La Divina Liturgia Bizantina
di Robert F. Taft
1: L’analisi strutturale delle unità
liturgiche
Con
un’ammirabile audacia, gli autori francofoni mettono in piazza una teoria in
fìeri affinché i critici la discutano prima di riprendere ciò che rimane e sistemarlo
per una seconda edizione. Si coprono il fianco chiamando le loro sortite
esquisses, jalons, essais. Le pagine seguenti non sono niente più di questo.
Non propongono il metodo per studiare la liturgia, nemmeno una metodologia
organica, completa. Sono semplicemente alcune riflessioni sul metodo che nel
mio lavoro ho trovato fruttuoso. Allo stato presente della situazione
metodologica, tra i professionisti del nostro mestiere, forse non ci si può
aspettare di più.
Chiamo
volutamente il metodo “strutturale”, anziché “strutturalista”. Geneticamente
non è debitore in niente alla scuola strutturalista, è piuttosto una mia
elaborazione delle procedure imparate dall’apprendistato in ciò che
legittimamente può essere chiamata la “scuola di Mateos” dello studio della
liturgia orientale, un metodo che è esso stesso un allargamento del sistema
della “liturgia comparata” di Anton Baumstark, più tardi perfezionato da H.
Engberding e da altri della scuola di Baumstark.
Tuttavia, il
metodo comparativo ha qualcosa in comune con lo strutturalismo: entrambi sono
modi di rendere intelligibile attraverso la sistematizzazione. Non c’è
comunicazione senza chiarezza, non c’è chiarezza senza comprensione, non c’è
comprensione senza organizzazione - e organizzazione significa sistema. La
linguistica strutturale, ad esempio, tenta di sviluppare sistemi unificati,
“ossature di intelligibilità”, come li chiamo, per scoprire la struttura e le
leggi fondamentali di come funziona il linguaggio.
Questo è il
motivo per cui gli insegnanti delle elementari sono capaci di insegnare che
cosa è un verbo, ed è il motivo per cui, ad un livello molto più sofisticato,
degli esperti sono in grado di rovesciare il processo, dal sistema di
costruzione alla ricostruzione di linguaggi e di forme linguistiche estinte o
anche di intere lingue, a partire da loro frammenti ancora esistenti. Ciò che
Lévi-Strauss chiama la “struttura superficiale” può variare da lingua a lingua,
ma la “struttura profonda” è comune - e ciò che è comune è il fondamento di tutte
le generalizzazioni e il prerequisito dell’intero sistema.
Lévi-Strauss
ha applicato questo tipo di analisi allo studio del mito, e credo si possa
applicare, mutatis mutandis, allo studio della liturgia. Anche le liturgie
hanno una comune “struttura profonda”; anch’esse operano e si sviluppano
secondo alcune “leggi” comuni. Per di più, entrambi i metodi sono
“comparativi”, cercando di trovare la profonda comunanza sottostante a tutte le
differenze individuali che la sistematizzazione permette. Infine, entrambi i
sistemi manifestano le stesse caratteristiche: (1) economia di spiegazione; (2)
unità di soluzione; (3) abilità nel ricostruire il tutto dai suoi frammenti
esistenti; (4) abilità di ricostruire dai primitivi gradi di sviluppo i livelli
successivi.
Ci sono
tuttavia alcune differenze. Lo strutturalista cerca il significato; io,
anzitutto, cerco la struttura stessa. Perché nella storia dello sviluppo
liturgico, la struttura sopravvive al significato. Gli elementi sono conservati
anche quando il loro significato è perso (conservatorismo), o quando sono
divenuti staccati dalla loro originaria collocazione e scopo limitato,
acquisendo nel processo nuovi e più ampi significati (universalizzazione). E
sono introdotti elementi che non hanno una relazione evidente con altri
(arbitrarietà).
Nella storia
della spiegazione liturgica, c’è stato tuttavia un movimento contrario dalla
struttura all’interpretazione simbolica. La maggior patte dei commentatori
liturgici medioevali si occupavano solo del significato, e spesso le loro
interpretazioni facevano violenza alla struttura. Nel periodo della Riforma, la
struttura fu piegata a servire la teologia. La regola legem credendi lex
statuat supplicandi fu raggirata, e la teologia definiva, piuttosto che
interpretare, il testo e la forma liturgica.
Recentemente
si presta più rispetto alla storia e al testo, ma non alla struttura, almeno
tra i liturgisti occidentali. Nel mio lavoro cerco di rovesciare questo
processo, insistendo con gli strutturalisti sull’importanza dell’analisi
immediata della struttura stessa, prima di collegarla ad altre discipline come
la storia, la sociologia, o anche la teologia. Queste discipline sono
essenziali per la spiegazione del “come” e del “perché”, ma l’analisi
strutturale precedente è necessaria per scoprire il “cosa”.
Lo scopo di
questo metodo è la comprensione. La “struttura” è semplicemente un modello che
rivela come l’oggetto “lavora”. Naturalmente, questa analisi non si fa nel
vuoto. Ci dev’essere una dialettica costante tra analisi strutturale e ricerca
storica. Descrivo anzitutto l’analisi perché concettualmente viene per prima,
anche se non è sempre così nell’esecuzione.
In verità, per
me l’analisi strutturale è fondamentalmente un aiuto non solo per la
comprensione, ma anche per la ricostruzione storica. Karl Popper ed altri
filosofi della scienza hanno proposto che la conoscenza in un campo vada avanti
non per l’accumulo di nuovi dati, ma per l’invenzione di nuovi sistemi; non per
la verifica di ipotesi, ma per la loro falsificazione. La ripetizione dello
stesso esperimento in condizioni identiche per ottenere gli stessi risultati
può essere rassicurante, ma non aumenta per niente la nostra comprensione. Ciò
che l’aumenta è una nuova struttura di intelligibilità, come quando Einstein
rovesciò la fisica newtoniana.
Se la nostra
comprensione della liturgia deve aumentare, dobbiamo anche costantemente
cercare di piegare e negare le nostre strutture di lavoro, creare nuovi sistemi
che producano nuova conoscenza. Sono convinto che uno non possa fare questo
ignorando la storia. Negli ultimi anni è diventato comune accusare gli esperti
di liturgia di essere solo storici (presumibilmente un insulto) e persino fare
la straordinaria affermazione che, nella liturgia, il lavoro storico è già
stato fatto. Ma la storia è denigrata solo da chi ne è ignorante. E quelli che
pensano che il suo lavoro sia già stato fatto hanno frainteso la natura e gli
usi del mestiere.
Se c’è
qualcosa che i filosofi ci hanno insegnato negli ultimi anni, è che tutto,
comprese le scienze “esatte” o naturali, ha la sua storia, e le cosiddette
“leggi scientifiche” sono strutture ipotetiche, prodotti della mente umana.
Esse non fanno balzare la realtà agli occhi di ogni osservatore. Piuttosto,
sono strutture percepite che cambiano, non perché cambia la realtà, ma perché
cambia la percezione. E così la storia è una scienza non degli avvenimenti
passati, ma della comprensione attuale. Come ha detto qualcuno, la storia non
sono gli eventi, ma gli eventi diventati idee - e le idee sono del presente. Il
passato non cambia, ma noi sì, e questo è il motivo per cui il lavoro dello
storico è sempre del presente, mai compiuto.
Quindi, la
storia liturgica non ha a che fare con il passato, ma con la tradizione, che è
una visione genetica del presente, un presente condizionato dalla sua
comprensione delle proprie radici. E lo scopo di questa storia non è far
tornare il passato (che è impossibile), tanto meno imitarlo (che sarebbe
sciocco), ma capire la liturgia che, poiché ha una storia, può essere capita
solo in movimento, così come l’unico modo per capire una trottola è farla
girare.
Come
si adatta l’analisi strutturale come metodo con tutto ciò? Nel mio primo lavoro
di storia della liturgia mi è diventato subito chiaro che nello studio di
qualsiasi problema bisogna arrivare presto alla formulazione di ipotesi se si
vuole arrivare da qualche parte. La conoscenza non è l’accumulazione di dati,
ma la percezione delle relazioni che permette ai dati di essere organizzati in
modelli intelligibili.
Quanto prima
si arriva ad intuire modelli sufficienti per ipotesi di lavoro, tanto più
velocemente andranno le cose. Questo è vero anche se l’ipotesi risulta
sbagliata. Colombo scoprì che la terra era rotonda prima di salpare - e, se non
lo fosse stata, l’avrebbe scoperto abbastanza presto. Più di una volta
proseguivo solo per provare una tesi che un’ulteriore ricerca e prova mostrava
essere l’opposto della verità. Non importa. Provare è ciò che conduce alla
risposta esatta, che è fin dall’inizio dove volevo arrivare.
Ora, in questo
processo di formazione delle ipotesi, ho trovato che l’analisi strutturale
delle unità liturgiche è il primo passo più utile dopo la raccolta dei dati
iniziali. Ho trovato cioè preferibile identificare, isolare e ricostruire
ipoteticamente strutture liturgiche individuali, quindi tracciare la loro
storia come tale piuttosto che tentare di studiare i riti completi come
un’unità in ogni periodo storico. Infatti è stata una mia osservazione costante
che le liturgie non crescono regolarmente, come gli organismi viventi.
Piuttosto, i loro elementi individuali possiedono una loro vita propria.
Invece di
cercare di descrivere o giustificare concettualmente questa procedura, darò
semplicemente qualche esempio. Prendendo anzitutto le litanie e la salmodia
antifonale, cercherò di mostrare come vorrei usare l’analisi strutturale
comparata per ricostruire ipoteticamente le origini e la storia di queste
unità. Quindi, nel capitolo seguente, applicherò lo stesso metodo per risolvere
un attuale problema storico, la forma originaria della liturgia bizantina.
1. Litanie
Una varietà di
forme di preghiera per le intercessioni o “preghiere comuni”, che
tradizionalmente concludeva tutte le sinassi cristiane, si trova ancora, a
volte in forma confusa o degradata, nelle nostre attuali liturgie.
L’unità
fondamentale primitiva è l’invito diaconale a pregare (Oremus) seguito dalla
preghiera silenziosa, e concluso da una colletta:
Diacono: Preghiamo.
(Preghiera silenziosa)
Presbitero o vescovo: Colletta.
Almeno in
alcuni luoghi e/o tempi, era consuetudine dell’assemblea inginocchiarsi o
prostrarsi per il periodo della preghiera silenziosa, quindi alzarsi per la
colletta. Vediamo questo, ad esempio, descritto da Cassiano per l’ufficio monastico
egiziano alla fine del IV secolo. Nelle preghiere romane talvolta questo veniva
fatto esplicitamente dietro i comandi del diacono di inginocchiarsi, poi di
alzarsi:
Diacono:
Oremus.
Flectamus
genua.
(Preghiera
silenziosa)
Levate.
Prete: Colletta.
Occasionalmente
l’Oremus era ampliato per esprimere le intenzioni per cui pregare: “Oremus pro
pontifice nostro N., ut Deus eum custodiat…
La cosiddetta
“piccola litania” che abbonda nella tradizione bizantina è un resto fedele di
questa struttura: (1) Oremus, (2) comando di alzarsi, (4) colletta, alla quale
è stata aggiunta, in alcuni casi, una commemorazione della Madre di Dio (3):
Diacono: (1)
Ancora e ancora preghiamo in pace il Signore.
(2) Aiutaci,
salvaci, abbi pietà e preservaci, o Dio, con la tua grazia.
(3) Facendo
memoria della tutta santa, pura, benedetta e gloriosa Signora, la Madre di Dio
...
Prete: (4)
Colletta.
Mateos ha
dimostrato che il secondo elemento (2) è una rielaborazione del vecchio comando
di alzarsi (Levate). La commemorazione della Theotokos (3) è un’aggiunta
successiva alla synapte in solo alcuni casi.
Nelle
tradizioni romana ed alessandrina, era usanza ripetere questa unità
fondamentale (in tutto o in parte) per le molte intenzioni per cui si pregava.
Si noti anche
la forma letteraria: il celebrante indirizza la preghiera a Dio, in nome
dell’assemblea, come ministro. O l’assemblea in quanto “popolo sacerdotale”
prega Dio come un’unità, sebbene qui ciò sia fatto in silenzio. Quando il
diacono parla, si rivolge non a Dio, ma all’assemblea: “Preghiamo”.
Nelle fonti
del IV secolo di tradizioni orientali non egiziane, compare un nuovo sviluppo:
la litania. Diversa da come potrebbe sembrare inizialmente, è solo
un’espansione della primitiva unità (Oremus ... colletta) ancora mantenuta
nella tradizione romana, più conservatrice. Infatti la litania non fa che
riempire con una serie di suppliche espresse dal diacono ciò che nel più
vecchio sistema era un momento di preghiera silenziosa. E dalle Costituzioni
apostoliche, dalle Omelie di Crisostomo ad Antiochia e a Costantinopoli, dal
Testamentum Domini e da fonti bizantine c’è una ricca testimonianza del fatto
che il popolo si inginocchiasse durante la litania, di cui l’ultima parte
includeva il comando di alzarsi (levate). La forma letteraria rimane la stessa:
il diacono si rivolge al popolo (“Per. .. preghiamo il Signore”), ma nella loro
risposta, se espressa, i fedeli si rivolgono a Dio (Kyrie eleison), come fa il
celebrante nella preghiera conclusiva.
Un’ulteriore
espansione può essere trovata, ad esempio, nelle preghiere dei fedeli
(ricostruite) nella tradizione bizantina. Mentre il diacono riempiva il momento
precedente di preghiera silenziosa con suppliche affidate al popolo, il
celebrante diceva silenziosamente un’orazione pro clero in cui pregava per la
grazia di fare ciò che stava per compiere, cioè dire la colletta in nome del
popolo. Se la litania concludeva un ufficio, o era per una categoria che stava
per essere congedata, la colletta era seguita da un saluto (“Pace a tutti”), da
un comando del diacono (“Piegate il capo al Signore”) e dalla “Preghiera di
inclinazione” o benedizione finale sulle teste piegate del popolo.
Lo scopo
iniziale, e pertanto sufficiente, di questa analisi è semplicemente
l’intelligibilità. Ma questa comprensione delle strutture può avere
implicazioni più ampie. Non solo può fornire paradigmi per la lettura di testi
oscuri e la ricostituzione nella loro forma originaria di resti degradati; può
anche aiutare ad identificare un ritmo organico e una teologia della preghiera
comunitaria, dei ruoli ministeriali e così via, soggiacenti alle antiche
strutture e alla loro forma letteraria.
2. Salmodia
antifonale
La salmodia è
un’altra area in cui questa analisi può essere esemplificata. Generalmente si
crede che “salmodia antifonale” significhi l’alternarsi dei versetti del salmo
da parte dell’assemblea o della comunità divisa in due cori. Tale salmodia
monastica alternata è descritta da alcuni autori antichi, tra cui Basilio il
Grande. Ma questa non è salmodia antifonale.
Da un’analisi
delle fonti storiche e dalla liturgia comparata, si ricava che la salmodia
antifonale era una forma di salmodia di cattedrale (cioè non monastica) che
emerse dal primitivo metodo responsoriale di esecuzione del salmo. Il
responsorio consisteva nell’avere i versetti del salmo cantati da un solista e
il popolo che rispondeva ad ogni versetto con un singolo versetto di salmo
fisso chiamato responsorio. Questo versetto era dapprima intonato dal solista,
di modo che il popolo sapesse con che cosa rispondere:
Solista:
responsorio
Popolo:
responsorio
Solista:
versetto 1
Popolo:
responsorio
ecc.
Nell’elaborazione
antifonale di questa forma biblica originaria, il popolo è diviso in due cori e
risponde alternativamente con un ritornello o con un’antifona. Il ritornello è
per lo più una composizione ecclesiastica (cioè non biblica), e il salmo
finisce con il Gloria Patri. Nella salmodia responsoriale, il responsorio è
sempre il versetto di un salmo (o alleluia), e la salmodia non finisce con la
dossologia.
Questi
sono gli elementi fondamentali; all’interno di tale cornice si possono
osservare tutti i tipi di varianti. Alcune volte ci sono due solisti che
alternano i versetti del salmo e ogni coro risponde al suo solista. Spesso è
usato un ritornello diverso da ogni coro. Se il ritornello è troppo lungo per
essere completamente ripetuto dopo ogni versetto, è usata solo la sua parte
finale, chiamata nella terminologia tecnica greca akroteleution. All’inizio e
alla fine della salmodia, i solisti ed i cori si uniscono a formare un’unità.
Dopo il Gloria Patri che segna la fine del salmo, si usa spesso un ritornello
diverso, chiamato in greco perisse o “appendice”.
Ecco, ad
esempio, una forma di salmodia antifonale trovata nei primi documenti
bizantini.
Solisti
insieme: ritornello (3 volte)
Lettori e
popolo: ritornello (3 volte)
Primo solista:
versetto l
Primo coro:
ultima parte del ritornello (akroteleution)
Secondo
solista: versetto 2
Secondo coro:
ultima parte del ritornello
ecc.
Primo solista:
Gloria Patri
Primo coro:
ultima parte o l’intero ritornello
Solisti
insieme: ritornello o perisse
Lettori e
popolo: ritornello o perisse
In quasi tutte
le tradizioni, la salmodia antifonale fu scomposta, e ciò con cui siamo rimasti
sono i frammenti dell’unità originaria. Ma una intuizione della sua forma
originaria ci può aiutare a ricostruire l’unità a partire dai suoi frammenti.
Un passo nel processo di scomposizione si verifica perché il coro subentra al
ruolo del solista. Un altro perché l’unità stessa è abbreviata.
Nell’ufficio
romano questo fu fatto sopprimendo il ritornello tranne che all’inizio e alla
fine del salmo, lasciando che i cori alternassero solo i versetti del salmo (da
qui l’attuale confusione tra salmodia antifonale e salmodia alternata in molti
scritti liturgici occidentali. Nelle tradizioni orientali, era più comune che i
due cori diventassero uno, e che il ritornello soffocasse la maggior parte o
tutto dell’elemento biblico. Vediamo questo, ad esempio, nel Trisagio della
liturgia bizantina, attualmente cantato come segue:
1. Santo Dio,
santo, forte, santo, immortale, abbi pietà di noi (3 volte).
2. Gloria al
Padre ... ora e sempre ...
3. Santo,
immortale, abbi pietà di noi.
4. Santo Dio,
santo, forte, santo, immortale, abbi pietà di noi.
Ciò che
abbiamo qui è l’inizio (l) e la fine (2-4) di un antico salmo antifonale, che
include l’akroteleution (3), con i versetti del salmo e i loro ritornelli
completamente soppressi.
Si noti la
natura popolare della salmodia. Il popolo risponde con un ritornello fisso,
facilmente eseguibile. E l’elemento scritturistico, cantato chiaramente e
comprensibilmente da un solo solista, non soccombe allo smorzamento corale. La
mancata comprensione di queste forme originarie ha portato alla confusione tra
salmodia alternata (che è monastica) e antifonale (che è popolare) e
all’esecuzione - in un modo spesso incomprensibile dei versetti del salmo da
parte del coro invece che del solista, e così via. E ciò provoca frequentemente
anche un fraintendimento delle fonti storiche, specialmente per la liturgia
delle ore.
3. Analisi
strutturale e studio comparato della storia liturgica
L’analisi
strutturale unita alla conoscenza della liturgia comparata è anche d’aiuto nel
percepire come sono articolate le unità liturgiche e i gruppi di unità, come
crescono e come si scompongono. Ho trovato utile questa specie di analisi per
decifrare lo stato confuso e disordinato di molte parti liturgiche ancora
esistenti e per ricostruire la loro forma originaria.
A volte i
liturgisti sono accusati di arcaismo, della sindrome del “più vecchio è
meglio”. Quest’accusa è ingiustificata. Lo scopo dell’andare a ritroso non è
pervenire il più possibile alle forme temporalmente più remote per imitarle ma,
ancora una volta, capire. Si tenta di riandare al punto in cui l’unità che si
sta studiando emerge nella sua integrità originaria, prima che cominciasse la
scomposizione. Solitamente la scomposizione è provocata da successive aggiunte.
Alla fine i riti sovraccaricati, come i circuiti sovraccarichi, fanno saltare
un fusibile. Qualcosa finisce per essere tolto, e in questa riduzione del
carico liturgico, l’integrità delle unità è raramente rispettata, soprattutto
se la loro forma originaria non è più capita, o se esse non sono più eseguite
come originariamente erano destinate ad essere. Osservare come questo accade
alle strutture liturgiche ci dice qualcosa non solo riguardo al passato, ma
anche a proposito delle stesse dinamiche di crescita e cambiamento della
liturgia.
Prendiamo un
esempio dall’eucarestia. Cercando di capire la storia di come il rituale
eucaristico si è evoluto nelle varie tradizioni nel periodo della pre-Riforma,
ho sviluppato la seguente struttura di intelligibilità - ciò che Lonergan
chiamerebbe, forse, una “struttura euristica” - come modello per comprendere ed
organizzare i dati disparati che le fonti offrono. Naturalmente questo non può
essere un modello rigido. È semplicemente un ulteriore strumento per aiutare
l’interpretazione dei dati della ricerca. La scoperta di dati che contraddicono
la struttura e non possono essere spiegati come deviazioni aberranti conduce a
modificare la struttura, e la comprensione fa ancora un altro passo.
Inizialmente,
dunque, dividerei la storia strutturale del rito eucaristico in alcuni periodi:
1. Nel periodo
di formazione iniziale, il “primo strato” di ciò che Dix ha chiamato la
classica “forma della liturgia”, emerge dalla metà del II secolo nell’Apologia
di Giustino (I, 65, 67):
letture
predica
preghiere
comuni
bacio di pace
trasferimento
dei doni
anafora
(frazione)
comunione
(congedo)
2. Dopo la
pace di Costantino nel 313, entriamo in un nuovo periodo di sviluppo ed
arricchimento strutturali, ma anche di unificazione e standardizzazione.
L’arricchimento era centrifugo, portando una più grande diversità tra le
famiglie; l’unificazione era centripeta, portando ad una maggior
standardizzazione all’interno delle famiglie. Scambi reciproci da famiglia a
famiglia controbilanciavano entrambe queste forze.
3. In uno
stadio successivo della storia liturgica, le famiglie liturgiche continuarono
ad evolversi, ma da allora in poi come entità distinte già formate e quindi
identificabili, con una loro vita propria relativamente indipendente.
Ora,
nonostante la grande diversità nella storia di parecchie famiglie liturgiche,
si possono osservare modelli comuni di crescita. Se si confronta lo sviluppo
liturgico nel secondo e nel terzo periodo al “primo strato” di Giustino del
servizio eucaristico, si vede che l’evoluzione liturgica ha rispettato questo
lineamento primitivo nel secondo periodo di sviluppo liturgico, e lo ha violato
nel terzo.
Il secondo
periodo, il periodo dell’unificazione dei riti, vide un riempimento nello
schema fondamentale comune dell’eucarestia nei tre “punti deboli” del rito: (l)
prima delle letture, (2) tra la liturgia della parola e la preghiera
eucaristica, e (3) alla comunione e al congedo che segue questa preghiera.
Nella liturgia primitiva questi erano momenti di azione senza parole: (1)
l’entrata in chiesa; (2) il bacio di pace e il trasferimento dei doni; (3) la
frazione, la comunione e i riti di congedo.
Dal momento
che il cerimoniale e il testo si affrettano a riempire il vuoto dei tre momenti
d’azione della liturgia, ricoprendo così la forma primitiva con un “secondo
strato” di introito, riti preanaforici e riti di comunione, viene provocato un
movimento contrario. La liturgia, così riempita, appare sovraccarica e deve
essere ridotta. Ciò che caratterizza questo passo ulteriore è l’abbandono del
rispetto precedente per la forma primitiva. Infatti, si può generalmente
verificare che gli elementi così ridotti o soppressi non sono mai le aggiunte
successive, ma gli elementi del nucleo originario: le letture dell’Antico Testamento,
la salmodia responsoriale tra le letture, le preghiere dopo le letture, il
bacio di pace, e così via.
Soltanto
un’analisi delle fonti liturgiche di ogni epoca e di ogni area di influenza
liturgica o centro di diffusione può fornire i dettagli storici di quando e da
dove queste aggiunte successive siano state introdotte. Nel capitolo successivo
tenterò di dimostrare come questa analisi strutturale delle unità può aiutare
nell’interpretazione delle fonti storiche e nell’identificazione e ricostruzione
delle forme liturgiche originarie.
Vedremo una
ripetizione fondamentale della stessa struttura di base per tutti e tre i
“momenti d’azione” tradizionali della liturgia eucaristica: un’azione rituale
(introito, trasferimento o preparazione dei doni, comunione), ricoperta da un
canto antifonale e conclusa da una colletta. Ma questo è ciò che troviamo anche
nel rito romano, armeno, siro-orientale ecc., una volta tolte via dall’unità
fondamentale le aggiunte successive. Penso che questo illustri non solo
l’utilità di un approccio strutturale nell’isolare la forma e lo scopo
originari nei nostri riti liturgici ormai piuttosto disordinati, ma mostri
anche la sottostante comunanza di parecchie tradizioni liturgiche, che
l’analisi strutturale comparata rende possibile nello studio della liturgia,
come nella linguistica.
Da questa
specie di analisi non ho tentato di ricavare qualche implicazione più ampia. Ma
in alcuni casi essa può portare ad una radicale reinterpretazione del
significato e dello scopo antichi delle unità liturgiche, come si può vedere,
credo, nel mio studio sui riti preanaforici bizantini. È ovvia l’importanza di
tale reinterpretazione per la comprensione liturgica e quindi per il
rinnovamento liturgico. Ed in ogni caso è un processo che credo si debba
esaminare attentamente come preludio all’ermeneutica e persino all’esegesi: è
impossibile interpretare, se non si conosce ciò che si sta interpretando.
2: L’evoluzione della Divina Liturgia
Bizantina
In questo
capitolo cercherò di collocare l’evoluzione della liturgia eucaristica
bizantina nel contesto più ampio della storia liturgica, usandola come un
“modello” o “caso di studio” con cui illustrare alcuni dei principi
metodologici generali enunciati nel capitolo precedente.
Come abbiamo visto,
dopo la pace di Costantino nel 313, quando il culto cristiano divenne il
cerimoniale pubblico di una Chiesa affrancata da restrizioni civili e divenuta
rapidamente un’importante forza sociale, lo sviluppo liturgico si fece più
rapido. È in questo periodo che noi per la prima volta sentiamo parlare del
rito bizantino. Certamente si può dire che tale rito caratterizza questo
periodo della storia liturgica. Perché è il rito della nuova capitale di
Costantino, la cui fondazione nel 315 inaugura la nuova era della cristianità
costantiniana o imperiale.
Questo è il
periodo dell’unificazione dei riti, quando la liturgia, come il governo della
Chiesa, non solo sviluppò nuove tarme, ma anche permise l’estinzione delle
varianti più deboli della specie, dal momento che la Chiesa si sviluppò,
attraverso la creazione di unità intermedie, in una federazione di federazioni
di Chiese locali, con un’unità sempre maggiore di pratica all’interno di ogni
federazione, ed una diversità sempre crescente da federazione a federazione. In
altre parole, ciò che una volta era una raccolta imprecisa di individue Chiese
locali, ciascuna con i suoi propri usi liturgici, si sviluppò in una serie di
strutture intermedie o federazioni (più tardi chiamate patriarcati) raggruppate
attorno ad alcune sedi vescovili maggiori.
Questo
processo stimolò un’unificazione corrispondente e una standardizzazione della
pratica ecclesiale, liturgica e non. Quindi il processo di formazione dei riti
non è un processo di diversificazione, come solitamente si crede, ma di
unificazione. E quello che oggi si trova nei riti ancora esistenti non è una
sintesi di tutto ciò che accadde prima, piuttosto il risultato di un’evoluzione
selettiva: la sopravvivenza del più adatto - il più adatto, non necessariamente
il migliore.
Nel periodo
medievale questi riti continuarono ad evolversi, ma ora come famiglie
liturgiche distinte in maniera identificabile. Come scrisse Anton Baumstark:
Sembra
appartenere alla natura della liturgia mettersi in relazione a situazioni concrete
di tempo e luogo. Avevano appena avuto origine vasti territori liturgici che
iniziarono a dividersi in territori più piccoli le cui molteplici forme
liturgiche furono adattate alle esigenze locali.
Ora, ciò che
si vede accadere nel periodo di unificazione dei riti è un riempimento della
struttura di base, comune, dell’eucarestia in ciò che ho chiamato i suoi “punti
deboli”, i tre punti di “azione senza parole” della struttura primitiva: (1)
l’entrata in chiesa, (2) il bacio di pace e il trasferimento dei doni, e (3) la
frazione, comunione e riti di congedo. Cosa potrebbe essere più naturale che
sviluppare il cerimoniale di queste azioni, coprendolo con canti, ed
aggiungendovi preghiere opportune? Poiché uno dei più comuni fenomeni nello
sviluppo liturgico successivo è il fermo rifiuto di lasciare che un gesto parli
da solo.
Spesso questo
processo assunse la forma di un’aggiunta permanente alla funzione dei riti e
delle cerimonie che in origine avevano un esclusivo scopo locale nei riti
festivi o stazionali di un particolare tempo e luogo. Quando intere parti
furono aggiunte in maniera stabile al rito eucaristico, inevitabilmente
perdettero il loro legame originale alla topografia religiosa del loro luogo
d’origine - e quindi pure il loro scopo e significato originario - e assunsero
una vita indipendente dal loro passato. Anche questo è un evento comune nella
storia liturgica. È particolarmente evidente nei riti derivati dalle città dove
la liturgia era stazionale: Roma, Gerusalemme e Costantinopoli, i tre centri
più importanti di diffusione liturgica nel periodo successivo a Calcedonia
(451).
Ma, mentre la
liturgia acquista così un “secondo strato” di riti di introito, preanafora,
comunione e congedo, nasce per reazione un movimento contrario. La liturgia così
riempita risulta sovraccarica, e dev’essere ridotta. Ma in questa potatura non
sono mai le aggiunte successive, secondarie, spesso discutibili, ad essere
ridotte e soppresse, ma gli elementi della “forma” primitiva.
1. La divina
liturgia bizantina: tratti generali
Per il nostro
scopo, mi limiterò qui al periodo che va dalla fine del IV secolo all’inizio
del XVI. Dalla fine del IV secolo, dato che gli scritti di Giovanni Crisostomo,
vescovo di Costantinopoli dal 397 al 404, sono le nostre prime testimonianze
degli usi liturgici della nuova capitale di Costantino; fino all’inizio del XVI
secolo, perché la prima edizione stampata della nostra liturgia apparve nel
1526, e fu la macchina tipografica, piuttosto che l’intervento del vescovo, del
sinodo o della commissione liturgica, ad essere responsabile dell’unificazione
finale dell’uso liturgico nell’oriente bizantino.
Naturalmente,
non si deve dipingere tale unificazione in rigide categorie tridentine, poiché
in oriente non c’è niente di simile ad un libro liturgico “tipico”, cioè un
testo liturgico ufficiale obbligatorio per tutti. Né l’avvento della stampa
segnò la fine della crescita e dell’adattamento locale. Ma da allora gli
sviluppi sono così facili da tracciare che la storia liturgica cessa di essere
un problema da studiosi e diventa relativamente priva d’interesse, se non come
specchio di usanze locali, variazioni minori di un tema già noto.
La divina
liturgia bizantina può essere caratterizzata come la celebrazione eucaristica
della Grande Chiesa - di Santa Sofia, la chiesa cattedrale di Costantinopoli -
poiché si formò come sintesi iniziale nella capitale del X secolo, e in seguito
fu modificata dalla successiva influenza monastica. Questo non è un truismo per
dire che l’eucarestia bizantina è il rito di Costantinopoli. Non c’è niente di
“romano” in molto del rito romano, e niente di “bizantino” in molto
dell’attuale ufficio divino bizantino, che ha le sue origini nei monasteri
della Palestina e sostituì l’ufficio della Grande Chiesa dopo la caduta di
Costantinopoli ad opera dei Latini nella quatta crociata (1204).
Forse
allo sguardo occidentale la qualità più impressionante del rito che si è
sviluppato dall’eucarestia della Grande Chiesa è la sua opulenta
ritualizzazione, una sontuosità cerimoniale accresciuta dal contrasto
sottolineato con lo sterile verbalismo di tanta liturgia occidentale
contemporanea, dove la liturgia spesso sembra fatta solo di parole. Il rituale
bizantino è strutturato attorno ad una serie di apparizioni dei sacri ministri
da dietro l’iconostasi o barriera del santuario.
Le più
importanti di queste apparizioni sono i due introiti solenni. L’introito minore
o “Piccolo Ingresso” della liturgia della Parola, dopo l’apertura del rito
dell’enarxis, è una processione con il vangelo, detto simbolizzare la venuta di
Cristo a noi nella Parola. L’altro, maggiore o “Grande Ingresso” all’inizio
della parte eucaristica della liturgia, subito dopo le preghiere di
intercessione che seguono le letture, è una processione che porta all’altare i
doni del pane e del vino preparati prima dell’inizio della liturgia. È detto
prefigurare la venuta di Cristo a noi nel sacramento del suo corpo e del suo
sangue. Entrambe queste prefigurazioni sono compiute in due apparizioni
successive, la processione del diacono con il lezionario del vangelo all’ambone
per la lettura, e la processione del celebrante per distribuire nella comunione
i doni consacrati, dopo che essi sono stati benedetti nella preghiera
eucaristica.
La maggior
parte del rituale aderisce a questo andare e venire. Ma la liturgia non è
cerimoniale. È preghiera. E dunque queste cerimonie sono l’espressione rituale
di un testo. Nell’attuale rito bizantino, le formule liturgiche comprendono due
distinti livelli. Mentre il diacono sta in piedi fuori delle porte
dell’iconostasi cantando le litanie e guidando il popolo in preghiera,
all’interno del santuario procede un servizio parallelo. Attraverso le porte
aperte dell’iconostasi, l’altare è visibile da lontano, splendidamente
illuminato ed avvolto da nuvole d’incenso, imprimendo ai fedeli un senso di
mistero e di sacralità. Davanti a questo altare, nel Santo dei Santi, il
celebrante sta in piedi con le spalle alla gente guardando ad oriente,
recitando in silenzio le preghiere sacerdotali. Quando il sacerdote deve
benedire o rivolgersi al popolo, esce. Dentro parla con Dio.
Questo modello
rituale è il risultato di secoli di lenta evoluzione, in cui molti riti,
inizialmente aggiunti per un motivo preciso, persero successivamente il loro
scopo originario e quindi si decomposero sotto la pressione di successivi
cambiamenti ed aggiunte, acquisendo nel processo nuove interpretazioni
mistagogiche spesso molto lontane dalle loro vere radici storiche.
2. L’enarxis
Ci sono molti
modi in cui si può avvicinare la storia di come ciò sia accaduto. Il mio
approccio è strutturale e storico, cerco cioè di identificare ed isolare le
strutture liturgiche individuali o le unità, quindi tracciare la loro storia
come tale piuttosto che tentare di studiare il rito intero come un’unità in
ogni periodo storico. Per quanto ho detto nel capitolo precedente, le liturgie
non crescono regolarmente come un sano organismo vivente. Piuttosto, le loro
strutture individuali possiedono una loro vita propria. Più come un cancro che
come cellule naturali, possono presentarsi come aggressori, mostrando una
crescita turbolenta quando tutte le altre sono inattive. Vediamo come ciò
accadde nella tradizione bizantina.
Prescinderò
dall’elaborato rito della protesi o preparazione del pane e del vino, che
precede la liturgia. Con l’eccezione della preghiera della protesi o preghiera
dell’offerta, essa iniziò ad evolversi solo nell’VIII secolo, in larga misura
come risultato dell’influenza monastica.
Più importante
è l’enarxis che introduce la liturgia della Parola. Oggi la lettura
dell’epistola è preceduta da un ufficio di tre antifone, ciascuna con la
propria litania e colletta. Il Piccolo Ingresso ha luogo durante il canto della
terza antifona. Questo ingresso è accompagnato anche da una colletta, la
preghiera d’ingresso, detta fuori dalla porta centrale dell’iconostasi prima
che la processione vada verso l’altare. Là seguono vari tropari o ritornelli, e
quindi il canto del Trisagio con la sua preghiera accompagnatoria. Tutto ciò ci
dà la struttura seguente:
Antifona I
Litania e
preghiera II Antifona II
Litania e
preghiera III
Antifona III
con tropari (ritornelli) aggiunti, processione d’entrata, preghiera d’entrata
Preghiera e
canto del Trisagio
Processione
alla cattedra
Saluto: “Pace
a tutti”
Durante il
Trisagio, i celebranti procedevano verso la cattedra dietro l’altare per
l’ascolto delle letture. Con questa processione verso la cattedra ci ritroviamo
al punto dell’introito originario della liturgia, come è descritto nelle omelie
di Crisostomo alla fine del IV secolo: il clero entra in chiesa con il popolo,
e procede direttamente alla cattedra nell’abside. Là il vescovo saluta la gente
con “Pace a tutti”, quindi si siede per le letture; né antifone, né litanie, né
preghiere, niente. Ma all’epoca del nostro più antico manoscritto di liturgia
bizantina, il codice Barberini 336 dell’VIII secolo, abbiamo già la nostra
enarxis quasi come è oggi. Da dove viene?
Prima di
tutto, possiamo vedere a colpo d’occhio che l’enarxis è fatta di aggiunte
secondarie più tarde della liturgia, poiché le sue formule sono tutte comuni
alle liturgie di Crisostomo e Basilio, che sono indipendenti solo dalla
preghiera per i catecumeni. Ora, ogni volta che vediamo elementi comuni nelle
due liturgie, è ovvio che passavano da un formulario all’altro, o che erano
introdotti in entrambi simultaneamente da qualche terza fonte dopo che avevano
iniziato a condividere una storia comune come formulari liturgici diversi di
una stessa chiesa locale alla cui forma liturgica entrambi erano da allora resi
conformi.
a) La litania
Consideriamo
le unità liturgiche di questa enarxis. Possiamo subito fare a meno della
benedizione iniziale; non comincia ad apparire fino al X secolo. La litania
iniziale è anche fuori luogo. Nella nostra forma originaria, tali intercessioni
si trovano solo dopo le letture, salvaguardando così la priorità dell’azione
divina nell’ordine del servizio: solo dopo che Dio ci rivolge la sua Parola,
noi rispondiamo nella salmodia e preghiera. In realtà la nostra litania una
volta si trovava proprio prima del trasferimento dei doni. I suoi resti sono
ancora visibili nella recensione vulgata dei libri slavi.
Ma seguendo
una tendenza osservabile in quasi tutte le tradizioni liturgiche, queste intercessioni
o furono soppresse o spostate all’inizio della liturgia della Parola. Così,
nelle fonti della nostra liturgia del X e XI secolo, troviamo questa litania
nel suo luogo originario prima del trasferimento dei doni, e anche dopo il
Piccolo Ingresso, proprio prima che l’enarxis fosse aggiunta. Alla fine dell’XI
secolo si trova anche davanti alle antifone, cioè al nuovo inizio. Nel XII
secolo scompare dal suo luogo originario nella preghiera dei fedeli; nel XIII
scompare davanti al Trisagio, restando solo dove la troviamo ancor oggi.
Così la nostra
litania è realmente la litania dei fedeli originaria della messa bizantina. Le
due litanie abbreviate che accompagnano le preghiere della seconda e terza
antifona probabilmente sono proprio uno sviluppo dell’antico Oremus delle due
collette che ora esse accompagnano.
b) Le antifone
Che dire di
queste tre antifone e delle loro collette? Da dove derivavano, e quando furono
aggiunte alla liturgia? Il quando è facile: in un periodo tra il 630 e il 730.
Non si ha alcun accenno ad esse nella Mistagogia di Massimo il Confessore,
scritta intorno al 630. Come egli la descrive, la liturgia inizia con l’entrata
in chiesa del popolo con il vescovo, seguita immediatamente dalle letture. Ora,
almeno fino all’XI secolo, il vescovo non era presente in chiesa per l’enarxis
ma entrava solo al Piccolo Ingresso. È ovvio dunque che al tempo di Massimo non
ci fosse l’enarxis. Ma solo un secolo dopo, il nostro commentario liturgico
bizantino successivo, la Historia ecclesiastica del patriarca san Germano I (†
ca. 730), menziona le antifone. Quindi, esse apparvero per la prima volta
all’inizio dell’VIII secolo.
Ma questo non
significa che a quel tempo ci fossero elementi fissi. Le liturgie tendono ad
essere snobistiche. Hanno bisogno di tempo per accettare i nuovi venuti come
membri permanenti. Almeno fino al X secolo, le tre antifone non avevano
ottenuto un posto stabile come parte fissa di ogni messa.
La nostra
fonte principale per la storia di come esse vi riuscirono è il Typikon del X
secolo della Grande Chiesa edito da Juan Mateos, S.J. del Pontificio Istituto
Orientale di Roma. Questo documento cruciale ha fornito la chiave di quasi
l’intera storia della liturgia bizantina nell’era post-giustiniana. Un typikon
non è usato nell’attuale celebrazione della liturgia, ma fornisce le
indicazioni per un uso corretto dei libri esistenti, indicando il proprio della
messa e dell’ufficio, e dando, come i vecchi ordines romani, rubriche
dettagliate per speciali celebrazioni che si trovano nel ciclo liturgico.
Ora, nel
Typikon del X secolo di Santa Sofia vediamo che la liturgia della nuova Roma,
come quella dell’antica Roma, aveva un carattere molto stazionale. In molti
giorni del calendario liturgico, la liturgia non era celebrata ovunque, ma in
qualche chiesa designata appositamente.
Questa chiesa
era la “stazione” del giorno, e in alcune feste più solenni la folla si sarebbe
raccolta con il clero in qualche altro santuario e da lì sarebbe andata
solennemente in processione verso la chiesa stazionale per la liturgia. Durante
la processione si sarebbe cantato un salmo antifonale. All’arrivo alla
stazione, la fine dell’antifona sarebbe stata segnalata dall’intonazione del
Gloria Patri che, in quasi ogni tradizione, annuncia la conclusione della
salmodia antifonale, seguita dalla ripetizione finale dell’antifona o del
ritornello, chiamato perissè o “appendice”. A volte si sarebbe sostituito un
ritornello diverso alla perissè.
Gli
ecclesiastici recitavano la preghiera d’introito davanti alle porte della
navata - non, come ora, davanti alle porte del cancello del santuario - e
quindi entravano in chiesa, seguiti dal popolo. Procedendo oltre il grande
ambone al centro della navata, andavano lungo il solea o la via processionale
fiancheggiata da un muretto che si estendeva dal santuario all’ambone, e
prendevano posto al synthronon nell’abside.
Questo è quasi
lo stesso dell’inizio della messa stazionale romana ad essa contemporanea
descritta nell’Ordo romanus primus del 750 ca. fino all’entrata lungo il
percorso fiancheggiato dal muretto, la cosiddetta schola cantorum che Mateos ha
mostrato essere un esatto parallelo dell’antico solea bizantino. Per quel che
ne so, questa sorprendente somiglianza tra le due liturgie ora così diverse
nella struttura e nello spirito non è mai stata notata dagli studiosi di
liturgia. È più di una indicazione della comunanza di molte cose nella liturgia
antica, dimostrando ancora una volta la validità del metodo comparato nello
studio della liturgia formulato per la prima volta da Anton Baumstark († 1948)
più di mezzo secolo fa.
Ho già notato
che le tre tradizioni-base - Roma, Costantinopoli, Gerusalemme - da cui
provengono gli unici due riti universali della cristianità, il romano e il
bizantino, erano tutte distinguibili per il loro carattere stazionale. Non è
un’esagerazione dire che praticamente ogni aggiunta all’eucarestia bizantina da
Giustiniano fino al periodo post-iconoclasta aveva la sua origine nei riti
stazionali di Costantinopoli. Le antifone saranno il nostro primo esempio.
L’antico
Typikon ci dice che in alcune feste, lungo il percorso verso la chiesa
stazionale, la processione stazionale si sarebbe fermata per una rogazione o
nel foro o in qualche chiesa lungo il cammino processionale. In alcuni giorni
questa funzione-preghiera includeva un ufficio di tre antifone. Dopo questa
rogazione, la processione avrebbe proseguito verso la chiesa stazionale,
accompagnata dall’usuale antifona processionale.
Ma,
evidentemente, l’ufficio delle tre antifone era molto popolare, perché diventò
subito usanza celebrarlo in chiesa prima della liturgia nei giorni in cui non
c’era la processione stazionale. Qui vediamo un esempio di unità liturgica che
si stacca gradualmente dall’ufficio in cui ebbe origine e che diventa parte
integrante di un’altro ufficio.
Va notato
tuttavia che queste tre antifone celebrate in chiesa prima delle liturgie non
stazionali erano una combinazione delle tre antifone rogazionali con una quarta
antifona, l’antifona processionale alla chiesa. Ad esempio, nel Typikon per il
Capodanno - cioè il primo settembre - c’erano due liturgie prescritte, una
nella chiesa della Theotokos a Chalkoprateia, una in Santa Sofia. Quella in
Chalkoprateia era stazionale, preceduta da un ufficio di tre antifone nel foro,
seguita da una processione verso Chalkoprateia per la messa con
l’accompagnamento di una quarta antifona.
Ma la liturgia
in Santa Sofia in memoria di santo Stefano Stilita inizia proprio lì con un
ufficio di tre antifone. Ed alla terza antifona sono cantati due ritornelli,
quello del santo e quello della quarta antifona processionale della liturgia
stazionale di Chalkoprateia. Hanno semplicemente fuso assieme la terza antifona
dell’ufficio devozionale con l’antifona d’introito, probabilmente perché tre antifone,
e non quattro, era l’usuale unità liturgica nell’ufficio della Grande Chiesa.
Così l’ufficio rogazionale di tre antifone e l’antifona d’introito sono due
cose diverse, che spiegano perché oggi abbiamo quattro orazioni - tre preghiere
antifonali più una preghiera d’introito - con solo tre antifone.
Fino al X
secolo le tre antifone non erano una parte obbligatoria di ogni liturgia.
Persino dopo questa data il patriarca non entrava in chiesa fino alla terza
antifona, perché questo, come abbiamo visto sopra, è l’antico introito della
liturgia. Ed anche oggi nel rito bizantino le messe della vigilia, precedute
dai vespri, non hanno nessuna antifona, ma iniziano con il Trisagio. Si dice
che in tali messe i vespri rimpiazzino la liturgia della Parola. Non rimpiazzano
niente, ma sono uniti alla messa al suo vecchio inizio, il Trisagio,
dimostrando così la legge di Baumstark secondo cui gli usi più antichi si
mantengono nei tempi e nei riti più solenni.
Oggi le tre
antifone sono state ridotte a pochi frammenti della loro forma originale, e i
tropari dopo la terza antifona sono stati così moltiplicati da raggiungere
un’esistenza indipendente staccata dalla salmodia che originariamente erano
destinati a servire come ritornelli. Questo esemplifica un altro sviluppo
comune nella storia liturgica: il processo per mezzo del quale composizioni
ecclesiastiche moltiplicano e alla fine soffocano l’elemento scritturistico di
un canto liturgico, forzando, a sua volta, la scomposizione dell’originale
unità liturgica, così che ciò con cui siamo lasciati sono semplicemente i
frammenti, pezzetti e resti di questo e quello, un verso qui, un ritornello là,
che non rivelano una forma riconoscibile o un’unità finché non sono
accuratamente ricostituiti nelle loro strutture originarie mettendo insieme i
frammenti restanti, quindi riempiendo gli spazi vuoti, facendo una specie di
puzzle con solo una decina dei suoi pezzi rimasti. Questo è il motivo per cui
lo studio delle unità liturgiche e la loro mutua articolazione all’interno di strutture
rituali più ampie è così cruciale nella ricostruzione delle forme liturgiche
originarie.
c) Il Trisagio
Vediamo un
altro esempio di ciò nel prossimo pezzo, il Trisagio. Oggi è cantato come
segue:
Santo Dio,
santo, forte, santo, immortale, abbi pietà di noi (3 volte).
Gloria al
Padre… ora e sempre nei secoli dei secoli, amen.
Santo,
immortale, abbi pietà di noi.
Santo Dio,
santo, forte, santo, immortale, abbi pietà di noi.
Da quanto
abbiamo detto sulla struttura della salmodia antifonale bizantina, sembra che
qui abbiamo l’incipit e il finale del salmo antifonale, cioè la tripla
ripetizione d’apertura di tutto il ritornello, poi la dossologia conclusiva,
l’akrotelèution e la ripetizione finale del ritornello (perissè), con i
versetti soppressi del salmo che si frapponeva. Ora, per la prima volta abbiamo
notizie del Trisagio nel V secolo, quando era evidentemente usato come
un’antifona processionale durante le liturgie stazionali a Costantinopoli.
Presto nel VI secolo lo vediamo all’inizio della messa. Questo canto è dunque
ciò che resta dell’originaria, invariabile antifona d’introito della nostra
messa, a cui in data posteriore furono aggiunte prima una, quindi tre antifone
variabili.
Così,
all’inizio del V secolo la nostra liturgia si apriva con l’entrata in chiesa
del clero e del popolo senza cerimonia o, a quanto pare, canto
d’accompagnamento. Dal VI secolo questo introito è stato ritualizzato
dall’aggiunta di un elemento dalle processioni stazionali, un salmo antifonale
con il Trisagio come suo ritornello fisso. Circa un secolo più tardi, senza
dubbio come risultato di sviluppi ulteriori nei riti stazionali, tutto tranne
il ritornello di questa antifona è stato soppresso in favore di una più recente
antifona stazionale che forniva più varietà per questo rito rapidamente in
espansione.
Perché
l’originario ritornello fisso non fu proprio soppresso, o conservato come una
variante occasionale? Probabilmente a causa della sua immensa popolarità, com’è
testimoniato dalle leggende sulle sue origini nella divina rivelazione, perché
era diventato un elemento liturgico comune in tutto l’oriente, e a causa del
ruolo che giocava nella controversia monofisita.
d) L’ektenia
Un ulteriore
elemento che entrò nella liturgia dagli uffici stazionali è l’ektenia o litania
che segue immediatamente il vangelo. Talvolta in versioni moderne è definita
come preghiera “ecumenica” o “universale” per tutte le necessità - cioè
l’oratio fidelium della messa bizantina. Non è così, come sembrerebbe ovvio
dalla sua posizione prima del congedo dei catecumeni.
La preghiera
comune con la loro partecipazione era esclusa, motivo per cui erano congedati
prima, e non perché non potevano ricevere la comunione, come si pensa spesso.
Essi erano congedati anche a liturgie non eucaristiche, dove non c’era rischio
che andassero a ricevere la comunione. Nel nostro typikon del X secolo questa
ektenia o litania penitenziale era cantata dopo il vangelo nelle liturgie
rogazionali stazionali, e le rubriche prescrivono la stessa pratica dopo il
vangelo della liturgia della Parola in certi giorni dell’anno.
Questo può
forse essere preso come il residuo di un primitivo stadio di evoluzione, quando
tale litania stava gradualmente prendendo piede nella messa, dove appare già
nel codice Barberini 336 dell’VIII secolo.
3. Tratti
regressivi
Intanto
continua l’evoluzione regressiva con cui gli elementi originari furono
soppressi a favore di aggiunte più tarde. Dall’VIII secolo la lettura
dell’Antico Testamento, le preghiere per i penitenti e gli elementi della
salmodia sono stati soppressi e la preghiera di benedizione che concludeva la
liturgia della Parola al tempo di Crisostomo è stata spostata. Dall’XI secolo
la litania dei fedeli è stata spostata più avanti.
La scomparsa
dalla liturgia della Parola della sua benedizione finale illustra un altro
comune sviluppo liturgico in questo periodo: il graduale offuscarsi della
chiara divisione tra liturgia della Parola ed eucarestia. Le attuali preghiere
dei fedeli della liturgia di Basilio sono un altro esempio di ciò.
Esse sono
davvero preghiere di preparazione per l’eucarestia, e certamente non provengono
dalla liturgia della Parola. Nello stesso processo, il bacio di pace, un tempo
conclusione della liturgia della Parola, divenne isolato dalle preghiere
conclusive della sinassi e spostato prima dell’anafora per l’aggiunta di
elementi rituali successivi tra la pax e la fine della liturgia della Parola.
4. La
preanafora
Questi
elementi successivi sono i riti preanaforici che oggi precedono la preghiera
eucaristica. Essi comprendono:
Inno dei
cherubini
Preghiera
dell’Inno dei cherubini (Nessuno è degno...)
Incensazione
Trasferimento
e deposizione dei doni
Dialogo
OrateFatres
Litania e
preghiera della prokomide
Bacio di pace
Credo niceno
Il tentativo
perseverante di interpretare i riti preanaforici orientali in termini
occidentali di “offertorio” ha viziato completamente la comprensione di ciò che
stiamo trattando qui.
Il nucleo
primitivo comune alla preanafora orientale e occidentale era il semplice, non
ritualizzato trasferimento dei doni all’altare fatto dal diacono. In alcune
liturgie occidentali questo si trasformò successivamente nei riti di offerta.
Tentativi di
leggere allo stesso modo la testimonianza orientale sono stati sterili. La mia
analisi delle formule della preanafora nelle tradizioni orientali mi ha
obbligato a concludere che il paradigma dell’”offertorio” non è il modello da
utilizzare nell’interpretare questi riti.
Idee di
offerta trovano espressione soprattutto nelle preghiere successive, ma non sono
il tema dominante. E nella liturgia di san Giovanni Crisostomo non trovano
alcuno spazio nello strato più antico del rito. Nelle prime fonti di questa
liturgia, troviamo solo tre elementi:
1) il
trasferimento, la deposizione e la copertura dei doni ad opera del diacono
2) un’orazione
detta dal sacerdote
3) l’Inno dei
cherubini cantato dal popolo durante tutta l’azione liturgica.
È probabile
che la deposizione dei doni includesse un’incensazione dell’altare e che la
preghiera fosse preceduta da un lavabo e da un breve dialogo, simile al romano
Orate fratres, tra il vescovo presidente e i presbiteri suoi concelebranti.
Da questa
semplicità originale emergono la natura e lo scopo dei riti preanaforici
bizantini. Essi formano una duplice preparazione all’anafora:
1) la
preparazione materiale dell’altare e dei doni
2) la
preparazione spirituale dei ministri con la preghiera e del popolo con il canto
che suscita le disposizioni appropriate per l’imminente offerta eucaristica.
a) La processione del Grande Ingresso
Nella
tradizione bizantina la preparazione materiale dei doni è diventata
estremamente ritualizzata nella processione del Grande Ingresso, a cui oggi
prendono parte anche i presbiteri. Ma ciò non deve nascondere le sue umili
origini che consistevano nel trasferimento dei doni ad opera dei diaconi,
originariamente un atto materiale di nessuna importanza rituale.
Precedentemente
il Grande Ingresso era un vero ingresso in chiesa dall’esterno, poiché i diaconi
dovevano andare a prendere i doni dalla sacrestia o skeuophylakion, che a
Costantinopoli non era una stanza ausiliaria dentro la chiesa, ma un edificio
separato come il battistero e il campanile di molte chiese italiane. Dunque la
liturgia bizantina dell’eucarestia, coma la liturgia della Parola, una volta
iniziava con un introito in chiesa.
In entrambi i
casi l’entrata degenerò in seguito in una processione non funzionale
all’interno della chiesa, che finiva dove iniziava, nel santuario. Qui abbiamo
un perfetto esempio di riti che perdurano, supportati da significati simbolici
acquisiti successivamente, molto tempo dopo essersi separati dal loro scopo
pratico originale.
b) Preparazione dei ministri
Mentre i
diaconi portavano i doni, il ministro che presiedeva si lavava le mani,
sollecitava la preghiera degli altri ministri, quindi con loro diceva la
seguente preghiera della proskomide:
o Signore
onnipotente, che solo sei santo, che solo accetti il sacrificio di lode da
quelli che ti invocano con tutto il cuore, accetta anche la preghiera di noi
peccatori e portaci al tuo santo altare; rendici degni di presentarti questi
doni e sacrifici spirituali per i nostri peccati e per i peccati di ignoranza
del popolo, e rendici degni di trovare grazia presso di te, così che il nostro
sacrificio possa esserti accetto e il buono Spirito della tua grazia possa
riposare su di noi, su questi doni qui preparati e su tutto il tuo popolo.
La preghiera
chiede tre cose:
1) che i
ministri siano condotti all’altare,
2) che sia
loro concesso di offrire lì l’eucarestia,
3) che siano
resi degni affinché questa offerta sia accetta, e venga lo Spirito.
Non è una
preghiera di offerta, ma una preghiera di preparazione per la vera offerta,
l’anafora. È una preghiera di accessus ad altare in cui i ministri pregano Dio
di renderli degni del ministero che stanno per compiere. Esiste solo in
funzione di ciò che segue, secondo un modello visto anche nelle due preghiere
dei fedeli. Nella prima, i ministri pregano per la grazia di intercedere per il
loro popolo, cioè per la grazia di proclamare la colletta di intercessione che
segue immediatamente.
Ma da quando
la nostra orazione preanaforica è detta “preghiera dell’offerta” è chiaramente
quasi sempre mal interpretata e mal tradotta. In effetti, questa non è la
denominazione della preghiera, ma dell’intero rito eucaristico, di cui questa
preghiera era solo la prima formula, un fatto che fu più tardi messo in ombra
per l’aggiunta di altri numerosi elementi alla preanafora prima di questa
denominazione.
c) Il canto d’entrata
Mentre tutto
questo va avanti, il popolo canta il Cherubicon, un ritornello che fu aggiunto
alla liturgia sotto Giustino II nel 573-574. Oggi questo tropario si trova da
solo, ma da ciò che sappiamo della storia del canto liturgico, non doveva
essere così nella sua forma originaria.
Nei primi
secoli un canto liturgico a sé stante, cioè una composizione non scritturistica
cantata indipendentemente, era una rarità, almeno dopo il II secolo, quando la
reazione agli psalmoi idiolikoi eretici gnostici - composizioni private, cioè
non scritturistiche - apparentemente tendeva a limitare il canto liturgico a
qualche forma di salmodia biblica.
Ad ogni modo,
prima del VI secolo non esiste testimonianza che i canti ecclesiastici abbiano
avuto un’esistenza indipendente nella liturgia eucaristica tranne che
nell’anafora, sebbene l’ufficio divino conoscesse inni come il Phos hilaròn.
Nell’eucarestia tali composizioni servivano solo come ritornello da ripetere
dopo i versetti di un salmo. E infatti le testimonianze storiche sembrano
indicare che il Cherubicon fosse aggiunto o sostituisse, al momento del
trasferimento dei doni, un precedente salmo antifonale, il Sal. 23, 7-10 con
l’alleluia come ritornello. In questo modo, la liturgia bizantina aveva
un’antifona d’introito non solo al suo primo ingresso, così come l’antiphona ad
introitum romana; ne aveva una anche al secondo ingresso, come l’antiphona ad
offertorium romana. La successiva degenerazione della salmodia ha fatto dimenticare
la sua forma originaria, ma il parallelo è esatto in entrambi i casi.
L’oggetto del
canto, tuttavia, spesso è stato analizzato in maniera troppo meticolosa, dal
momento che l’interpretazione errata di una parola ha limitato il suo
significato all’entrata dei doni. Il canto dice come segue:
Noi che
misticamente raffiguriamo i cherubini e alla Trinità vivificante cantiamo
l’inno Trisagio, deponiamo ogni mondana preoccupazione per ricevere il Re di
tutto scortato da schiere di angeli invisibili. Alleluia.
La frase “per
ricevere il Re di tutto” si fa di solito significare “dare il benvenuto a
Cristo che entra ora in processione sotto i simboli del pane e del vino”. Ma
l’originale greco significa ricevere in comunione, come si può vedere non solo dalla
terminologia liturgica bizantina, ma anche dalla Protheoria (1085-95), il primo
commentario bizantino a interpretare la frase.
Il canto
dunque non si riferisce solo alla processione, ma è un’introduzione all’intera
azione eucaristica dall’anafora alla comunione. Insegna ai fedeli che coloro
che stanno per cantare l’inno tre volte santo dei cherubini (il Sanctus
dell’anafora) devono abbandonare tutte le preoccupazioni mondane (Sursum corda)
per prepararsi a ricevere Cristo (nella comunione). Uno studio di numerosi
altri inni orientali per il trasferimento dei doni ha confermato questa
conclusione: essi non sono canti d’offertorio, né antifone puramente
processionali, piuttosto introduzioni all’intero servizio eucaristico, che
servono a suscitare nei fedeli i sentimenti appropriati per l’azione che sta
per iniziare. Capito questo, il canto del Grande Ingresso assume un ruolo
liturgico più ampio ed equilibrato, moderando l’esagerata importanza simbolica
assegnata alla processione stessa del Grande Ingresso nel periodo medievale
successivo. All’entrata noi accogliamo i doni, simbolo di Cristo, ma solo in
vista della loro consacrazione e ricevimento nella comunione.
d) Credo e pace.
Non intendo
tracciare le origini di altre numerose formule minori che sono state aggiunte
alla preanafora a partire dal medioevo, ma due dementi più antichi devono
essere ricordati. Il primo, il credo, sta piuttosto al di fuori dello scopo di
questi riti. Fu aggiunto nel VI secolo durante la crisi monofisita, e portò con
sé alcune formule minori che hanno offuscato il secondo rito, il bacio di pace.
Questo saluto fraterno, un elemento originario della forma primitiva, sin dal
XI secolo era scambiato solo dal clero. Come abbiamo già accennato
precedentemente, il suo scopo originario era concludere la liturgia della
Parola.
5. Riti di
comunione
Il terzo
“punto debole” del rito eucaristico include i riti e le preghiere che seguono
la consacrazione dei doni:
Litania e
preghiera
Padre nostro
Preghiera di
inclinazione
Preghiera di
elevazione
Elevazione: “I
doni santi ai Santi”
Canto: “Unico
il Santo”
Koinonikon
(communio)
Azioni manuali
(frazione, ecc.)
Comunione
Benedizione
con i doni: “Salva, o Dio, il tuo popolo e benedici la tua eredità”
Canto:
“Abbiamo visto la vera luce ...”
Doni riportati
all’altare, incensati
“In ogni
tempo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli”
Canto: “Amen.
Che la nostra bocca sia ripiena ...”
Doni riportati
all’altare della preparazione
Litania e
preghiera di ringraziamento
Può sembrare
strano saltare quella che chiaramente è la preghiera più importante di tutto il
rito, la preghiera eucaristica stessa, ma l’anafora ha subìto poca evoluzione
rituale, e le modifiche testuali che mostra richiederebbero un’analisi accurata
del testo greco qui difficilmente realizzabile. Quindi passerò direttamente ai
riti di comunione, dopo aver menzionato che l’anafora di Crisostomo mostra
chiari segni di rifacimento in molte parti. Il semplice fatto che non ci sia il
comando di reiterazione (“Fate questo in memoria di me”) e che la
commemorazione dei morti preceda quella dei vivi, è singolare se non
addirittura problematico.
a) La litania e la preghiera prima della
comunione
Dopo la
dossologia che conclude l’anafora, c’è una lunga litania che comprende due
distinti gruppi di intercessioni. Una litania simile si trova con la preghiera
della proskomide, proprio prima dell’anafora. Una comparazione testuale di
questa litania con le litanie parallele nella liturgia di Giacomo e nella
liturgia armena mostra, credo, che la seconda serie di invocazioni, le
cosiddette aitesis (“domande”) nella terminologia bizantina, è un’aggiunta
successiva presa dall’ufficio divino.
Non ho ancora
deciso quale delle due preghiere che ora vengono prima e dopo il Padre nostro sia
la più antica, ma è più probabile che solo una di esse sia originaria a questo
punto della liturgia. Lo stesso Padre nostro non si trova nella liturgia
eucaristica neppure in documenti così tardi del IV secolo come Costituzioni
apostoliche VIII, 13 o l’Omelia 16, 21-22 di Teodoro di Mopsuestia. Sembra che
la nostra prima testimonianza di essa prima della comunione in una liturgia
eucaristica si abbia con Cirillo (Giovanni II) di Gerusalemme (dopo il 380),
Catechesi mistagogiche 5,11-18. Un po’ dopo, Agostino dichiara che “quasi tutta
la Chiesa ora conclude la preghiera eucaristica con il Padre nostro.”
Crisostomo lo testimonia all’eucarestia a Costantinopoli alla svolta del secolo
(398-404), ma non vi sarebbe stato da lungo tempo. Precedentemente alla sua
introduzione nei riti di preparazione prima della comunione, l’eucarestia
bizantina poteva aver seguito la struttura vista in Costituzioni apostoliche
VIII, 13,3-14: anafora, litania, preghiera, “I doni santi ai Santi”.
Mateos pensa
che la preghiera di inclinazione dopo il Padre nostro nel formulario di
Crisostomo dell’odierna divina liturgia bizantina fosse originariamente la
preghiera finale dei fedeli che, come abbiamo visto sopra, era anche una
conclusiva preghiera di inclinazione. Contro questo va la liturgia comparata:
qualche preghiera di inclinazione è testimoniata da Crisostomo per l’eucarestia
costantinopolitana, c’è una formula parallela nella messa descritta da Teodoro
di Mopsuestia e il testo dell’attuale preghiera bizantina non è diverso dalla
preghiera precedente “I doni santi ai Santi” in Costituzioni apostoliche VIII,
13, 10.
Così, tutto
ciò che possiamo dire con certezza è che il Padre nostro è un’aggiunta
successiva e che, prima della sua introduzione, la litania proprio prima della
comunione poteva essere seguita da una sola preghiera. Quanto alla preghiera di
elevazione che ora segue la preghiera di inclinazione, è comune sia alla
liturgia di Crisostomo che a quella di Basilio, e sappiamo che si tratta di
un’aggiunta successiva.
h) L’antifona di comunione
Più
problematici sono i tre canti che ora accompagnano la comunione. Attualmente
essi sono una confusione strutturale completa, che naturalmente tradisce la
loro giovinezza: la liturgia primitiva, se non altro, era ordinata. Vediamo se
possiamo ricostruire la loro forma originaria. Oggi i riti di comunione sono
così. Dopo il Padre nostro, la preghiera di inclinazione e la preghiera di
elevazione, noi vediamo:
1. Diacono:
“Stiamo attenti!”
2. Sacerdote:
“I doni santi ai Santi.”
3. Popolo:
“Unico il Santo, unico il Signore, Gesù Cristo, per la gloria di Dio Padre.
Amen.”
4. Popolo:
koinonikon (communio),versetto di salmo variabile con triplo alleluia.
5. Azioni
manuali (frazione, ecc.).
6. Comunione,
con formule accompagnatorie.
7. Sacerdote:
(benedicendo la gente con il calice): “Salva, o Dio, il tuo popolo e benedici
la tua eredità.”
8. Popolo:
“Abbiamo visto la vera luce, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, abbiamo
trovato la vera fede, adorando la Trinità indivisibile, poiché essa ci salvò.”
(Durante questo canto i doni sono riportati all’altare, preparati per il
trasferimento e incensati con formule accompagnatorie.)
9. Sacerdote:
(in silenzio) “Benedetto il nostro Dio (ad alta voce) In ogni tempo, ora e
sempre, e nei secoli dei secoli.”
10. Popolo:
“Amen. Che la nostra bocca sia ripiena della tua lode, o Signore, perché tu ci
hai fatti degni di partecipare ai tuoi misteri santi, immacolati e immortali,
conservaci nella tua santità, così che possiamo cantare la tua gloria,
meditando ogni giorno la tua giustizia, alleluia, alleluia, alleluia.” (Durante
questo canto i doni sono trasferiti alla protesi o luogo di preparazione.)
11. Litania e
preghiera di ringraziamento dopo la comunione.
Un’analisi
iniziale dei tre canti in questione (nn. 4, 8, 10) porterebbe a sospettare che
l’attuale struttura rituale sovraccarica sia il risultato di aggiunte
successive che seguirono la degenerazione di un’unità originaria. In primo
luogo, abbiamo visto che canti ecclesiasti a sé stanti come 8 e 10 sono
sconosciuti nel rito eucaristico al di fuori dell’anafora prima del VI secolo
(circa). Tali testi non avevano un’esistenza indipendente, ma servivano
piuttosto come ritornelli (antifone) per i salmi.
Dalla liturgia
comparata sappiamo che la maggior parte dei riti aveva una salmodia antifonale
nei tre “punti deboli” della liturgia: l’introito, l’offertorio o preanafora, e
la comunione. Inoltre, è già stato stabilito che un tempo l’eucarestia
bizantina aveva un salmo antifonale al Piccolo e probabilmente anche al Grande
Ingresso (preanafora). Quindi si può supporre in modo fondato che accadesse lo
stesso alla comunione.
Quindi
sembrerebbe che il resto dell’unità originaria debba trovarsi nel singolo
versetto del salmo con l’alleluia che porta ancora il titolo di koinonikon (4),
esatto parallelo del termine latino communio (antiphona ad comunionem). Quasi
certamente, un tempo questo era un salmo completo.
Qualche
indagine storica supporterà questa ipotesi e riempirà i pezzi mancanti. Secondo
il Chronicon paschale del 624, in quell’anno, sotto il patriarca Sergio I di
Costantinopoli (610638), fu aggiunto un ritornello al koinonikòn.
Da questa
fonte, è evidente che nel VII secolo il koininikon comprendeva più di un
versetto di un salmo:
In quest’anno
[624] nel mese di Artemisio - maggio secondo i romani - nella dodicesima
indizione, sotto il patriarca Sergio di Costantinopoli, fu allora per la prima
volta introdotto che dopo che tutti hanno ricevuto i santi misteri, quando il
clero sta per riportare allo skeuophylakion i preziosi ripidia, patene e
calici, e altri sacri vasi; e dopo la distribuzione della comunione dai tavoli
laterali, ogni cosa è riportata al santo altare; e alla fine, dopo il canto del
verso finale del koinonikon; sia cantato questo tropario: “Che la nostra bocca
sia ripiena della tua lode, Signore ...”
Da ciò è
chiaro che:
1) il
koinonikon non era solo il versetto di un salmo con l’alleluia come ritornello,
ma un salmo intero;
2) il
ritornello “Che la nostra bocca sia ripiena della tua lode ...” era aggiunto
come una variante perissè o ritornello conclusivo da cantare dopo la dossologia
del salmo;
3) la frase
“In ogni tempo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli” che il sacerdote canta
ora per introdurre questo ritornello è semplicemente il resto della stessa
dossologia.
E infatti uno
studio della tradizione manoscritta rivela che il materiale introdotto che noi
oggi troviamo tra il versetto di comunione (4) e le rimanenze della dossologia
(9) è un’aggiunta successiva, non rintracciabile in nessuna fonte precedente il
XII secolo. La proposizione “Benedetto è il nostro Dio” fu aggiunta al finale
della dossologia (“In ogni tempo, ora e sempre...”) per dargli qualche senso
(9). Dunque ciò che abbiamo è il frammento di quello che una volta era una
completa unità di salmodia. Ciò che resta è il suo inizio e la sua fine, con
tanti pezzetti vaganti successivi aggiunti dopo che l’unità originaria si era
staccata in un processo degenerativo già osservato nel caso della salmodia antifonale
originaria al Piccolo e Grande Ingresso. Ogni volta che nella liturgia saltano
fuori queste schegge di versetto o di canto, esse sono o i frammenti di
un’unità liturgica degenerata, o elementi staccati aggiunti nel periodo
successivo, quando la gente aveva dimenticato che cosa fosse la salmodia.
Ma questa
unità salmodica era originariamente antifonale, come risulterebbe dalla
presenza della dossologia e della perissè che conclude il tropario? L’uso di
ritornelli non scritturistici al koinonikon nel Typikon del X secolo della
Grande Chiesa e nell’uso successivo - ad esempio “Ricevi il corpo di Cristo” e
“Alla tua cena mistica” - sembrerebbe confermare questa visione. Infatti,
nell’uso bizantino la dossologia conclusiva e tali ritornelli non biblici sono
caratteristici della salmodia antifonale. Nella salmodia responsoriale la
risposta era un versetto della Scrittura - solitamente il versetto di un salmo
- o l’alleluia.
Ma l’esaustiva
analisi di Thomas H. Schattauer dell’intero corpo dei koinonika o versetti di
comunione nel Typikon del X secolo, mostra che questi versetti sono le risposte
originarie al salmo di comunione, che quindi un tempo doveva essere un
responsorio e non un’antifona. Questo si accorda con la nostra prima prova
storica per la salmodia alla comunione in Cirillo (Giovanni II) di Gerusalemme,
Catechesi Mistagogiche 5, 20, Costituzioni apostoliche VIII, 13,16-17, e
l’esposizione di Giovanni Crisostomo del salmo 144. Dalla descrizione di
Crisostomo è chiaro che il salmo cantato ad Antiochia durante la comunione era
responsoriale e, sebbene il testo di Cirillo non sia esplicito, successive
fonti agiopolite confermano lo stesso per Gerusalemme, come ha dimostrato
Helmut Leeb. Questo doveva essere vero anche per le Costituzioni apostoliche
provenienti dai sobborghi di Antiochia, sebbene non dalla metropoli stessa,
poiché tutte queste fonti della fine del IV secolo antidatano l’introduzione
della salmodia antifonale nella liturgia eucaristica all’introito e alla
preanafora.
Possiamo così
solo concludere che il koinonikon bizantino originariamente era un salmo
responsoriale successivamente “antifonalizzato” dall’introduzione di una
dossologia conclusiva e perissé dalla sostituzione delle composizioni
ecclesiastiche con il responsorium in certi giorni. L’apparizione di tali
strutture ibride in sviluppi liturgici successivi non dovrebbe sorprenderci.
Leeb ha mostrato che la stessa cosa accadeva con il responsorio di comunione
nell’eucarestia di Gerusalemme.
La preghiera
di ringraziamento dopo la comunione è parallela al postcommunio della messa
romana. La litania accompagnatoria, come simili sviluppi altrove nella
tradizione bizantina e in altre tradizioni, è proprio un oremus ampliato, come
spiegato all’inizio. Così alla comunione uno vede una ripetizione della stessa
struttura di base che è emersa nell’analisi degli altri due “punti d’azione”
della liturgia, i due ingressi: la struttura comprende un’azione rituale,
coperta dal canto della salmodia, e conclusa da una colletta, proprio come nel
rito romano.
6. Il
congedo
La conclusione
della liturgia è abbastanza chiara. Va come segue:
“Procediamo in
pace”.
“Nel nome del
Signore”.
Preghiera
dell’ambone
Sal. 112, 2
(“Sia benedetto il nome del Signore...”) tre volte
Preghiera
nello skeuophylakion
Benedizione
Apolysis
La preghiera
di benedizione finale originaria, la cosiddetta “Preghiera dietro l’ambone”,
era probabilmente detta dal grande ambone al centro della navata quando il
clero, alla fine della liturgia, andava in processione lungo il solea o
itinerario processionale per uscire dalla chiesa ed entrare nello
skeuophylakion. Un’ulteriore preghiera, la “Preghiera nello skeuophylakion, era
detta nello skeuophylakion al momento della consumazione degli avanzi dei doni,
completando così la liturgia proprio come era iniziata, con una preghiera sui
doni in sacrestia.
Ciò che nel
rito attuale segue questa preghiera è la conclusione tradizionale dell’ufficio
monastico bizantino, che è stata aggiunta alla messa come una seconda
conclusione, nel medioevo, a causa di una tendenza più recente nello sviluppo
liturgico bizantino che modellava tutte le liturgie in maniera che il loro
inizio e la loro fine fossero più o meno simili. I romani fanno oggi qualcosa
di simile. La sola differenza è che hanno scelto come loro modello la liturgia
della Parola, mentre i bizantini, sotto l’influsso monastico, optarono per
l’ufficio monastico palestinese che si impose in tutto l’oriente bizantino dopo
la caduta di Costantinopoli da parte dei latini nella Quarta Crociata (1204).
Non abbiamo
bisogno di discutere i dettagli di quando e da dove le aggiunte posteriori
furono introdotte. Quello che abbiamo visto dovrebbe essere sufficiente ad
indicare come l’analisi strutturale delle unità può aiutare all’interpretazione
delle fonti storiche e all’identificazione e ricostruzione delle forme
liturgiche primitive, in questo caso le aggiunte successive al IV secolo alla
divina liturgia bizantina.
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