Sant'Antonio abate
Chiesa di S. Giorgio in Lemine
Sant’Antonio il grande
17 (30) gennaio
Patrono di Berbenno, Costa Volpino, Vedeseta,
Cantoni d’Oneta
Antonio il Grande di Luciana
Mortari
Se le date
tramandate dalla tradizione sono esatte, visse più di 100 anni, dal 250-51 al
356. Era nativo di un villaggio copto; di famiglia cristiana, di cultura
semplice e limitata. «Frequentava con i genitori la chiesa… era sottomesso ai
genitori» (Vita Antonii, 1, 3), era un giovane molto pio. Rimase presto orfano,
solo con una sorellina: «aveva 18 o 20 anni e si prendeva cura della casa e
della sorella» (ibid., 2, 1). Pochi mesi dopo, sentì irresistibilmente rivolta
a lui la parola del Signore al giovane ricco, che udì leggere in chiesa: «Se
vuoi essere perfetto va’, vendi tutto quello che possiedi, dallo ai poveri, e
avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi» (cf. Mt 19, 21). Per gradini
successivi si diede a una vita di preghiera e penitenza, prima in casa; poi
affidò la sorella «a delle vergini fedeli, che ben conosceva, perché fosse
allevata nella verginità» (Vita, 3, 1), e iniziò una vita più solitaria nelle
vicinanze del villaggio, seguendo l’esempio e l’insegnamento di un vecchio
asceta che viveva da quelle parti. Vi erano infatti già persone che, da sole o
in piccoli gruppi, consacravano tutta la loro vita al Signore nella verginità,
penitenza e preghiera. Ma il fenomeno non aveva ancora raggiunto né particolari
dimensioni, né l’aspetto di esodo dai luoghi abitati che si verificò sulla scia
di Antonio; a buon diritto quindi egli ha avuto il titolo di padre del
monachesimo. Il suo rapporto con quell’anziano, congiunto alla ricerca di
qualche contatto con gli uomini amanti di Cristo, è una testimonianza viva di
un punto essenziale della vita ascetica: il doversi mettere a scuola, il non
poter iniziare senza maestro. Seguì poi il ritiro di Antonio più lontano dal
mondo, in una delle tante tombe di una regione disseminata di sepolcri. Qui
visse fino all’età di 35 anni, per inoltrarsi quindi nel deserto e insediarsi a
Pispir, in un fortino semidistrutto. La sua fama diventa sempre più grande, e
sempre più numerosa la gente che vuole udire da lui qualche parola. Frattanto
cresce in lui il desiderio, inappagato, del martirio e di una solitudine sempre
maggiore. Durante le persecuzioni di Diocleziano e Massimiano, si recò ad
Alessandria sperando di essere anch’egli martirizzato, ma non avvenne così.
«Serviva tuttavia i martiri nelle miniere e nelle carceri e, assistendo ai
processi, con i suoi discorsi esortava appassionatamente i lottatori perché
avessero più pronta buona volontà al martirio» (ibid., 46, 3). Placatasi la
persecuzione, Antonio ritornò nella sua solitudine, ove «subiva ogni giorno il
martirio della coscienza e lottava la lotta della fede» (ibid., 47, 1). Dato
che molti lo molestavano insistentemente, si allontanò dal Nilo inoltrandosi
ancor più nel deserto, in direzione del Mar Rosso, per fermarsi «in monte
interiore» (ibid., 51, 1), nella parte più interna di una montagna che ancora
oggi porta il nome di monte di S. Antonio, monte da cui si può vedere il Sinai.
Questo fu l’ultimo luogo di soggiorno di Antonio, che egli non lasciò più se
non per recarsi una seconda volta ad Alessandria, sollecitato dal vescovo
Atanasio a intervenire a suo sostegno, assieme ad altri, in favore dell’ortodossia
nella lotta contro gli ariani. Tornò presto nel luogo della sua solitudine ove,
negli ultimi anni della sua vita, compì grandi prodigi. Previde la sua morte e
ordinò ai due fedeli discepoli di seppellire il suo corpo in luogo sconosciuto
a tutti, perché non avvenisse – come soleva accadere – che in eccessi di
devozione i fedeli lo rubassero. I discepoli obbedirono; e analogamente a
quanto è scritto del patriarca Mosè nella Bibbia (cf. Dt 34, 6), Atanasio
scrive che «nessuno sa dov’è nascosto il corpo di Antonio» (Vita, 92, 2).
Bergamo, ex chiesa di S. Antonio in foris,
lunetta sopra l'architrave
Questi sono i
dati essenziali di una vita che si sviluppa in modo organico verso una
solitudine e un’immersione in Dio sempre più grandi, pur non potendo Antonio
evitare un certo numero di contatti spirituali con persone che venivano a
cercarlo. La Vita Antonii, scritta da Atanasio poco dopo la morte del grande
eremita, ebbe subito un grandissimo successo, com’è provato dalla testimonianza
di Agostino alla cui conversione contribuì fortemente (cf. Conf., VIII, 6,
14ss.), dal fatto che in breve fu tradotta in latino, copto, armeno, siriaco,
arabo, etiopico e georgiano, e da numerose tracce del suo vasto influsso. Dalla
Vita e da altre fonti risulta che Antonio scrisse – anzi quasi sicuramente
dettò, non essendo in grado di scrivere direttamente – sette lettere ai monaci
e alcune altre lettere di risposta all’imperatore, al vescovo, ad altri
personaggi. Antonio conosceva soltanto il copto e aveva bisogno dell’interprete
per rivolgersi a persone di lingua greca. La più antica versione greca è andata
perduta, ma ne abbiamo una successiva, insieme ad altre versioni in diverse
lingue, oltre a qualche frammento copto. «L’autenticità di queste lettere viene
oggi unanimemente affermata» (VA, Cremaschi, p. 86, v. l’ampia bibliografia
nella nota 8). In esse Antonio ribadisce la vocazione a “uscire” da tutto come
Abramo e ad affaticarsi cercando il timore di Dio nella pazienza e nella quiete
(I, 1, 239). Lo Spirito di conversione viene in aiuto e insegna a lottare
contro l’avversario (I, 2, 240). Queste lettere sono un modello di teologia
“pneumatica”; lo Spirito vi appare continuamente nella sua dinamica: «Lo
Spirito gli attesta i suoi peccati affinché non vi ricada» (I, 4, 245). Davanti
all’intercessione di tutti i santi, che pregavano per la guarigione della profonda
ferita dell’uomo, il Padre celeste (…) disse: «Figlio dell’uomo, prepara quello
che occorre per la prigionia (Ez 12, 3) e parti di tua volontà per l’esilio»
(III, 2, 253). Nella biografia, Atanasio pone in bocca ad Antonio un lungo
discorso, per così dire programmatico, della vita ascetica: penitenza,
preghiera, lotta accanita contro i demoni compiuta soprattutto col segno della
croce e col nome di Cristo; vivere giorno per giorno, non volgersi indietro
alla vita passata, tener fisso lo sguardo all’eternità futura; un discorso
molto più breve contro l’arianesimo; alcune dispute con filosofi pagani.
Antonio appare come il tipo del cristiano formato dalla Scrittura e dall’esperienza,
opposto al tipo del dotto educato nella cultura ellenistica. Com’è noto, nella
Vita scritta da Atanasio occupa un posto eminente l’aspetto della lotta contro
i demoni, che appaiono in tutte le fogge e sono inventori di ogni sorta di
astuzie. Il quadro offerto dagli apoftegmi, che, pur non essendo moltissimi
sono tuttavia estremamente ben scelti e bene accostati, è più ricco e ampio di
quello che risulta dalla Vita, è più vario e completo del ritratto di altri
anziani, che emerge da gruppi, numericamente anche più cospicui, di apoftegmi a
loro attribuiti. Il compilatore della raccolta ha voluto evidentemente aprirla
con un ritratto che si distinguesse per una particolare esemplarità e pienezza.
Per fare ciò non ha avuto bisogno di aggiungere altri detti di Antonio che si
trovano in altre raccolte, tanto è vasta e molteplice la gamma di questi. L’intenzione
programmatica del compilatore è manifesta fin dal primo brano, che è
chiaramente introduttivo, non solo della figura di Antonio, ma di tutto il
mondo degli apoftegmi. Ci dipinge infatti con semplicità e forza la giornata di
un monaco del deserto: giornata di solitudine, preghiera, lavoro, tentazioni.
Non è possibile né elencare né riassumere le innumeri testimonianze rese ad
Antonio dalla tradizione. Basti accennare a due fra le tante: l’autore di
storia ecclesiastica Socrate dice che egli aveva gli occhi degli angeli,
attraverso cui si vede Dio e si coglie la sua luce (HE, IV, 25); nel Commento
al Vangelo di Matteo, Giovanni Crisostomo inserisce una grande lode di Antonio:
«Si consideri il grande e beato Antonio, cui va ancora oggi l’ammirazione di
tutto il mondo e che, nato in Egitto, è divenuto quasi uguale agli apostoli.
Ricordiamoci che quest’uomo santo è nato nella terra dei faraoni, senza che da
questi gli derivasse alcun danno. Anzi, egli è stato ben degno della visione divina
e la sua vita non è stata altro che l’esatta manifestazione di quanto Gesù
Cristo aveva comandato. Coloro che leggeranno attentamente il libro che riporta
la storia della sua vita, riconosceranno ciò che ora io dico e si renderanno
conto, da molte circostanze, che egli ha avuto anche il dono della profezia…
leggete il libro della sua vita… questa lettura istillerà in voi grande virtù»
(VIII, 5).
Da: L. MORTARI (edd), Vita e detti dei padri del deserto, Città Nuova, Roma, 1997, 77-81.
Le reliquie
Nel 561 le sue
reliquie vennero traslate ad Alessandria d’Egitto, presso la chiesa di San
Giovanni. Verso il 635, in seguito all’occupazione araba dell’Egitto, furono
spostate a Costantinopoli. Nel XI secolo il nobile francese Jocelin de Chateau
Neuf le ottenne in dono dall’Imperatore di Costantinopoli e le portò in Francia
nel Delfinato. Nel 1070 il nobile Guigues de Didier fece costruire nel
villaggio di La Motte presso Vienne una chiesa dove vennero traslate.
Per la tua edificazione puoi leggere:
Vita di Antonio di sant’Atanasio di Alessandria
Per conoscere le tradizioni legate a Sant’Antonio a Bergamo:
M.
Mencaroni Zoppetti, Sant’Antonio di Vienne. Devozione e storia nell’antica
contrada di Prato in Bergamo, Sestante, 2008
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