martedì 1 gennaio 2013

Il nuovo anno


Abbazia di Sant'Egidio, Cristo Spasitiel


OMELIA SUL NUOVO ANNO

di san Barsanufio di Optina

Tradotto per © Tradizione Cristiana da E. M. dicembre 2011

Saluto tutti voi qui riuniti per il nuovo anno. Mi congratulo per le gioie che spero il Signore vi potrà inviare nel prossimo anno. Mi congratulo anche per i dolori che inevitabilmente vi visiteranno quest’anno: forse oggi, forse domani o nel prossimo futuro. Per inciso, non dovete restare confusi per i dolori o avere paura di essi. Dolori e gioie sono strettamente legati tra loro. Questo può sembrare strano, ma ricorda le parole del Salvatore: La donna, quando partorisce, prova dolore, perché è venuta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’angoscia per la gioia che sia venuto al mondo un uomo (Giovanni 16,21). Il giorno diventa notte e la notte si trasforma in giorno, il maltempo si trasforma in buono, così anche il dolore si trasforma in gioia e la gioia in dolore.

L’apostolo Paolo ha pronunciato parole minacciose contro coloro che non sopportano nessuna punizione che venga da Dio: se siete lasciati senza punizione, siete figli illegittimi (Ebrei 12,8). Non siate depressi, lasciate che siano depressi coloro che non credono in Dio. Per loro, naturalmente, il dolore è oneroso, perché conoscono solo piaceri terreni. Ma le persone che credono in Dio non devono abbattersi, perché attraverso i dolori ricevono i diritti dei figli, senza cui non si può entrare nel Regno dei Cieli.

“Disprezzando i decreti degli empi, i bambini cresciuti nella pietà non temevano la minaccia del fuoco, ma in piedi in mezzo alle fiamme, cantavano: O Dio dei nostri padri, Tu sei benedetto” (Irmos della Natività di Cristo, tono 1°, ode VII).

I dolori sono quella stessa minaccia del fuoco, o tribolazione, ma non dobbiamo temerli; piuttosto dobbiamo essere come i bambini devoti e cantare a Dio nelle nostre sofferenze, fiduciosi che vengono inviate da Dio per la nostra salvezza.

Possa il Signore salvarvi tutti, e condurvi al Regno della Luce senza tramonto! Amìn.            

1 Gennaio 1913 (dopo la Liturgia)

San Barsanufio di Optina, eredità spirituale (Mosca: STSL, 2004)



 

 

Padre Alexander Schmemann, «L’anno nuovo»

 

Il Nuovo Anno è costume antico: nel momento in cui sentiamo i dodici rintocchi di mezzanotte, noi esprimiamo desideri, ci rivolgiamo all’avvenire ignoto con i nostri sogni, sperando di ottenere ciò di cui abbiamo bisogno, quel che ci sta maggiormente a cuore. Ecco un altro Anno Nuovo. Cosa possiamo desiderare per noi, per gli altri, per ciascuno, per tutti? Verso quale obiettivo indirizziamo la nostra speranza? Essa è riposta su un’unica parola, che non sparisce mai, la felicità. I nostri desideri per l’anno nuovo si accompagnano al nostro augurio di nuova felicità! Per ciascuno di noi questa felicità ha un contenuto personale. Ma il fatto di credere che essa possa realizzarsi, che la si possa attendere, sperarla, è credenza è comune a tutti. Ma quando l’uomo è veramente felice?

Oggi, dopo tanti secoli di esperienza, dopo tutto quello che abbiamo imparato sull’uomo, non possiamo più assimilare la felicità a un solo obiettivo esteriore: la ricchezza, la salute, il successo, che – tutti sappiamo – non coincidono con la nozione, sempre misteriosa e insondabile, di felicità.

Certo, le soddisfazioni portano evidentemente una forma di felicità, destinata però a rimanere imperfetta. La ricchezza porta felicità, ma è anche un tormento; il successo porta felicità, ma anche timore. È sorprendente infatti constatare che quanto più questa felicità esteriore sia grande, tanto più essa sia fragile, tanto più cresca la paura di perderla, di non mantenerla, di lasciarsela scappare. Forse, durante il veglione di Capodanno si parla tanto di «nuova felicità» perché la «vecchia felicità» non è mai stata raggiunta veramente e che le manchi sempre un ché. Allora, di nuovo, noi volgiamo il nostro sguardo al futuro, con senso di supplica e con una speranza ammantata di sogni…

Eppure, non è da poco tempo che sono state dette parole, nel Vangelo, a proposito di un uomo che si era arricchito e aveva costruito nuovi granai per i suoi raccolti: costui aveva concluso che nulla gli mancava, che aveva raggiunto la garanzia della felicità. E da lassù venne chiamato. Nella notte gli fu detto: «Insensato! Questa notte stessa ti sarà chiesta la tua anima, e a chi andrà tutto ciò che hai accumulato?».

Noi ben sappiamo, dall’intimo della nostra coscienza, che qualsiasi cosa noi facciamo, non possiamo impedire che l’avvenire si affacci sulla disgregazione, sulla morte, questo veleno che contamina la nostra piccola e limitata felicità. È quasi certamente per questo motivo che si è affermato il costume, durante il veglione di Capodanno, nel momento in cui cominciano a rintoccare i dodici battiti di mezzanotte, di fare rumore, di urlare, di riempire il mondo di fracasso. È per paura di ascoltare, nel silenzio e nella solitudine, il carillon dell’orologio, questa voce inesorabile del destino. Via un battito, un secondo, un terzo e così di seguito, fino alla fine, con una regolarità implacabile, terribile, dacché noi non possiamo cambiare e fermare nulla.

Ecco i due poli indissolubili, impressi nel più profondo della coscienza umana: la paura e la felicità, il timore e il sogno. La nuova felicità di cui sogniamo, al risveglio del primo dell’anno, è una felicità che dovrebbe alleviare, dissolvere e vincere completamente la paura, una felicità nella quale non si nasconderebbe questo timore, che è latente in qualche anfratto della nostra coscienza e al quale noi cerchiamo di sfuggire tramite l’alcool, i giochi, il rumore.

«Insensato!». Sì, l’eterno sogno di felicità in un mondo votato alla paura e alla morte è fondamentalmente insensato. L’uomo che raggiunge un certo livello culturale ne è ben consapevole. Con che dolorosa puntualità e tristezza riecheggiano le parole di Puskin, questo grande innamorato della vita: «Non c’è felicità sulla terra». Quale immensa malinconia pervade ogni autentica opera d’arte. Ma là, nella piazza, la folla fa baccano, si spolmona e pensa che con il fracasso e il divertimento disordinato arrivi la felicità.

No, essa viene soltanto quando l’uomo scruta nella profondità dell’esistenza, con risolutezza e coraggio, allorché le strappa il suo velo di menzogna, d’illusione, allorché fissa dritto negli occhi la paura. L’autentica felicità, immutabile, arriva solo quando l’uomo prende coscienza che essa risiede nell’incontro con la Verità, con l’Amore, con quel che è infinitamente sublime e puro, e che lui ha chiamato e chiama Dio.

«In Lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini e la luce è rifulsa nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta». Questo significa: non nascondere la vita sotto la paura, lo spavento, non dissolverla nel dolore e nella disperazione.

Se gli uomini potessero trovare, nella loro sete febbricitante di una felicità effimera, la forza di fermarsi, di riflettere, di tuffarsi per un istante nel profondo della vita! Se potessero cogliere quali  parole, quale voce si rivolge eternamente a loro! Se potessero rendersi conto di cos’è la vera felicità.

«La vostra gioia, nessuno ve la toglierà!». Ora, quando l’orologio rintocca, non sogniamo forse una gioia che nulla ci potrà mai più portare via? In verità, noi raggiungiamo solo raramente una tale consapevolezza. Ci spaventiamo e rimandiamo tutto a dopo: “Mi occuperò dell’essenziale, dell’eternità, domani o dopodomani. Non oggi. C’è ancora tempo”. Ma il tempo è così poco! Ancora poco e la lancetta arriverà all’attimo finale.

Tuttavia, qui accanto a noi, Qualcuno attende: «Ecco che aspetto alla porta e busso». Se non avessimo paura di accorgerci di Lui, percepiremmo una tale luce, una tale gioia, una tale pienezza che alla fine comprenderemmo, di certo, cosa significa questa parola insondabile e misteriosa, felicità.
 

Protopresbitero Alexander Schmemann

 

Nessun commento:

Posta un commento