mercoledì 28 novembre 2012

San Paisij Veličkovskij


Santo monaco Paisij Veličkovskij (1722-1794)

15 (28) Novembre

 

Autobiografia di uno Starets è il titolo di un libro tradotto in italiano nel 1988 [1], in cui Paisij Veličkovskij racconta la sua vita e la giovanile ricerca di un monastero rispondente alle sue esigenze spirituali, senza però darci l’esperienza degli anni della maturità, quando numerose comunità si formarono attorno a lui in diversi paesi europei.

Nato a Poltava, in Ucraina, il 21 dicembre 1722, da un arciprete sposato a Irina, che nei suoi ultimi anni fu monaca, undicesimo di dodici fratelli, tutti morti prima della sua maggiore età, Pietro (suo nome di battesimo, Paisij essendo quello monastico) rimase orfano del padre a quattro anni. Si prevedeva che, come il padre, sarebbe divenuto arciprete della chiesa della Dormizione della Madre di Dio a Poltava, tanto più che del 1735 al 1739 frequentò brillantemente l’Accademia ecclesiastica a Kiev, ma il giovane si sentiva attratto dalla vita monastica e il suo direttore spirituale l’incoraggiava a questo, nonostante l’opposizione della madre. Iniziò il suo pellegrinaggio in vari monasteri, da quello di Lubeč e poi di Medvedovo (zona dell’Ucraina nel regno polacco). Fu nel monastero delle Grotte Pecerskij a Kiev, dove però notò l’influenza della politica religiosa degli zar, e preferì trasferirsi all’estero, in Moldavia, dapprima a Traisteni, e in seguito nello skit [2] di Čircul; da lì passò al monte Athos per attingere alle fonti della spiritualità monastica antica e vi risiedette dal 1746 al 1763. Anche lì non mancarono delusioni per la decadenza di alcune comunità, e non trovando un buon direttore spirituale visse per tre anni in solitudine guidandosi con le opere dei santi Padri, finché giunse all’Athos un santo starez che aveva conosciuto in Moldavia, il quale gli consigliò di vivere con due o tre fratelli, e nel 1750 lo ammise, all’età di 28 anni, alla professione monastica con il nome di Paisij. Presto attorno a lui si formò una comunità di dodici fratelli romeni e slavi, e anche per la loro insistenza a 36 anni accettò di essere ordinato sacerdote. Trasferitosi nella kellia di sant’Elia, più ampia, iniziò a ricercare e a tradurre in slavo testi patristici greci, facendosi aiutare anche dai suoi discepoli. Se le precedenti migrazioni erano state scelte da Pietro- Paisij, nel 1763 iniziarono quelle determinate dalle circostanze: con 64 monaci in tale anno rientrò in Moldavia, dove venne messo a sua disposizione dalle locali autorità ecclesiastiche e civili l’ampio, vuoto monastero dello Spirito Santo a Dragomirna; e in tre anni il numero dei fratelli si triplicò. Per loro Paisij scrisse un Ustav [Regola] secondo le norme già date da san Basilio il Grande, da san Feodosij di Kiev e da san Teodoro Studita, verificate nell’esperienza di diversi anni e che venivano diligentemente osservate dai monaci. Introdusse anche l’uso di conferenze spirituali alla comunità, che nei mesi invernali si riuniva fino alla Settimana Santa (una sera il gruppo di lingua moldava e l’altra di lingua slava) per ascoltare gli insegnamenti di Giovanni Climaco, dell’abate Doroteo, di Simeone il Nuovo Teologo e di altri Padri. S’intensificava pure il lavoro di traduzione delle loro opere, il cui frutto più prezioso sarà la Dobrotoljubie [Amore del bene], traduzione della Filocali di Nicodemo e Macario preparata in greco al monte Athos.

            In seguito alla conclusione della guerra russo-turca, una parte della Moldavia settentrionale, dove si trovava Dragomirna, fu ceduta all’Austria e, temendo le vessazioni degli Asburgo, Paisij si spostò coi suoi 350 monaci a Secu nel 1775. I fratelli aumentavano e quando per costruire nuove celle venne chiesto aiuto al principe Costantino Moruzi questi, consigliato dal metropolita Gabriele, gli ingiunse di trasferirsi a Neamt, distante pochi chilometri da Secu, nel più grande monastero del paese. Ciò avvenne nel 1779: una parte dei monaci rimase a Secu e Paisij fu superiore di entrambi i monasteri. «È l’ultima tappa della vita del grande starets, quella che lascerà i segni più duraturi e di maggior risonanza […] Neamt in quegli anni era diventato il centro del monachesimo ortodosso, scuola della vita esicasta e della cultura spirituale per tutto l’Oriente ortodosso» [3]. Nel 1790 venne nominato archimandrita dall’arcivescovo russo Amvrosij che lo visitò; e dell’incontro con lui avvenuto dieci anni prima, un laico, il nobile greco Costantino Karagias, ci ha lasciato una vivida desrizione: «Lo incontrai allora per la prima volta. Con i miei occhi vidi la stessa virtù materializzata, un uomo libero dalle passioni e assolutamente trasparente. La sua figura mi appariva dolcissima, il suo viso bianchissimo, come esangue. La sua barba era tutta bianca e luccicante, pulitissima. Era molto dolce nel conversare, senza alcuna finzione» [4].

            Erano ormai un migliaio i suoi monaci di diverse nazionalità (russi, romeni, serbi, greci e bulgari) quando, dopo breve malattia, morì il 15 novembre 1794, alla vigilia del suo sessentaduesimo compleanno. Venne sepolto nella chiesa dell’Ascensione del Signore del monastero di Neamt. «La vita e l’opera dello starets Paisij hanno influito nella storia di centinaia di monasteri russi», afferma il metropolita Juvenalij [5], vivente, e anche nel libro di Ivan Kologrivov, Santi russi, un intero capitolo è dedicato a «Paisij Veličkovskij e gli inizi della rinascita mistica» [6].

            Oltre all’indefessa attività epistolare e di traduzione, Paisij ci ha lasciato alcuni scritti, tra cui i Capitoli sulla preghiera interiore, dove si vede quale importanza egli attribuisce alla preghiera detta «di Gesù» o «del cuore», al cui formula conclude il Tropario alla preghiera in onore del santo [7]. «Essa permette di restare interioremente uniti a Gesù, perché questo ricordo purifica e santifica tutti i pensieri e i sentimenti di colui che prega e orienta tutte le sue azioni verso l’adempimento dei comandamenti di Cristo […] Invocare il suo Nome è già averlo in sé. La potenza del Nome del Salvatore infiamma il cuore di un amore ineffabile e divino» [8]. Nel Contacio invece, oltre a ricordare che il santo ha «nutrito le nostre anime di scritti patristici», lo si esalta quale rinnovatore dello starčestvo [«direzione, guida spirituale»] nella patria russa. I suoi discepoli, e furono molti, lo diffusero poi in luoghi diversi, continuandolo nel tempo, e il fenomeno venne studiato nelle biografie di Paisij o in appositi studi [9]. Si capisce quindi perché ancor prima della canonizzazione ufficiale, avvenuta nel 1988, durante le celebrazioni per il Millennio del Battesimo della Rus’, egli fosse stimato, venerato, ricordato e proposto ad esempio. Basti segnalare che le venti pagine su di lui nel citato volume di Kologrivov Santi russi furono pubblicate inizialmente nel 1952 [10].

 

 

Tropario - Tono 2

Vissuto sulla terra come pellegrino, hai raggiunto la celeste patria, santo monaco padre Paisij, dopo esserti esercitato nell’amore della virtù; ai fedeli hai insegnato a elevare verso Dio la loro mente e a invocarlo col cuore: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore.

 

Kontakion - Tono 8

Scelto zelatore della vita monastica, come un’ape laboriosa hai nutrito le nostre anime di scritti patristici, guidando ciascuno di noi sulla via della salvezza, per cui ti cantiamo: rallegrati, saggio padre Paisij, rinnovatore dello starčestvo [paternità spirituale] nella nostra patria.

 

 

Note

[1] Curato dalla Comunità dei Fratelli Contemplativi di Gesù, è stato pubblicato nel 1988 dall’Abbazia di Praglia (Pd). A. p. 48 dell’«Introduzione» si cerca di spiegare l’incompletezza del testo. La trascrizione italiana di starez è spesso data in modo diverso (ad es. starets).

[2] Così viene tuttora chiamata nell’Oriente bizantino una comunità monastica piccola, intermedia tra l’eremo e il cenobio.

[3] P. VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno Starets, cit., 22, n. 1.

[4] Cfr. ivi, 13, in cui si riporta la testimonianza da un libro in greco, edito a Salonicco nel 1963.

[5] Il metropolita Juvenalij lo scrive nel «Rapporto» presentato al Sinodo della Chiesa russa (6-9 giugno 1988) per le Canonizzazioni, cit., 104.

[6] Op. cit., 397-416.

[7] Segue il Contacio, cui si fa riferimento nelle righe successive.

[8] L. C. ALTISSIMO, I nuovi santi nella Chiesa russa, in «Studi ecumenici», 4 (ott-dic. 1989), 409. presentando Paisij Veličkovskij.

[9] A. PIOVANO, Santità e monachesimo in Russia, La Casa di Matriona, Milano 1990; a. p. 146ss. dà un elenco di sette pagine di starzi discepoli di Paisij. Cfr. anche P. VELIČKOVSKIJ, op. cit., 9-12.

[10] Pubblicato col titolo saggio sulla santità in Russia, da Queriniana, Brescia 1955, ma nella Prefazione l’A. mette la data del 1952 e riferisce che si tratta essenzialmente delle lezioni da lui tenute al Pontificio Istituto Orientale di Roma dal 1947 in poi.

 

Da: M. DONADEO, Preghiere a S. Andreij Rubliov e ad altri santi russi canonizzati dal Patriarcato di Mosca dal 1977 al 1993, 47-52.




I due tipi di preghiera

di san Paisij Veličkovskij


Bisogna sapere che secondo gli scritti dei santi padri ci sono due tipi di preghiere spirituali: uno per i principianti, che può essere paragonato all’azione (prâxis), e l’altro per i perfetti, che corrisponde alla contemplazione (theorìa). La prima è l’inizio, la seconda il punto di arrivo, poiché “agire” significa innalzarsi per “contemplare”. Proprio in questo sta infatti ogni sforzo ascetico quando si lotta con l’aiuto di Dio: si combatte per l’amore di Dio e del prossimo, per la dolcezza, la pazienza e l’umiltà e per adempiere tutte le altre leggi di Dio e dei padri; si combatte per la perfetta obbedienza dell’anima e del corpo, per i digiuni, le veglie, la contrizione, le genuflessioni e tutte le altre mortificazioni della carne, per l’esatta osservanza delle prescrizioni riguardanti l’ufficio divino e la preghiera in cella, per l’esercizio spirituale della preghiera privata, per le lacrime e la meditazione sulla morte. Tutto questo è lotta fintanto che la nostra ragione umana è preda dei nostri capricci e della nostra testardaggine. Tutto questo, lo si sa bene, può essere chiamato “agire”, “azione”, prâxis. Ma “vedere” e “contemplare”, tutto ciò ancora non lo è.

Quando però, con l’aiuto di Dio, attraverso questo combattimento e soprattutto in grande umiltà, l’uomo è arrivato a lavare la sua anima e il suo cuore da ogni impurità spirituale e dai godimenti della carne, allora interviene la grazia divina, nostra comune madre: essa illumina la nostra ragione, la prende per mano come la madre fa con il suo bambino, la fa salire gradino per gradino e le rivela, a seconda del grado della sua purezza, i misteri indicibili e insondabili di Dio. Questa è la vera visione, la contemplazione (theorìa).

Preghiera contemplativa - la “preghiera pura” di Isacco il Siro - sguardo rispettoso su Dio stesso: ecco cos’è. Che nessuno abbia ad avventurarsi in questa contemplazione con le sue proprie forze o di testa propria, senza che Dio lo visiti e lo guidi con la sua grazia. “Se, ciò nonostante, qualcuno avesse la pretesa di innalzarvisi senza la luce della grazia divina, sappia che, dice san Gregorio il Sinaita, le sue visioni sono solo chimere proiettate in lui dall’inganno del maligno”.

 

Da: P. VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno Starec, Magnano (BI), 1998, 201-202.

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