Il Destino
dell’eros di Olivier Clément
1. Erotismo, passione, vangelo
Oggi una
richiesta talvolta coraggiosa, spesso compiacente, conduce ad una onnipresenza
della sessualità. I mass-media, la
pubblicità, il pathos «rivoluzionario» diffondono un freudismo volgarizzato e
persino il senso della morte che il maestro viennese aveva trovato sparisce nei
sogni paradisiaci del freudo-marxismo. Questo timore della «frustrazione»,
questo eccitamento diffuso a fior di pelle, di nervi, di immaginazione sono
legati, pare, a tutto un insieme di delusioni.
Anzitutto
delusione nel lavoro che per molti è meccanico, ripetitivo, privo di
significato, un lavoro che con la evoluzione della tecnologia causa meno
stanchezza profonda e tensione nervosa molto maggiore. Sembra che solo la
«rottura» sessuale possa liberare da questa tensione. Il corpo dell’altro, per
finire, è la sola realtà di natura che sussiste per un gran numero di persone
nella civiltà tecnologica.
Delusione
globale, in definitiva, attraverso il nihilismo segreto e l’estrema solitudine
degli esseri. L’esperienza erotica è allora l’ultimo avvicinamento al sacro, l’ultimo
incontro con altri. Nei giovani rivoluzionari, delusi dall’inafferrabile
utopia, rimane la facile rivoluzione sessuale, l’ebbrezza della «libertà», il
ritorno, inteso come una invenzione, alle vecchissime estasi dell’orgia. Le
«comuni» con promiscuità sessuale esprimono un patetico e infantile bisogno di
fusione per sfuggire alla solitudine e alla morte, alla solitudine della morte.
Tuttavia, a forza
di parlare dell’erotismo, di essere invaso dai suoi fantasmi, di miniarne
laboriosamente le estasi e le fusioni, a forza di «permessività» borghese o
rivoluzionaria, ogni cosa diviene insignificante. E la futilità conduce a
rinforzare l’eccitazione, tanto più che la sessualità, per il momento, sembra
essere venduta bene e fa vendere bene. Da ciò deriva il carattere sempre più
violento e più meccanico dell’erotismo contemporaneo che è in definitiva, la
testimonianza di un indebolimento della vera sensibilità e si presentano dei
fenomeni di impotenza e di frigidità. Infatti, coloro che hanno il senso dell’eros
non ne parlano affatto. I popoli mediterranei, ad esempio, sono più pudichi di
quelli del Nord. Si presentano anche dei fenomeni di disgregazione. Se vi è
meno frustrazione, vi è più discontinuità e gli esseri faticano a realizzarsi
in una continuità personale.
Non si
dovrebbe, per questo, arrestarsi al solo erotismo. Se lasciamo gli
intellettuali ai loro esercizi osserviamo, nei semplici, una preoccupazione ben
diversa: quella dell’amore-passione, del «grande amore». In uno dei nostri
libri chiave della nostra epoca, L’Amore
e l’Occidente, Denis de Rougemont ha dimostrato che uno dei nostri ultimi
miti è quello di Tristano e Isotta, anche e soprattutto per coloro che non
hanno mai sentito parlare di questi eroi dell’amore-destino. La teoria di
Rougemont è la seguente: l’amore-passione è nato dalla opposizione tra l’affermazione
cristiana della persona e la persistenza tenace, nel mondo cristiano, di una
concezione puramente funzionale del matrimonio. Per molto tempo ci si è sposati
senza amore, per assicurare una discendenza alla famiglia. Ma la persona, già
risvegliata all’esigenza della libera scelta, ha cercato l’amore all’infuori
del matrimonio: fu la passione del trovatore o del cavaliere per la sua dama.
Si potrebbe del resto andare più lontano e mostrare che il primo amore
totalmente personale che si trova nella storia dell’occidente ha preso l’aspetto
di un’amicizia spirituale tra uomini e donne che avevano rinunciato al matrimonio: san Bonifacio, nelle lettere
indirizzate a santa Lioba, evoca il loro amore spirituale. Basta pensare al
contesto: quella società merovingia brutale fino alla crudeltà, con le sue
violenze carnali, i suoi matrimoni puramente biologici, il gioco carnale degli
adulteri. Monaci e monache compivano uno sforzo immenso per strappare l’esistenza
personale a tutta questa pesantezza «della carne e del sangue»; allora poterono
comunicare con degli accenti nei quali si annunciava il vero amore. Ma la carne
era ancora così violenta che un amore personale non sembrava potersi incarnare.
Anche l’amore-passione,
dato che si pone direttamente in relazione con l’assoluto senza vera mediazione
personale, si incarna male: «Non è possibile immaginare Isotta sposata con
Tristano» ironizza Denis de Rougemont. Nella passione, l’amore è accompagnato
dall’angoscia, da questa profondità di assoluto. L’attesa è premiata per un
istante da un essere dal quale si spera la rivelazione dell’assoluto. Poi
sopravviene la delusione ineluttabile: tutto è «realizzato», e quando «l’altro»
rivela miseramente se stesso ci si risveglia indifferenti o addirittura gelidi.
È noto che un amore cresce e muore come una malattia. E quando è morto, ci si
chiede che cosa è avvenuto. «Come potreste essere fedele, se non siete in grado
di afferrare la trama di un’altra vita? Mi chiedo come potete pensare a me, se
vi succede di pensarmi in modo diverso che attraverso le vostre immagini. Ho
cercato invano di ritrovare alcuni dei miei gesti nel vostro diario... A parte
il tic del mio labbro non vi è nulla che prenda corpo. In fondo ho sempre
destato il vostro interesse solo nella misura in cui ero me stesso e non nella
misura in cui mi pensavate. Avete mai pensato che io vivo all’infuori di voi?»[1].
Il vero amore
non è erotismo impersonale, né passione resa assoluta. Esso mette l’eros al
servizio della tenerezza, sa che anche l’altro ha bisogno di essere salvato ma
che, grazie al nostro amore, potremo salvarci insieme. Il Cristo ha ristabilito
la grande nuzialità delle origini, riprendendo i termini stessi del Verbo
creatore nel Genesi, sull’uomo e la donna che «saranno una sola carne». Il vero
matrimonio, che non è una istituzione sociale ma un mistero, da quel momento è divenuto possibile. In Cristo, possiamo
vincere la «durezza di cuore» e compiere l’apprendistato della fedeltà a
immagine del Dio fedele che non ha mai cessato di dirci di sì anche quando lo
rigettavamo. Ormai la grande nuzialità dell’uomo e della donna è dominata dal
perdono, della vita più forte della morte. Allo stesso tempo non è più
possibile dire come era necessario fare sotto il regime dell’antica alleanza
che non è giusto che l’uomo sia solo: nella comunione della chiesa, la cattiva
solitudine è vinta, il celibato può divenire vocazione di preghiera e di
servizio, profezia del mondo futuro. A fianco della vita nuziale, in relazione
profonda con essa, la vita monastica realizza anche il compimento dell’eros.
2.
Monaci e martiri
Il monachesimo
è apparso nella chiesa nel momento in cui è scomparso, con la conversione dell’imperatore,
il rischio permanente del martirio. Si poteva temere che il cristianesimo non
fosse secolarizzato, che non divenisse il cemento di una città terrestre.
Il monachesimo
fu la rivolta contro ogni compromissione. Esso conobbe nel suo primo movimento
una via aspra, quella dei «violenti che si impadroniscono del regno di Dio».
Massimalismo evangelico, esige il rifiuto del conformismo e delle ambiguità.
Per il monaco, solo Dio è totalmente interessante e agli uomini impegnati nelle
preoccupazioni e nelle realizzazioni della storia, egli appare come un
marginale, un pazzo, un fuorilegge: in realtà vuole sfuggire alla legge
superandola, divenendo quella esistenza nello Spirito di cui non si conosce
«donde viene né dove va».
Alcuni Padri
hanno definito il monachesimo una «santa deviazione». Immaginiamo che i
cristiani siano nuovamente perseguitati: un monachesimo istituzionalizzato non
avrebbe più ragione di esistere: vi sarebbe solo un celibato all’interno di
comunità eucaristiche sospette, talvolta chiamato al martirio. Questa era la
situazione durante i primi tre secoli della nostra era, e il culto dei santi,
che nacque sin dal periodo subapostolico, fu dapprima quello dei martiri.
Occorre comprendere
il significato del martirio nel cristianesimo. Non consiste unicamente nella
testimonianza, davanti ai giudici della terra della sola divinità del Cristo,
ma è lo stato mistico per eccellenza. Il martire non è un asceta, ma un uomo
dalla fede totale. Una giovane cristiana incinta rinchiusa nelle prigioni
romane, gemeva dando alla luce la sua creatura. «Che cosa dirai quando sarai
gettata in pasto alle belve?» chiede il carceriere. Ed essa rispose: «In quel
momento in me ci sarà un altro che soffrirà al mio posto». Infatti nel momento
in cui il martire si abbandona alla sofferenza, se aderisce con tutta la sua
sofferenza al crocefisso-risuscitato, nel suo modo stesso di abbandonarsi, è
invaso dalla potenza della resurrezione e conosce la gioia. «Dilaniata dalle
zanne delle belve feroci» diviene «un purissimo frumento» come diceva e come
testimoniava sant’Ignazio di Antiochia; egli diviene, in certo qual modo,
eucarestia. E quando la situazione politica abolisce momentaneamente il
martirio, sorge allora il monaco che, in maniera diversa, secondo la vecchia
massima, «dona il suo sangue e riceve lo Spirito».
Come la
testimonianza del martire, anche quella del monaco è la scheggia nella carne
del mondo, la piaga tormentata dal sale. «Voi siete il sale della terra» - che
impedisce alla storia di richiudersi su se stessa. In lui la fine è già
presente e il mondo diviene «roveto ardente».
In certi
momenti della storia il massimalismo evangelico passa dal martire al monaco; in
altri momenti, dal monaco al martire. In Russia, ogni monachesimo organizzato,
ad esempio, era scomparso nel periodo tra le due guerre, ma vi erano molti
martiri e sappiamo che pregavano per il loro carnefice. Oggi la maggioranza dei
monasteri che furono riaperti il giorno successivo alla fine delle ostilità
sono stati nuovamente chiusi. Ma, strettamente legato ad un nuovo tipo di
martire, si presenta «il martire della vita», fatto di umiliazione e di
abiezione, un certo numero di monaci segreti. Il loro destino è deciso, sono
abitati dalla preghiera, non si sposano più.
Il monaco,
effettivamente, è colui che non si sposa, perché vuole accorciare il tempo,
rimpiazzare il piacere degli altri nel tempo, con la realizzazione di se stesso
nell’eternità. È bello avere dei figli, poiché ciascuno è un essere desiderato
da Dio e perché il regno non verrà prima che il numero predeterminato degli
eletti non sia stato raggiunto (eletti, lo ripetiamo, non per se stessi ma per
dedicarsi alla salvezza del mondo). Ma colui, che per amore di Dio, non si sposa,
profetizza più direttamente il regno, rifiuta di installarsi nella storia,
nella continuità della specie e consuma in se stesso, il germe del tempo
anziché lasciare che si svolga nel tempo.
Vi è del resto
qualche cosa di analogo in un vero amore tra un uomo e una donna: essi non si
uniscono solo per avere dei figli, ma perché si amano ed è come se il loro
amore, senza indugiare oltre, trasfigurasse l’universo. Ma è necessario indugiare.
3. Il monachesimo,
realizzazione dell’eros
Così come
Giovanni si appoggia al cuore del Maestro durane l’ultima cena e poi, divenuto
vecchio, scopre il volto fulgido del Signore dei mondi, così il monaco è
affascinato dalla incomparabile bellezza del Risuscitato. In lui l’eros tutto intero è attirato da
quella bellezza fatta di amore e di luce, tanto più sconvolgente in quanto
irraggia attraverso la sfigurazione della passione della croce. Non vi è posto
per un’altra espressione dell’eros perché il monaco ha compreso che la distanza
e l’identità tra lo sfigurato e il trasfigurato danno la misura dell’amore
«folle» di Dio per lui, per tutti, e di quale altro amore potrebbe avere
bisogno?
È necessario
amare Dio con tutta la forza dell’eros. San Giovanni Climaco diceva che è
necessario amarlo come si amerebbe la propria fidanzata, la propria sposa. Il
monaco così infiammato diviene un «uomo apostolico»; ha il diritto di parlare
di Dio perché lo conosce con tutto il proprio essere. Non parlerà di lui come
il teologo a tavolino, nei libri, ma come colui di cui si può dire che «possedendo
la preghiera pura è veramente teologo». Quando parla di Dio, è un viaggiatore
che racconta, ha percorso il cammino della passione ed ha pagato il prezzo del
sangue.
Una chiesa in
cui non vi fossero più dei grandi monaci capaci di pellegrinaggi simili nelle
immensità di Dio per volgere in seguito verso gli uomini il viso infiammato
come quello di Mosè che scendeva dal Sinai, sarebbe agonizzante. Per vivere, la
chiesa ha bisogno di martiri o di monaci.
Ci si chiede:
perché una società invaghita non solo della potenza ma anche della saggezza,
tanto che sovvenziona dei lavori in cui si procede alla ricerca scientifica non
potrebbe favorire quei lavori spirituali in cui degli uomini si consacrano alla
«esplorazione di Dio?». Finiremmo tutti col riconoscere che è ridicolo
discutere sulla esistenza di Dio. Sarebbe meglio ascoltare con attenzione
coloro che lo conoscono per esperienza e dei quali crediamo che la fede e la
conoscenza totale che essa provoca non degrada la loro umanità ma la glorifica.
Abbiamo bisogno
di spirituali che possano divenire i nostri padri spirituali. Siamo rimasti
orfani troppo a lungo, e abbiamo trasformato la cura dell’anima in una forma un
poco frusta di psicoanalisi. Vorremmo anche degli uomini che praticano «l’arte
delle arti e la scienza delle scienze», come i Silenziosi chiamano il loro
«metodo», dei monaci capaci di discernere gli spiriti, di tuffarsi nei cuori, (che
sono un poco più profondi dell’inconscio degli psicoanalisti), di spirituali al
corrente della strategia dei combattimenti invisibili. Sì, abbiamo bisogno di
monaci!
4.
Obbedienza, castità, povertà
I voti
monastici tradizionali permettono di amare Dio e il prossimo «con tutto il
cuore, con tutta l’anima, con tutto lo spirito».
L’obbedienza libera la libertà crocifiggendo «l’amore
di sé». Colui che in tutta fiducia si rimette a un «padre» più avanzato sulla via
della liberazione supera la sufficienza e l’ascendente delle «passioni» si
stacca e si pacifica, si trova trasportato da una intercessione che lo
introduce nella comunione dei santi. L’obbedienza mette a morte l’idolatria di
sé, radice di tutte le altre, impara a sottomettersi a ogni vita in modo che
ingrandisca totalmente, cioè che insegni al monaco a divenire a sua volta
«padre».
La povertà,
come impoverimento ontologico, collabora con l’obbedienza per aprire l’uomo al
Dio vivente: e il farci umili nelle sue mani ci permette di ricrearci. Da qui
proviene ogni cosa, e tutto è grazia. La povertà è come il rovescio della
celebrazione. Interiorizzata dal laico impegnato nel mondo, essa supera l’idolatria
dell’economia, allontana con ironia l’ossessione di produrre e di consumare e,
come scriveva Paul Evdokimov, prepara una economia planetaria fondata sulla
spartizione ma ordinata alla comunione dal vero miracolo del pane: l’eucaristia.
La castità è
una nozione ricca e profonda della tradizione dell’antica chiesa, e questa
nozione vale tanto per l’uomo sposato che per il monaco. Castità significa
unificazione, pacificazione, integrità e integralità di tutto l’essere. Vi è
castità quando la persona integra realmente l’eros, il dinamismo della sua
natura. Abbandonarsi al movimento dell’eros significa disintegrarsi; uccidere l’eros
senza risuscitarlo, senza vivificarlo nello spirito, significa inaridirsi
secondo un tipo molto particolare di cattiveria monastica (spesso
inquisitoria). È necessario farne l’immensità dell’amore personale. Allora
tutta la forza della vita diviene la celebrazione di un incontro, l’incantesimo
di una tenerezza. Può essere l’amore della bellezza ultima del Cristo, che mi
concede il segreto di tutti i volti e la dolcezza di tutto il creato.
Ricordiamoci, nel chiostro di Avila, il tamburello col quale santa Teresa si
accompagnava per danzare quando il giubilo la invadeva. Ciò può anche avvenire ma
non vi è opposizione, il volto della beneamata che strappa al poeta quel grido
tanto banale e tanto essenziale:
«Come è bello
il mondo, mio beneamato,
com’è bello il
mondo!».
Obbediente,
povero, casto, il monaco diviene la sentinella del mondo. Nella regola che
diede ai monaci della chiesa romena nel 1953, il patriarca Giustiniano ingiunse
loro «di pregare per coloro che non sanno, non possono o non vogliono pregare».
Anche un monaco dell’Athos poteva dire a un ospite di passaggio, in occasione
di celebrazioni notturne quasi ininterrotte: «Dobbiamo pure trionfare di tutto
il sonno del mondo». Così è il violento che si impadronisce del regno: vede
tutte le cose nella luce del Cristo che viene e, attraverso ciò, affretta la
sua venuta.
Non per questo
un monaco è insensibile alla bellezza femminile, alla sua essenza che si
potrebbe chiamare «paracletica» dal nome di Parecleto, lo Spirito «consolatore».
Per tornare all’Athos, se nessuna presenza femminile vi è ammessa, ovunque, nel
cuore di ogni monastero vi è l’icona della madre di Dio, e l’Athos è spesso
definito come il giardino della Vergine. L’ascesa dell’eros verso l’eternità
avviene dunque attraverso la mediazione del più femminile dei volti, così come
un’amicizia spirituale può avere un ruolo prezioso in un destino consacrato all’adorazione.
Ma allora, «ama il più degno d’amore in questo mondo, l’io dell’altro. E come
accogliere la bellezza? È semplice: riconosci, accogli nel tuo cuore questo
dono dolcissimo del cielo, poi lascialo tranquillo salvo per augurargli la
bellezza suprema di Dio, la sua grazia suprema»[2].
5.
La voce nuziale
È
significativo il fatto che la consustanzialità della natura umana, la sua
unità, ci sia dapprima rivelata dalla bibbia sotto una forma nuziale: l’uomo,
quando Dio conduce a lui la donna, dice: «Questa è ossa delle mie ossa, carne
della mia carne». E il Genesi continua, sulla realtà presente del matrimonio:
«Perché l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a una donna, e essi
diverranno una sola carne» parole che il Cristo riprende nel vangelo. Così l’amore
della donna e dell’uomo è originale, paradisiaco, offerto nel suo splendore ben
prima del peccato: «E l’uomo e la donna erano entrambi nudi, senza vergogna»[3]. Nel
paradiso non troviamo il monaco, ma la coppia.
Certo la condizione
separata ha toccato molto profondamente la relazione dell’uomo e della donna. L’uno
e l’altro sono stati trascinati dal gioco impersonale dell’eros in cui si
cercano dolorosamente per incontrarsi un istante, perdersi nuovamente o non
incontrarsi mai.
Paul
Evdokimov, la cui meditazione dell’amore umano è tanto preziosa, applica
simbolicamente all’uomo e alla donna l’interrogativo che Dio pone ad Adamo, nel
paradiso già perduto: «Dove sei?». Nello stesso modo, scrive Evdokimov, l’uomo
e la donna non cessano di dirsi l’un l’altro: «Dove sei?» nel corso di una
storia in cui l’attrazione e l’odio si fondono. Si potrebbe infatti studiare
ciò che Maryse Choisy ha chiamato «la guerra dei sessi». Il periodo patriarcale
non è sempre esistito, l’uomo non ha sempre dominato la donna. La storia e la
preistoria hanno conosciuto dei fenomeni di matriarcato (attestato fino al
XVIII secolo in alcune campagne francesi in cui l’uomo era semi-nomade) e di
poliandria, praticata nel Tibet fino ai nostri giorni e del resto considerata
come un ottimo metodo per la limitazione delle nascite! Se il femminismo sembra
essere stato legato piuttosto al mondo animale che la spende, piuttosto che una
dominazione unilaterale si presenta un gioco complesso di tensioni e di
alternanze. In molte tradizioni arcaiche (e la cosa è riapparsa in India) in
pieno periodo patriarcale, con il tantrismo, era possibile avvicinarsi al
divino attraverso un simbolismo cosmico e femminile (non solo la terra madre,
ma la grande madre divina) ed esisteva
un sacerdozio femminile.
Alla forza
superiore dell’uomo la donna ha opposto la sua tenacità biologica. Sessualmente
l’uomo è legato all’istante, la donna alla continuazione. Serva, ma che
partorisce e infantilizza il maschio, serva della specie in definitiva e l’uomo
è sempre tentato di dissolversi nel seno della grande madre cosmica.
È in Cristo,
nel misterioso rapporto che lo unisce alla chiesa, che il cristiano cerca la
riconciliazione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, dell’eros
e della persona. Il cristianesimo, anche se certi contesti culturali lo hanno
talvolta deformato, ha posto definitivamente la trascendenza della persona
stabilendo dunque che l’uomo e la donna sono entrambi delle persone, molto più
che eguali, assolute. È per questo che san Paolo ha potuto scrivere: «In Cristo,
non vi è più uomo né donna»[4]; vi
sono, fondamentalmente, delle persone.
Simultaneamente
il Cristo ha restaurato la buona popolarità del maschile e del femminile, gli
ha restituito il suo splendore paradisiaco, lo ha pacificato, illuminato con
quel grande amore che esiste tra lui e la sua chiesa, tra lui e la terra
deificata dell’eucaristia, perché la chiesa non è solo il suo corpo ma la sua
sposa ed è una donna, Maria, che in nome dell’umanità e della terra, ha
liberamente riaperto la creazione al suo creatore.
Ecco perché
san Paolo afferma ancora: «Nel Signore, la donna è nulla senza l’uomo, e l’uomo
è nullo senza la donna»[5].
In tale
prospettiva il vero matrimonio che non è sociologico ma sacramentale «è un gran
mistero» - scrive l’apostolo - non mette in causa, come abbiamo detto, la vera
castità.
In occasione
del primo concilio ecumenico, quello di Nicea, alcune voci insinuarono che il
matrimonio e il sacerdozio erano incompatibili perché la sessualità rende
impuri. Ora, occorre sottolinearlo, questo problema non si era mai posto dalle origini del
cristianesimo. L’apostolo Pietro, in particolare, era sposato, e Clemente di
Alessandria, riunendo vecchi documenti, ci mostra l’amore coniugale dell’apostolo
e di sua moglie raggiungere il suo culmine nel momento del martirio. San Paolo,
che aveva avuto degli accenti monastici, e aveva preferito conservare il
celibato nella speranza di un ritorno immediato del Signore, quando alla fine
della vita fu chiamato a precisare l’organizzazione delle comunità che aveva
fondate, chiese soltanto che il vescovo (il termine indicava allora tanto i
nostri vescovi che i nostri preti) fosse «l’uomo di una sola donna». La
raccomandazione ha valore mistico e non morale: nell’antica chiesa, infatti
(come oggi nella chiesa ortodossa), un vedovo non poteva accedere al
sacerdozio.
La fedeltà del
prete a una sola donna - e questo andrebbe oltre la morte - deve essere l’immagine
della fedeltà assoluta di Dio.
Ora lo
sviluppo di un dualismo (al limite manicheo) che reagiva contro il
pansessualismo di alcuni culti pagani, il ritorno di una dialettica
vetero-testamentaria del puro e dell’«impuro», e infine l’evoluzione del
sacerdozio in una casta clericale, portarono il concilio di Nicea a porre il
problema della impurità o della purità del matrimonio. Fu allora che un grande
monaco egiziano, Pafnuce, che conosceva per esperienza le vie della castità
ascetica, ricordò con forza che il matrimonio è casto e che è dunque
perfettamente conciliabile con l’esercizio del sacerdozio.
Nella
tradizione della chiesa indivisa, la dualità della vita monastica e della vita
coniugale non coincide affatto con quella del sacerdozio e del laicato. Si può
benissimo concepire che anche un laico abbia bisogno del celibato per
realizzarsi; i monaci, in occidente, fino al periodo carolingio e in oriente, a
parte poche eccezioni, fino ai nostri giorni, sono quasi tutti dei laici. In
oriente avviene che alcune comunità monastiche non abbiano sacerdote, e i
sacerdoti giungano per le celebrazioni eucaristiche delle ricorrenze e delle
domeniche; durante il resto del tempo i monaci cantano e salmodiano le funzioni
come i laici hanno diritto di fare. Se dunque un laico può essere preso dalla
vocazione del celibato, un uomo sposato può essere preso da quella sacerdotale
e ciò in oriente avviene spesso. Ciononostante dato che si tratta qui delle vie
inventive dell’amore si può facilmente concepire (e siamo incoraggiati a fare
ciò dall’esempio di Paolo) un prete che restasse celibe per una più grande
disponibilità apostolica. Pare che questa sia una delle acquisizioni dell’esperienza
occidentale del sacerdozio. Ciò significherebbe che la chiesa dovrebbe
scegliere i suoi preti tanto tra i migliori celibi quanto tra i migliori uomini
sposati. L’essenziale è di non opporsi, di non clericalizzare il celibato - poiché
anche un laico ha diritto a certe forme di massimalismo - di non squalificare
il matrimonio perché i diversi sacramenti sono come altrettanti raggi dell’unico
sole eucaristico e si comprende male come, se il matrimonio è un sacramento,
potrebbe essere incompatibile con quello dell’ordine. Forse il problema sembra
insolubile, oggi, nella chiesa cattolica, non solo a causa di un lungo
condizionamento storico ma perché manca l’ambiente profondamente ascetico,
calamita per tutti verso una autentica castità, suscitata dal primato della via
monastica nella chiesa. Al contrario, i deliri contemporanei che concernono la
realizzazione dell’uomo attraverso una «libera» sessualità sconvolgono il
clero, tanto più che questo è composto ancora da una maggioranza di preti che
sono stati «messi da parte» quando erano ancora troppo giovani, in virtù di una
concezione individualista e sentimentale della «vocazione» e attraversano la
loro crisi di adolescenza a quaranta o cinquant’anni.
Il matrimonio
è casto attraverso l’integrazione dell’eros nell’incontro di due persone che,
trascinate dalla comunione ecclesiale fanno della polarità delle loro nature il
linguaggio del loro amore e si offrono reciprocamente il mondo. Durante nove
secoli non vi è stato un vero e proprio rituale di matrimonio: esso univa due
esseri che, vivendo insieme, si comunicavano insieme. Un uomo e una donna che
mettono le radici della vita in Cristo, debbono scoprire il loro amore, debbono
rinnovarlo, dargli per ciascuno il volto dell’altro, e per entrambi i volti dei
loro figli, ma non debbono inventarlo: esso esisteva prima di loro, li ha
guidati uno verso l’altro, è l’amore di Dio e della terra, di Dio e dell’umanità,
del Cristo e della sua chiesa. La donna non è nata dal «sonno» dell’uomo ma
dalla sua «estasi» come più giustamente traduce la vecchia bibbia greca dei
Settanta. Nello stesso modo la morte del Cristo sulla croce è un’«estasi» che
fa nascere la nuova umanità. Quest’estasi del crocifisso è la base di ogni
amore umano. Un vero amore, anche molto lontano dalle frontiere apparenti della
chiesa, ritraccia, più o meno consapevolmente, questa estasi. Se non la
conosce, si consuma, o la morte lo interrompe, perché «non esiste amore
felice». Lo sa egli? Inizia un’ascesi, che consiste nell’attingere nell’estasi
inesauribile del Cristo. Dal suo fianco trafitto sgorgano l’acqua del battesimo
e il sangue dell’eucaristia. Dalla beatitudine del suo essere torturato scaturisce
lo Spirito, e quando l’amore umano sembra inaridirsi, è sufficiente scavare
fino alle falde inesauribili dell’amore divino-umano. Attraverso il pentimento,
il perdono, la fiducia senza reciprocità del «deserto», l’altro ci viene
restituito all’improvviso, la meraviglia e la gratitudine si approfondiscono e
la fedeltà diviene, nello spirito, accesso alla novità: in modo che tra noi si
rivela ancora sempre quel «gran mistero» il cui sicuro criterio, contrariamente
alle esaltazioni fugaci della passione, potrebbe essere la pace, la gioia, la
fiducia condivise.
L’ascesi della
vita nuziale comporta anche tre esigenze maggiori.
La prima è l’interiorizzazione,
ma non l’elusione dell’ostacolo. L’amore non può durare, può evitare l’affondare
nelle sabbie mobili della promiscuità e dell’usura solo se rimane seminato di
ostacoli. Nel vero matrimonio l’ostacolo non sparisce ma si interiorizza.
Diviene la dura necessità di rispettare l’alterità dell’altro perché questo
essere tanto vicino rimanga comunque un prossimo. «Diverrà una sola carne»,
cioè una sola vita, e non è fusione, ma comunione e occorre sapere rimanere due
esseri. Occorre risvegliarsi all’esistenza dell’altro, una esistenza reale, interiore
quanto la mia, inaccessibile non nella sua opacità (l’altro diviene allora un
oggetto troppo accessibile al mio odio) ma nella sua trasparenza.
La seconda
esigenza è il rifiuto di oggettivare l’eros. L’occidente, dopo i silenzi
vittoriani, si getta oggi sulle «arti di amare». E certamente, se l’amore è un
linguaggio, occorre imparare a parlare bene. Ma a che cosa serve, se non si ha
più niente da dirsi, se rimangono solo dei meccanismi ben concatenati?
Rifiutare simultaneamente il vagabondaggio dell’immaginario e la
meccanizzazione dell’eros, equilibrare l’attenzione dell’altro e la
celebrazione della vita, un’ascesi di cui non ci si è mai occupati!
La terza
esigenza è che l’amore umano deve compiersi e superarsi in un servizio comune.
Una coppia che si richiude su se stessa si auto-condanna. In questo grande
movimento di servizio e di vita che, solo, permette alla chiesa di essere se
stessa, non esiste altra scelta oltre la distruzione reciproca o la creazione
operata insieme. Il fatto che nella tradizione della chiesa indivisa e, ancora
oggi, nell’ortodossia, il sacerdozio sia in certo qual modo, qualora si tratti
di un prete sposato, assunto non dall’uomo solo ma dalla coppia è d’un immenso,
di un esemplare significato.
Interviene a
questo punto il mistero del figlio, il mistero proprio della famiglia: «Ecco
perché mi inginocchio davanti al Padre, dal quale ogni cosa che è famiglia, in cielo e in terra trae il
proprio nome»[6]. In una prospettiva
veramente cristiana non si può dire che lo scopo del matrimonio sia la
procreazione. Un vero amore non ha scopo; esso è, in se stesso, la propria
evidenza. Ma non può quindi non essere fecondo, perché questa fecondità tende a
servire e a lottare insieme, ad accogliere insieme il prossimo, o a «mettere al
mondo» dei bambini. Poche sono le coppie che mettono veramente al mondo i loro
figli! Quante coppie si ripiegano invece su di essi divorandoli con la loro
umida adorazione fino a quando questi bambini, con una impietosa brutalità, si
liberano da soli da questa sterile matrice familiare. Quanti adulti cercano il
senso della vita nei propri figli, anziché trasmetterlo ad essi: sono dei
servitori della specie, non della persona. Mettere veramente al mondo i propri
figli, significa non solo dar loro la vita ma l’esempio di un’opera creatrice;
significa accettare il destino della scorza intorno a una gemma, che protegge
durante il necessario periodo, poi si apre poco a poco alle necessità.
Significa fare della propria famiglia quella «piccola chiesa» domestica di cui
parlava san Giovanni Crisostomo, in cui i bambini, attraverso l’esempio stesso
degli adulti, compiono l’apprendistato della doppia apertura verso Dio e verso
il prossimo. Com’era sensata, nelle vecchie usanze contadine cristiane, l’abitudine
di lasciare sempre un posto libero a tavola: lo sconosciuto che forse avrebbe
bussato alla porta, avrebbe potuto essere lo Sconosciuto, perché Dio, si
pensava, visita spesso gli uomini sotto un aspetto familiare.
Ma il bambino
stesso non è forse un piccolo sconosciuto che viene tra noi? Tutte le
rassomiglianze che lo plasmano e che ci rassicurano non gli impediscono di
essere radicalmente diverso. Sempre di più, lo sappiamo, il bambino nascerà
perché desiderato. Vi è qualche cosa di grande in questa libertà che trasforma
la fecondità da fatalità biologica in desiderio di un amore più vasto, ma a una
condizione: alla condizione che il bambino, anche desiderato e un giorno potrà
essere «programmato», sia anzitutto fondamentalmente accolto, e accolto come
uno sconosciuto.
6.
Incertezze
Nulla tocca il
mistero dell’esistenza personale come questo tema dell’amore umano e questa è
la ragione per cui si impongono il rispetto e la discrezione e ancora di più il
precetto evangelico di non giudicare. Ricordiamoci l’atteggiamento di Gesù
davanti alla donna «sorpresa in flagrante delitto di adulterio»[7].
Ricordiamoci dell’altro passaggio, di una intensità carnale incredibile, in cui
lo stesso Gesù lascia che una prostituta gli avvolga i piedi con i propri
capelli e glieli bagni di profumi e lacrime. Ogni cosa è impregnata di eternità
per la vicinanza della morte e della metamorfosi: «Essa fa ciò a causa della
mia sepoltura». Il fariseo che riceve Gesù pensa: «Se quest’uomo fosse un
profeta, saprebbe che la donna che lo tocca è una prostituta». Gesù,
comprendendo i suoi pensieri, gli dice: «I suoi numerosi peccati sono stati
perdonati perché ha molto amato, ma colui a cui si perdona poco ama poco». E
alla donna: «La tua fede ti ha salvato, va in pace»[8].
Ricordiamoci,
per concludere, l’incontro con la Samaritana - un’eretica! - presso il pozzo di Giacobbe. Gesù le ricorda
tranquillamente che essa ha avuto cinque mariti e che non è unita in matrimonio
con l’uomo con il quale ora convive. Questo richiamo non giudica ma afferma una
chiaroveggenza che deve far comprendere alla donna l’identità del suo
interlocutore. - Signore, - essa gli dice - vedo che sei un profeta - Ed è a
questa donna che Gesù rivela non solo il mistero dell’acqua viva ma che «Dio è
Spirito e che coloro che lo adorano devono adorarlo in spirito e in verità»[9].
Davanti alla
donna adultera, alla prostituta, alla donna dai cinque mariti Gesù,
contrariamente ai farisei - e soprattutto ai farisei della cristianità - ,
rifiuta di dar privilegio alla miseria della carne, di fare del sesso il capro
espiatorio della nostra angoscia: individua solo in questa miseria un segno
della nostra comune situazione: «Colui che non ha mai peccato getti la prima
pietra». Sa anche che quelle donne dall’esistenza sconvolta sono delle umili e
che saranno le prime a comprenderlo.
Ecco perché il
messaggio cristiano, in questo campo, non è una legge che impone ma una
calamitazione da proporre. Non spetta alla chiesa dettare le leggi dello stato
o di bloccarle come un qualunque «gruppo di pressione»; la chiesa ispira e
santifica, non costringe, ma cerca di trasformare i cuori.
Tuttavia è
necessario andare oltre. Anche per i suoi figli, la chiesa deve essere una
madre misericordiosa e non un potere giuridico impersonale. I precetti relativi
dell’amore umano devono essere adattati dai «padri spirituali» e dai vescovi
dotati di discernimento a ogni destino personale, con infinito rispetto. A
questo punto interviene, nell’uso canonico dell’oriente cristiano, la nozione
fondamentale di «economia» che indica appunto questo misericordioso
adattamento. L’ortodossia insiste sul mistero della monogamia come fa il
cattolicesimo e forse di più; perché le nuove nozze di un vedovo non vengono
incoraggiate e sono accompagnate da un rito penitenziale. Eppure, seguendo la
parola di Cristo secondo la quale il divorzio è impossibile per il cristiano
salvo in caso di porneia (termine che
indica una situazione di adulterio e di fornicazione), avviene che si constati
la rovina di una coppia, di registrarne lo sconvolgimento e di concedere
nuovamente a un divorziato il sacramento del matrimonio. Ciò dipende dal fatto
che questo sacramento non è paragonabile al battesimo in cui la libertà dell’uomo
ha davanti a sé solo la grazia offerta. La grazia, nel matrimonio, è offerta ad
una coppia cioè all’accordo di due libertà umane. Ora in alcuni casi limite per
il discernimento dei quali si esige la massima circospezione da parte dei
responsabili ecclesiastici, avviene che una contrizione comune e un perdono
reciproco non siano possibili, che la coppia non esista più e non possa più
inserirsi come tale nella corrente d’amore che lega il Cristo alla sua chiesa.
Come potrebbe la chiesa allontanare questi destini spezzati dalla comunità?
Oserebbe forse allontanare il Cristo dalla donna adultera, dalla prostituta,
dalla donna dai cinque mariti che ora convive con un uomo che non è suo marito?
E chi siamo noi per scagliare la pietra del diritto?
7.
Donna, portatrice di aromi
Oggi, al
termine di un lungo periodo di patriarcato, la donna cerca di affermarsi come
una persona umana nella sua compiutezza, in un soggetto libero e responsabile.
È il fermento evangelico che agisce, liberandosi finalmente dalle vecchie
strutture pagane. Ma la lotta necessaria per l’uguaglianza sociale, dovendo
essere condotta, troppo spesso, contro l’uomo, ci lascia incerti sulla vera
identità della donna, sul senso della femminilità. Il corpo, l’anima, la
maternità, sono certamente dei simboli, ma più che mai dopo tante interpretazioni
che hanno definito la donna come un essere inferiore. Ora, per il
cristianesimo, il maschile e il femminile non sono delle essenze gerarchizzate,
ma delle modalità dell’unica natura umana. Entrambi, l’abbiamo detto, sono
presenti in ogni uomo e in ogni donna in modo che la donna, quando esige la
propria dignità personale contro l’uomo,
comincia ad assomigliare a questi, valorizzando nel proprio odio la sua stessa
dimensione mascolina a detrimento della sua femminilità. Donde l’ambiguità dell’attuale
«rivoluzione femminile» in estremo occidente. La donna vi insorge a questo
titolo contro un freudismo che, ritrovando senza saperlo la conoscenza di
vecchi pregiudizi aristotelici e scolastici, la vede come una specie di maschio
mancato. La donna protesta contro una società del piacere che fa di essa un
oggetto erotico e della sua nudità un mezzo pubblicitario - insomma una totale
corruzione dell’immaginario. Essa auspica una reciprocità reale con l’uomo, una
partecipazione diretta alla vita della città, in cui ha da tempo dimostrato il
proprio valore; la sua compassione attiva, pugnace si risveglia in favore di
tutti gli oppressi - quelli del terzo mondo o delle bidonville, quelli delle minoranze disprezzate, quelli delle
fabbriche in cui il modo di guadagnarsi da vivere costituisce spesso una
perdita dell’anima. Eppure, in mancanza di un’ispirazione veramente spirituale,
il caos minaccia e le dominazioni si capovolgono anziché far posto ad una
tensione creatrice. La violenza crea un tipo di amazzone omosessuale e
dominatrice e l’ignoranza delle discipline della metamorfosi, una volta
infrante le vecchie barriere, libera solo degli istinti e delle antichissime
magie.
È importante
quindi anche in questo campo, purificare e affermare serenamente, una
ispirazione veramente cristiana. Si potrebbe suggerire, con Paul Evdokimov, che
il mascolino riflette più particolarmente, nella natura umana, il Verbo che
struttura e definisce e il femminile, lo Spirito santo che ispira, consola ed
incarna. Abbiamo già detto che il termine Rouach, che nelle lingue semitiche
indica lo Spirito è molto spesso femminile. Il linguaggio della chiesa
stabilisce del resto una stretta corrispondenza tra lo Spirito di ogni santità,
Panagion, e la donna per eccellenza,
la madre di Dio venerata come la «tutta santa», Panagia. In un testo dell’antichità cristiana, la Didaché,
troviamo, a proposito del diaconato, allora conferito tanto alle donne quanto
agli uomini: «Il diacono tiene il posto del Cristo e voi l’amerete. Onorerete
le diaconesse al posto dello Spirito Santo».
Queste
osservazioni ci permettono di decifrare i simboli iscritti nel modo di essere dell’uomo
e della donna.
Il movimento
mascolino, nella sessualità come nel modo di incedere - incedere fisico ma
anche intellettuale - è allo stesso tempo lineare e irregolare mentre il
movimento femminile sembra fatto di irradiazione e di continuità. Allo stesso
modo, la geometria angolosa del corpo dell’uomo si oppone alla continuità
armoniosa del corpo della donna.
L’uomo agisce
come l’arciere e mira diritto al bersaglio e la sua volontà si tende per
superare l’ostacolo. La donna reagisce con un’azione di presenza in cui una
vibrazione di tutto l’essere ha più importanza della volontà astratta. Essa
cerca - essa trova, piuttosto, meno efficacità che espressività. Se un bambino
attacca, sua sorella si travestirà.
L’uomo è
scoppio - di risa e di collera; la donna scorre come l’acqua e sa sorridere
come l’acqua.
L’uomo è
espansione conquistatrice, mira lontano, lo dice con lirismo. La donna si
adatta all’immediato, indica il concreto, è ironica.
L’uomo evade,
la donna sprofonda; sua è la preoccupazione, sua è spesso la devozione.
L’uomo pensa
con la propria testa, la donna lo fa con tutto il proprio essere. Porta il
figlio nella propria carne ed è in connivenza con la vita.
Ma per passare
da questa descrizione ambigua all’immagine divina, la verità della femminilità
esige un’ascesi di trasfigurazione.
Nelle chiese d’oriente
sopra le «porte reali» che precedono l’altare e davanti alle quali i fedeli
ricevono la comunione, abitualmente sono rappresentati, ai lati del Cristo in
tutta la loro maestosità e in un’attitudine di intercessione, la madre di Dio e
san Giovanni Battista. Evdokimov vede in queste due figure le immagini
induttrici maschile e femminile. Il Battista, nella discendenza di Elia, è il
violento che interiorizza la propria violenza per «preparare le vie del
Signore», nella certezza che «egli deve crescere ed io diminuire». Qui l’espansione
conquistatrice del mascolino trova la propria croce e la propria metamorfosi.
Ad immagine del Battista, l’uomo spirituale non sarà lo sposo che domina e
possiede ma «l’amico dello sposo» celeste, colui che sa che la donna, in quanto
persona, ha un rapporto immediato con Dio. Quanto alla madre di Dio, essa
partorisce la forma divina sulla terra e la forma umana nei cicli, compiendo
così la maternità spirituale. A immagine di lei, la maternità attraverso la
quale la donna si salva (per riprendere una espressione di san Paolo) non è un
destino biologico né il semplice istinto materno, col quale sappiamo che può
possedere il bambino fino all’asfissia. La vera maternità si trasfigura, ad
immagine di colei che, ai piedi della croce, ricevette la grande consacrazione
della maternità universale: - Donna, ecco tuo figlio - le disse il crocefisso
indicando il proprio amato discepolo - e chi di noi non è amato da lui? - Solo
questa maternità sacrificale, disinteressata, perfettamente compatibile con il
celibato può decifrare il senso della maternità fisiologica. Evdokimov afferma
che, al limite, la vocazione spirituale della donna consisterebbe nel «generare
Dio nelle anime devastate».
Ogni essere
umano, sia esso uomo o donna, è chiamato a una certa virilità rispetto alla
propria natura - pensiamo alla «donna forte» della bibbia -, ma anche ad una
certa femminilità nella sua relazione con Dio. Anche nell’uomo la vita
spirituale culmina in un atteggiamento quasi femminile di fronte al mistero, e
questa è la ragione per cui si è realizzata l’incarnazione attraverso una donna
che oggi si trova al centro della comunione dei santi.
Ciononostante
quando l’uomo e la donna, fecondati da Dio, si volgono verso il mondo,
ritrovano, trasfigurata, la modalità che domina in lui: l’uno è un
risvegliatore, un combattente, mentre l’altra «copre la vita con la sua
protezione materna». L’uomo, per risvegliare, ferisce, mentre la donna
cicatrizza e guarisce: «ogni donna è una mirrofora», diceva Fédorov. Dei due
atteggiamenti fondamentali dell’ascesi cristiana, la vigilanza è virile, mentre
la tenerezza è femminile.
L’umanità ha
inizio con Adamo, per compiersi, attraverso l’Adamo definitivo, divino-umano,
il Cristo, in una donna, la madre di Dio. L’asse della chiesa che, in Cristo, è
la chiesa dello Spirito Santo non è la gerarchia, ma la santità. Rispetto a
questo asse, il sacerdozio d’ordine è strumentale, è una funzione che non
conferisce ai suoi detentori nessuna superiorità di essenza. È riservato agli
uomini perché il sacerdote, nella celebrazione è l’immagine del Cristo, e il
Cristo, pur ricapitolando l’intera natura umana, è uomo e non donna o
androgino. Il Cristo non è venuto solo perché lo Spirito possa discendere, ma
perché appaia, sotto le lingue di fuoco della Pentecoste, un’umanità rinnovata
nel cuore della quale vi è una donna.
Per la donna,
rivendicare il sacerdozio d’ordine testimonia di una dimenticanza dello Spirito
e della deificazione; è l’amaro frutto della clericalizzazione della chiesa.
È necessario
inventare di nuovo il ministero delle diaconesse, espressione della maternità
spirituale misteriosamente legata allo Spirito.
È necessario
anche che la donna possa essere la moglie del prete, portatrice a sua volta del
sacerdozio e che il suo atteggiamento non sia funzionale ma personale, fatto di
discrezione e di dedizione nello spirito.
È chiaro ora
come l’uomo e la donna siano complementari non come due funzioni ma nella
complessa totalità della loro esistenza personale.
A questo punto
l’eros non è più fascino personale della carne, o uso - platonico o tantrico - «dell’altro»
come di un mezzo di estasi, ma attesa di un altro per una comunione di corpo e
di anima. Nel difficile dialogo del vero amore, tanto difficile che ha bisogno
per sistemarsi, per approfondirsi di tutta la durata di una fedeltà, in questo
dialogo in cui «l’anima avvolge il corpo» vi sono due persone che a poco a poco
si riconoscono. Allora la donna non è più la donna in generale, femminilità
cosmica o eterno «femminino», ma è quel tu che la modalità diversa dalla sua
umanità mi aiuta a chiamare. E lo stesso fa l’uomo per lei. Ogni subordinazione
è reciproca, in modo che una libertà fa dono di sé ad un’altra. Ciascuno trascende
l’istinto di possesso che lo rinchiude nella solitudine e nella morte. L’essere
umano, in questa esistenza che non è più dominatrice o disprezzata, ma
comunicante, appare doppio ed uno, secondo la reciprocità del rispetto, della celebrazione
e della tenerezza.
«Trasportiamo
questo tesoro in vasi di argilla». Ma i nostri lunghi cammini nella notte non
ci faranno mai dimenticare questo chiarore d’alba, questa scintilla pasquale di
un vero amore.
Da: OLIVIER CLÉMENT, Riflessioni
sull’uomo, Milano, 1975, 73-93.
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