ad esse, viene distinta
l’obbedienza dovuta a chi esercitava il potere giudiziario, su delega
dell’autorità superiore, per giudicare e reprimere il crimine
(phobos/timor),
dalla sottomissione riservata al detentore del potere politico in quanto tale
(time/honor).
Così, pur
indirizzate ai cristiani di Roma dove risultavano immediatamente tangibili, le
parole di Paolo conservavano il loro pieno significato anche in altri contesti
geografici e sociali, in accordo con le forme dell’articolazione gerarchica e
personale con cui tali poteri venivano concretamente esperiti dai primi
cristiani che li identificavano nel locale esattore delle tasse o nei soldati
preposti all’ordine pubblico piuttosto che in altre figure intermedie.
La riflessione
di Paolo, pur ancora nell’orizzonte di un’escatologia imminente, si sforza così
di dettare una serie di indicazioni valide per il tempo di sospensione che da
quello separa ancora il presente; per contestualizzarle in dettaglio, sappiamo
ad esempio da Tacito che in quel torno di anni la popolazione di Roma era in
subbuglio per il peso del carico fiscale, cosa che indusse Nerone ad una
parziale modifica del sistema daziario.
Le
affermazioni paoline avevano dunque con ogni probabilità una portata del tutto
contingente, senza essere state pensate dallo stesso Paolo come un precetto
assoluto - come peraltro l’esegesi antica tenne fermo a lungo, risultando in
ciò assai più avveduta di molta esegesi “scientifica” moderna; erano tuttavia
destinate a caricarsi di una portata ben più ampia, come detto.
Scrivendo
qualche decennio più tardi, l’autore della prima lettera di Pietro riprende
letteralmente parecchie delle idee paoline sul rapporto di subordinazione dei
cristiani nei confronti dell’autorità, sforzandosi però di collocarle in
termini più efficaci dal punto di vista politico-amministrativo, distinguendo
il basileus dai “governatori inviati
da lui”, e senza menzionare direttamente le tasse.
Il timore
(phobos) questa volta viene riservato a Dio, mentre si ribadisce come
l’onore (time) vada tributato al basileus; fattore
unificante (lo ritroviamo anche nella prima lettera di Timoteo) dell’atteggiamento
dei cristiani verso il potere diviene la preghiera in favore dei governanti,
che viene presentata come una manifestazione libera e spontanea di lealismo,
andando a sostituire su di un piano spirituale il tributo materiale e imposto
della tassazione - ovviamente a livello di enunciati prescrittivi, perché dopo
le parole fatte apporre da Pilato sulla croce di Gesù secondo il vangelo di
Luca, aperte rivolte fiscali sono sempre rimaste tendenzialmente estranee alla
prassi cristiana dei primi secoli.
Questa linea
di pensiero, che imposta l’atteggiamento cristiano verso il potere attorno
all’idea della sottomissione e del lealismo testimoniati dalla preghiera, si
snoda senza soluzione di continuità dalla fine del primo secolo sino alla metà
del terzo, a partire dalla lettera di Clemente Romano ai Corinzi, che ribadisce
il dovere della preghiera per i regnanti, passando per Giustino, che unitamente
alla riaffermazione della fedeltà fiscale dei cristiani cerca di depotenziare
ogni implicazione politica del concetto di “regno di Dio” dichiarandone la
natura esclusivamente spirituale e ultraterrena, sino a Origene, che ne
rappresenta il momento speculativamente e teologicamente più avanzato e
avvertito.
Questi, nel
contesto del dibattito che travagliava le chiese sull’atteggiamento da assumere
nei periodi di persecuzione, non esita ad affermare sulle orme di Paolo il
dovere dei cristiani di restare sottomessi pure ad un sovrano ingiusto e
persecutore, che comunque dovrà rendere conto di sé a Dio nel momento del
giudizio; del resto, per Origene il potere politico viene esercitato
nell’ambito di quella dimensione terrena che il cristiano è chiamato a
trascendere per attingere già in questa vita alla vera realtà spirituale.
Se, nella
prospettiva cristiana, l’esercizio dell’autorità secolare acquisiva in questo
modo un proprio statuto autonomo di legittimità, legato all’idea di legge
naturale universalmente conoscibile che deve ispirarne l’azione, una tale
posizione scontava due gravi limitazioni agli occhi dei detentori del potere
imperiale: anzitutto una certa indeterminatezza storico-politica, per cui
qualsiasi autorità risultava di fatto fungibile da parte dei cristiani, senza
che una eventuale incorporazione del loro Dio nel pantheon romano ne
garantisse appieno la fedeltà, dato il carattere universalistico e non
etnico-territoriale della loro religione, diffusasi anche al di fuori dei
confini dell’impero (e in questo senso è significativo il protettorato che
Costantino proclamerà nei confronti dei cristiani residenti al di fuori dei
suoi diretti dominii all’indomani dell’accesso al potere anche nella pars
orientis dell’impero).
Soprattutto, a
distanza di settant’anni da quando Celso, a nome di Marco Aurelio, aveva
sollecitato i cristiani ad assumere un ruolo più attivo nella difesa militare e
nella gestione politica dell’impero (specie delle concrete vicende
dell’autogoverno cittadino), la risposta di Origene non andava al di là di
reiterate proclamazioni di lealismo e promesse di preghiere, nonostante l’estensione
universale della cittadinanza avvenuta con la constitutio antoniniana
e lo stesso avvicinamento delle élites cristiane al potere imperiale
nel periodo della ben disposta dinastia severiana.
Sarà solo con
l’editto di Serdica del 311, che l’autorità romana, nella persona di Galerio,
accetterà controvoglia le preghiere dei cristiani, inserendole, sia pure con
difficoltà, nel tradizionale schema teologico- politico romano della pax
deorum:
“poiché vedemmo che essi non tributavano la dovuta venerazione agli dei celesti
e che neppure onoravano il Dio dei cristiani (...) in conformità a quanto da
noi disposto, i cristiani sono tenuti a pregare il loro Dio per la salvezza
nostra, della respublica e di loro stessi, affinché in ogni modo la
respublica si confermi integra ed essi possano vivere sereni nelle loro
case”.
Che per di più
tra i cristiani dei primi secoli l’ermeneutica delle parole di Paolo non fosse
solo quella che sfociava nel lealismo e nelle preghiere per i sovrani, bensì
fossero possibili sulla loro base anche atteggiamenti che agli occhi delle
autorità romane dovevano risultare quanto meno ambigui, è testimoniato dal
breve resoconto degli atti dei martiri scilitani, risalenti al 180; il loro
portavoce, Sperato, ha con sé proprio le lettere di Paolo “un uomo giusto” e
per definire la sua posizione afferma di non aver commesso furto, bensì di aver
pagato la tassa (teloneum) ogni volta che ha acquistato qualcosa,
perché “conosco il mio signore (dominum), re dei re (rex regum) e imperatore (imperator) di tutte le
genti”, anche se “non conosco l’impero (imperium) di questo mondo”.
Dal canto suo,
Donata, una sua compagna, non esita a proclamare “onore a Cesare come Cesare,
ma timore a Dio” (honorem caesari quasi caesari; timor autem Deo); la
precisione della terminologia politica e amministrativa utilizzata mostra come
il pagamento a Cesare delle tasse sulle transazioni non comporti nessuna
ammissione di appartenenza o sottomissione che travalichi il semplice
svolgimento ordinato della vita quotidiana: l’assenza di ogni menzione del
tributum,
la tassa capitaria, è altrettanto eloquente del rifiuto esplicito di
riconoscere l’impero e l’imperatore di questo mondo, in quanto tale e non come
semplice Cesare. E il timore, come nel caso della prima lettera di Pietro, è
riferito piuttosto a Dio, sommo giudice, che ha insegnato ai cristiani a non
rubare, a non dire falsa testimonianza e a non uccidere.
Proprio nel
drammatico contesto dell’ondata persecutoria accesasi intorno all’ultimo quarto
del secondo secolo, di cui gli atti dei martiri scilitani sono testimonianza,
la riflessione cristiana inizia a interrogarsi sulle condizioni e le
caratteristiche specifiche del potere incarnato da Roma e dai romani,
avviandosi a superare la genericità delle indicazioni di matrice paolina sin lì
dominanti.
Nel celebre
frammento della sua apologia, trasmessoci da Eusebio di Cesarea, Melitone
vescovo di Sardi sviluppa tre idee, di differente provenienza e destinate ad
avere altrettanto diversa fortuna negli autori e nei decenni immediatamente
successivi. La più celebre è legata al cosiddetto “sincronismo augusteo”,
ovvero alla presunta coincidenza cronologica tra la fondazione dell’impero da
parte di Augusto e la diffusione al suo interno del cristianesimo.
Nonostante la
storiografia più recente, soprattutto di area anglosassone, abbia voluto vedere
un antecedente esplicito di questa posizione nell’opera lucana, sino a spostare
molto in avanti - addirittura in epoca adrianea - la redazione degli atti degli
apostoli per farla coincidere con un periodo di relativa tranquillità per la
nuova religione, è solo con Melitone che una simile affermazione viene
formulata con nettezza.
Tuttavia,
Melitone risulta meno ingenuo di quanto in genere gli storici siano disposti a
concedergli. Infatti, egli si mostra ben cosciente della genesi sostanzialmente
allotria del cristianesimo rispetto all’orizzonte propriamente romano,
affermando che esso si è diffuso anzitutto tra i barbari, intendendo con ciò
tutta l’area mediorientale piuttosto che il solo ambito giudaico, e
riconoscendo altresì come per la sua propagazione si sia giovato del periodo di
pace e stabilità garantite dall’impero sino a Nerone e Domiziano, i quali
furono non solo persecutori dei cristiani, ma pure causa di guerra civile o di
sollevazioni senatorie che misero a repentaglio quella medesima pace e
stabilità.
È questa la
seconda idea teologico-politica melitoniana, ovvero l’associazione tra
persecuzione, crisi dell’impero, morte infamante dei persecutori, che si
tradurrà di lì a poco nel topos storico-letterario de mortibus
persecutorum,
e manterrà inalterata la sua fortuna anche in epoca costantiniana. Centrale per
il superamento dell’originaria estraneità cristiana a Roma e alla sua cultura è
però il terzo fattore, ovvero la presentazione del cristianesimo come “filosofia”,
sulle orme di una tradizione che si era avviata da Aristide e si prolunga nella
seconda generazione degli apologisti cristiani.
Questa
identificazione era stata resa possibile dalla svolta ellenizzante di Adriano,
che aveva definitivamente legittimato la presenza e il ruolo sociale della
filosofia, fin lì considerata a Roma e nella cultura latina un prodotto
d’importazione. Non è un caso che Melitone menzioni proprio Adriano, unitamente
ad Antonino Pio, in chiara opposizione a Nerone e Domiziano, che furono
protagonisti non solo delle persecuzioni religiose, ma anche di una dura
repressione antifilosofica.
In questo modo
Melitone, pur riconoscendo l’origine non romana e “barbarica” del
cristianesimo, lo associava ad una pratica culturale ed esistenziale che
inizialmente era stata vista come altrettanto estranea e sospetta, ma che ora
risultava pienamente integrata nella cultura imperiale, tanto più sotto un
imperatore “filosofo” quale Marco Aurelio diceva - o millantava - di essere.
In termini
meno enfatici, la medesima sottolineatura del ruolo positivo svolto dalla
condizione di sottomissione dell’ecumene all’impero romano emerge anche da una
cursoria osservazione di Ireneo di Lione, che, forse riecheggiando l’encomio di
Roma di Elio Aristide, afferma che “il mondo è in pace grazie ai Romani, così
che noi possiamo viaggiare senza paura, per terra e per mare, ovunque vogliamo”
e - implicitamente - proprio grazie a ciò diffondere il vangelo, come era
accaduto nel suo caso, che lo aveva visto muovere dall’Asia a Roma, alle
Gallie.
Più rilevante
e più celebre è la successiva inserzione, operata da Ireneo, del dominio di
Roma nello schema apocalittico dei quattro regni universali del libro di
Daniele, a sua volta rielaborazione biblica dell’originaria idea ellenistica
della traslatio imperii.
Non ci è
purtroppo giunto il trattato di Melitone sull’Apocalisse di Giovanni e il
diavolo,
che avrebbe consentito di vedere come il vescovo di Sardi maneggiasse un testo,
anzi con ogni probabilità il testo, che era alla base delle frenesie
escatologiche dei vari movimenti cristiani che preoccupavano tanto le autorità
romane, quanto le stesse gerarchie ecclesiastiche che proprio allora si stavano
consolidando intorno alle idee di episcopato monarchico e di successione
apostolica.
In Ireneo è
evidente il tentativo di disinnescare la portata eversiva della pulsione
millenaristica che il generico rimando alla prescrizione paolina di
sottomissione non sembrava più in grado di contenere, attraverso l’elaborazione
di un poderoso affresco escatologico in cui la cronologia si dilata in avanti e
il ruolo di Roma risulta quanto meno ambivalente: la stessa identificazione
della cifra della bestia apocalittica con Lateinos rappresenta solo
una tra le molte possibilità presentate da Ireneo, mentre l’accenno alla
provenienza dell’Anticristo escatologico dalla tribù di Dan, che Ippolito
svilupperà in una direzione coerentemente antigiudaica, sembra orientare verso
oriente - e non verso Roma - lo sguardo di chi attende con la persecuzione
finale anche il definitivo instaurarsi del regno di Dio su questa terra.
Le posizioni
di Ireneo vennero rielaborate immediatamente a ridosso dell’inizio del III
secolo da Ippolito nel suo sistematico commento al libro di Daniele, con un
approccio particolarmente attento alle implicazioni politologiche del testo e
alle concrete dinamiche storico-politiche del potere romano contemporaneo. Il
sincronismo augusteo viene riproposto da Ippolito in una chiave meno ingenua e
più sottile di quella di Melitone; il culmine del potere romano non rappresenta
solo la condizione che favorisce la diffusione del cristianesimo, ma
costituisce al tempo stesso una contraffazione di matrice diabolica del vero
universalismo cristiano: il primo censimento venne realizzato da Augusto perché
gli uomini di questo mondo, censiti da un re terreno, venissero chiamati
romani, mentre i sudditi del re celeste venissero chiamati cristiani.
La riflessione
di Ippolito analizza acutamente la struttura del contemporaneo potere romano,
laddove individua nella concessione della cittadinanza lo strumento con cui
vengono cooptati “i più nobili da tutte le nazioni” in vista dell’approntamento
dell’esercito. Agli occhi di Ippolito, nella volontà di sottomettere tutte le
altre popolazioni l’impero romano risulta del tutto in linea con i tre
precedenti, con la sola decisiva differenza che, mentre questi fondavano il
loro potere militare su un esercito monoetnico, la leva romana era estesa a
tutte le popolazioni, e al suo termine era appunto possibile ottenere la
cittadinanza; proprio questa modalità era stata lodata da Elio Aristide nel già
ricordato Encomio di Roma come segno di governo illuminato, capace di
associare a sé i migliori tra i non romani.
Il massiccio
ricorso ad una siffatta forma di reclutamento - ancora una volta - si era
avviato con Marco Aurelio e proprio su questo punto aveva richiamato
l’attenzione anche Celso; con Settimio Severo si era acuito così un problema
che, in aggiunta a quello della tassazione, doveva essere dibattuto nelle
comunità cristiane, specie nel periodo dei conflitti civili a cavallo tra
secondo e terzo secolo.
In quanto
espressione della medesima libido dominandi, l’impero romano non risulta né
migliore né peggiore di quelli che l’hanno preceduto, solo più militarmente più
potente e perciò più efficace ed esteso; proprio per questo, dopo l’inevitabile
dissoluzione di esso, l’ultimo dominio universale, massimamente contraffattorio
del regnum Dei, l’impero dell’Anticristo, ne riassumerà le specifiche
fattezze, a partire dall’esaltazione della propria forza militare. Così,
partendo dal grado di orgoglio e di autoesaltazione che li connota è possibile
distinguere tra re sottomessi a Dio e re destinati ad essere smascherati dal
giudizio di Dio; tesi questa che richiama in modo indiretto e più problematico
l’ingenua teoria sulla morte dei persecutori avanzata da Melitone.
Soprattutto,
Ippolito combina accuratamente il sincronismo augusteo con la cronologia
biblica esamillenaria della storia universale, prospettando con precisione una
scansione che rimanda da lì a oltre trecento anni il compiersi dei tempi, la
conseguente frantumazione dell’impero romano in una poliarchia, l’apparizione
finale dell’Anticristo tra gli ebrei; Ippolito rispondeva con tutta probabilità
ad analoghi computi che ritenevano invece ben più imminente la fine, come, a
detta di Eusebio, avrebbe fatto un certo Giuda, sempre sotto Severo.
Le fila delle
riflessioni ippolitee che intrecciano cronologia biblica, cronologia romana,
cronologia cristiana potranno essere poi tirate in una direzione marcatamente
filoromana da Giulio Africano prima e soprattutto da Eusebio poi; ma questo
potrà accadere solo dopo la svolta “universalistica” della constitutio
antoniniana e l’atteggiamento filocristiano di Alessandro Severo.
In Ippolito,
invece, permane ancora un atteggiamento che si potrebbe definire esterno, se
non estraneo, rispetto all’impero, considerato un dato storico di fatto dalla
prospettiva di un esponente di una popolazione sottomessa e probabilmente
coinvolta nei conflitti civili a cavallo tra secondo e terzo secolo, la cui
strumentazione concettuale risulta innervata da una acuta combinazione di
concetti politologici ellenistici (la translatio imperii, l’originale rideclinazione dell’opposizione
tra monarchia e democrazia nei termini dell’opposizione tra un solo potere
romano e i molti poteri che deriveranno dal suo crollo), osservazioni storiche
pragmatiche (il ruolo centrale degli eserciti nell’acquisizione e nel
mantenimento del potere, la politica romana di concessione della cittadinanza)
e presupposti biblico-teologici (la cronologia universale dalla creazione
all’eschaton).
In quegli
stessi anni, nell’Africa romana, Tertulliano recepisce le sollecitazioni
provenienti dall’oriente cristiano, ma ne inserisce le tensioni escatologiche e
politiche in un quadro significativamente modificato, tale da avviare la
costruzione di un’escatologia politica propriamente occidentale. Sin dall’Apologeticum, infatti,
Tertulliano lega l’ormai tradizionale tema della preghiera pro
imperatoribus, apertamente ricondotto all’insegnamento della prima lettera
di Timoteo, alla funzione esercitata da essi e più in generale dall’impero
romano nell’allontanamento della fine dei tempi, considerata più o meno imminente,
ma senza che egli si addentri in computi cronologici più specifici quali quelli
elaborati da Ippolito e dagli altri cronografi cristiani.
Sono tre gli
aspetti degni di nota della nuova prospettiva inaugurata da Tertulliano.
Anzittutto, l’abbandono di ogni riferimento alla teoria ellenistico-danielica
della translatio imperii, che vedeva nel
potere romano un epigono dei precedenti, senza alcun tratto ideologicamente o
qualitativamente distintivo; nemmeno troppo implicitamente, Tertulliano lascia
invece trasparire una sorta di adesione condizionata al mito della aeternitas
di Roma, laddove afferma che i cristiani, non volendo sperimentare le
acerbitates horrendae comportate dalla fine dei tempi coincidente con il commeatus
romani imperii, pregano per il suo differimento e con
ciò stesso contribuiscono alla diuturnitas Romana.
In secondo
luogo, l’oggetto delle preghiere e dell’interesse teologico-politico di
Tertulliano non risulta più limitato alle sole persone degli imperatori o dei
loro rappresentanti, come era stato sino ad allora, bensì si allarga alla
condizione complessiva del sistema di dominio romano, lo status romanus; sempre più, nelle opere successive,
esso viene ad assumere un ruolo di “trattenimento” della fine modellato a
contrario sulla funzione assegnata nella seconda lettera ai tessalonicesi
alla misteriosa figura del katechon, che fino ad allora aveva avuto un
significato puramente negativo, di ciò o colui che impediva la parousia
di Cristo.
Indubbiamente,
persiste anche in Tertulliano una certa dose di ambivalenza, se non di
ambiguità, dato che, in ogni caso, l’aeternitas di Roma non trascende
la dimensione del saeculum presente; ma viene meno - ed è la terza
novità introdotta da Tertulliano - quell’estraneità radicale affermata ad esempio
negli atti dei martiri scillitani, sostituita da un atteggiamento di piena
condivisione della situazione politica comune, nei suoi aspetti tanto positivi,
quanto soprattutto negativi: “quando l’impero è scosso (concutitur), sono scossi
anche i suoi membri, ed anche noi, sia pure estranei alle turbe, in qualche
modo ne siamo coinvolti”. Questa prima inserzione dei cristiani nell’orizzonte
politico dell’impero segna una significativa divaricazione rispetto al più o
meno contemporaneo commento ippoliteo a Daniele e apre la strada ad una sempre
più marcata romanizzazione dell’escatologia occidentale.
Così, il
vescovo pannonico Vittorino di Petovio supera lo schema ermeneutico orientale
che vedeva nelle profezie vetero e neotestamentarie esclusivamente il preannuncio
di eventi escatologici a venire, per individuarvi invece puntuali riferimenti
ad eventi storici intermedi, tra cui la successione degli imperatori adombrati,
a suo dire, dall’Apocalisse di Giovanni; si tratta di una linea
cronografica già presente in autori come Clemente Alessandrino, dove assumeva
però una valenza deescatologizzante, mentre Vittorino la lega, con un complesso
procedimento esegetico, all’identificazione del persecutore dei tempi finali
con il Nero redivivus proveniente dall’oriente.
La minacciosa
rappresentazione di un re devastatore ex oriente affonda le radici
addirittura nell’epoca preclassica, ma venne particolarmente diffusa dagli
oracoli sibillini e ancora in epoca imperiale dalle cosiddette profezie di
Istaspe, la cui lettura era stata proibita dalle autorità romane - o almeno
così ci dice Giustino.
Nel quadro
della tradizionale opposizione tra occidente e oriente, la visione escatologica
di Vittorino assegna all’impero uno statuto peculiare: il nemico finale, tanto
dei cristiani, quanto dei romani, è un ex imperatore persecutore, anzi il
persecutore per antonomasia, ma proprio dall’impero nella sua forma attuale
partirà la resistenza nei suoi confronti. In questo modo, l’intera vicenda
cristiana si colloca a pieno titolo entro quella romana, come testimonierà di
lì a poco Commodiano con i suoi tentativi di raccordare strettamente la
cronologia apocalittica alle vicende dell’impero susseguenti all’invasione
persiana del 259/60, giungendo addirittura a duplicare la figura dell’Anticristo
per meglio riuscire nel proprio intento.
Scrivendo
proprio alla corte occidentale di Costantino e a lui dedicandolo il settimo e
ultimo libro delle Divinae institutiones,
Lattanzio opera sul piano teorico il definitivo abbandono di ogni idea di estraneità
cristiana all’impero. In questo senso, la sua vicenda risulta oltremodo
significativa. Proveniente dall’Africa cristiana, la sua piena adesione al
cristianesimo avvenne però in Asia minore, dove l’aveva chiamato Diocleziano e
dove presumibilmente dovette conoscere le tradizioni cronografiche ed
escatologiche di matrice ippolitea, e più in generale il cristianesimo
d’impronta orientale, che sembrano caratterizzare ancora la sua presentazione
dei tempi finali. Tuttavia, le ultime parole del suo scritto ne scandiscono
l’epitaffio e aprono ad un orizzonte totalmente rinnovato:
“Quando
tuttavia debba compiersi tutto ciò, lo insegnano coloro che hanno scritto
riguardo ai tempi, ricavando dai sacri testi e da diverse storie il numero di
anni passati dall’inizio del mondo. Benché questi varino e le loro somme
complessive risultino un po’ diverse, non sembra che l’attesa sia superiore a
duecento anni. La cosa in sé mostra che la rovina e il crollo del mondo saranno
tra breve, tranne che non si deve temere nulla di ciò fino a che la città di
Roma è sana e salva.
Quando invero
quel capo del mondo sarà caduto e comincerà ad esserci la violenza che le
sibille prevedono, chi potrà dubitare che per gli uomini e per il mondo sia
venuta ormai la fine? Quella è la città che tiene tutto ancora in piedi e noi
dobbiamo implorare e adorare il Dio del cielo, posto che i suoi disegni e i
suoi decreti possano essere differiti, che non venga più presto di quanto
pensiamo quel tiranno abominevole, che ordisca un tale crimine e strappi via
quella luce, alla cui rovina il mondo stesso cadrà”.
Difficile dire
se questa celebrazione di Roma e della sua funzione katechontica da
parte cristiana preceda o segua, sia causa (anche solo minima) o effetto della
svolta di Costantino all’indomani di ponte Milvio. Certo è che simili accenti
non erano mai risuonati sino ad allora nella pars orientis dell’impero
e solo con Eusebio si assisterà lì alla definitiva liquidazione di ogni
cronologia apocalittica, qui ancora in qualche misura solo sospesa.
È però lo
stesso Eusebio a indicare nella biografia di Costantino la motivazione
ideologica che lo avrebbe spinto a calare su Roma e a innalzarvi il labaro dopo
la vittoria su Massenzio: “Considerava l’intero assetto del mondo come un
grande corpo e si rese conto che il capo del tutto, la città che regnava sul
potere dei romani era oppressa da una schiavitù tirannica (...); dichiarò
quindi che la vita gli sarebbe stata invivibile se avesse abbandonato la città
regale così vessata”.
Una simile
immagine organica per caratterizzare la respublica non costituisce di
per sé una novità, rimontando addirittura a Platone, e lo stesso si può dire
della retorica antitirannica qui utilizzata. Tuttavia Eusebio colloca proprio a
ridosso di questa decisione l’avvicinamento di Costantino al cristianesimo che
culminerà nella celebre visione di ponte Milvio, almeno a detta del biografo,
che sottolinea altresì come sempre a seguito di quella circostanza Costantino
iniziasse la lettura dei testi sacri e la frequentazione di sacerdoti e
vescovi.
Accenni
indubbiamente labili per stabilire una diretta connessione tra la “conversione”
di Costantino e il suo incontro con un cristianesimo più disponibile a una
possibile composizione con Roma di quello che Costantino aveva potuto invece
conoscere nella sua permanenza in oriente e con un episcopato come quello
gallico meno litigioso, perché probabilmente meno numeroso e intellettualmente
sofisticato del suo corrispettivo orientale (o africano).
Certo è però
che tra gli atti successivi alla battaglia di Ponte Milvio compaiono una
cospicua donazione economica ai vescovi delle province africane e la
convocazione, a Roma e di fronte al suo vescovo, di un sinodo destinato a
risolvere i problemi di giurisdizione ecclesiastica insorti proprio in Africa a
seguito della questione donatista; Costantino impone altresì la presenza di tre
vescovi provenienti dalle Gallie, Reticio di Autun, Materno di Colonia e Marino
di Arles e, dopo il fallimento di quel primo tentativo di pacificazione,
provvede immediatamente a indirne un secondo proprio in quest’ultima città, per
chiudere il conflitto “anche se tardi” e ristabilire la necessaria concordia.
Va rilevato come nella seconda lettera di convocazione Costantino non manchi di
sottolineare il ruolo svolto dal vescovo di Roma nell’incontro precedente.
Quantomeno il
gesto di munificenza imperiale potrebbe apparire del tutto in continuità con
l’analogo sostegno offerto da Aureliano ai sacerdoti del templum solis
poco più di una generazione prima; ma un punto decisivo li differenzia, ovvero
il reciproco rispecchiamento, inconcepibile nel culto solare e nei suoi
officianti, tra imperatore e vescovi nell’esercizio dell’autorità. Sulla scia
delle cosiddette lettere pastorali, l’immagine del governo di questi ultimi
sulle chiese veniva per lo più associata dai cristiani a quella del pater
familias che sovrintende alla gestione del complesso della domus.
Ma nella
Didascalia apostolorum, redatta in Siria nel corso del terzo secolo, la
funzione episcopale viene assolutizzata con modalità che rappresentano un
unicum nella letteratura disciplinare cristiana; rivolgendosi ai fedeli,
l’autore li invita infatti ad amare il vescovo come un padre, temerlo come un
re, onorarlo come Dio. Se dopo la svolta costantiniana, Eusebio di Cesarea
costruirà l’ideologia dell’imperatore cristiano e Costantino una nuova Roma in
oriente, l’immagine del vescovo-imperatore verrà traslata in occidente da un
anonimo traduttore, probabilmente di ascendenza ariana, intorno alla metà del
IV secolo.
Bisognerà
attendere Agostino e la sua Città di Dio perché si sciolga, almeno in
occidente, il nodo così venutosi a stringere tra il cristianesimo e Roma,
mentre l’impero secolare di quest’ultima viene derubricato a semplice tappa,
forse neppure la più importante, di un disegno provvidenziale e di una storia
umana destinati entrambi a proseguire ben oltre il suo tramonto.
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