Abbazia di Sant'Egidio, Cristo Spasitiel
OMELIA SUL
NUOVO ANNO
di san Barsanufio di
Optina
Tradotto per
© Tradizione Cristiana da E. M. dicembre 2011
Saluto tutti
voi qui riuniti per il nuovo anno. Mi congratulo per le gioie che spero il
Signore vi potrà inviare nel prossimo anno. Mi congratulo anche per i dolori
che inevitabilmente vi visiteranno quest’anno: forse oggi, forse domani o nel
prossimo futuro. Per inciso, non dovete restare confusi per i dolori o avere
paura di essi. Dolori e gioie sono strettamente legati tra loro. Questo può sembrare
strano, ma ricorda le parole del Salvatore: La donna, quando partorisce,
prova dolore, perché è venuta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il
bambino, non si ricorda più dell’angoscia per la gioia che sia venuto al mondo
un uomo (Giovanni 16,21). Il giorno diventa notte e la notte si trasforma
in giorno, il maltempo si trasforma in buono, così anche il dolore si trasforma
in gioia e la gioia in dolore.
L’apostolo
Paolo ha pronunciato parole minacciose contro coloro che non sopportano nessuna
punizione che venga da Dio: se siete lasciati senza punizione, siete figli
illegittimi (Ebrei 12,8). Non siate depressi, lasciate che siano depressi
coloro che non credono in Dio. Per loro, naturalmente, il dolore è oneroso,
perché conoscono solo piaceri terreni. Ma le persone che credono in Dio non
devono abbattersi, perché attraverso i dolori ricevono i diritti dei figli,
senza cui non si può entrare nel Regno dei Cieli.
“Disprezzando
i decreti degli empi, i bambini cresciuti nella pietà non temevano la minaccia
del fuoco, ma in piedi in mezzo alle fiamme, cantavano: O Dio dei nostri padri,
Tu sei benedetto” (Irmos della Natività di
Cristo, tono 1°, ode VII).
I dolori sono
quella stessa minaccia del fuoco, o tribolazione, ma non dobbiamo temerli;
piuttosto dobbiamo essere come i bambini devoti e cantare a Dio nelle nostre
sofferenze, fiduciosi che vengono inviate da Dio per la nostra salvezza.
Possa il Signore salvarvi tutti, e condurvi al Regno della
Luce senza tramonto! Amìn.
1 Gennaio 1913 (dopo la
Liturgia)
San
Barsanufio di Optina, eredità spirituale (Mosca: STSL, 2004)
Dal sito: http://tradizione.oodegr.com
Padre Alexander Schmemann, «L’anno
nuovo»
Il Nuovo Anno
è costume antico: nel momento in cui sentiamo i dodici rintocchi di mezzanotte,
noi esprimiamo desideri, ci rivolgiamo all’avvenire ignoto con i nostri sogni,
sperando di ottenere ciò di cui abbiamo bisogno, quel che ci sta maggiormente a
cuore. Ecco un altro Anno Nuovo. Cosa possiamo desiderare per noi, per gli
altri, per ciascuno, per tutti? Verso quale obiettivo indirizziamo la nostra
speranza? Essa è riposta su un’unica parola, che non sparisce mai, la felicità.
I nostri desideri per l’anno nuovo si accompagnano al nostro augurio di nuova
felicità! Per ciascuno di noi questa felicità ha un contenuto personale. Ma il
fatto di credere che essa possa realizzarsi, che la si possa attendere,
sperarla, è credenza è comune a tutti. Ma quando l’uomo è veramente felice?
Oggi, dopo
tanti secoli di esperienza, dopo tutto quello che abbiamo imparato sull’uomo,
non possiamo più assimilare la felicità a un solo obiettivo esteriore: la
ricchezza, la salute, il successo, che – tutti sappiamo – non coincidono con la
nozione, sempre misteriosa e insondabile, di felicità.
Certo, le
soddisfazioni portano evidentemente una forma di felicità, destinata però a
rimanere imperfetta. La ricchezza porta felicità, ma è anche un tormento; il
successo porta felicità, ma anche timore. È sorprendente infatti constatare che
quanto più questa felicità esteriore sia grande, tanto più essa sia fragile,
tanto più cresca la paura di perderla, di non mantenerla, di lasciarsela
scappare. Forse, durante il veglione di Capodanno si parla tanto di «nuova
felicità» perché la «vecchia felicità» non è mai stata raggiunta veramente e
che le manchi sempre un ché. Allora, di nuovo, noi volgiamo il nostro sguardo
al futuro, con senso di supplica e con una speranza ammantata di sogni…
Eppure, non è
da poco tempo che sono state dette parole, nel Vangelo, a proposito di un uomo
che si era arricchito e aveva costruito nuovi granai per i suoi raccolti:
costui aveva concluso che nulla gli mancava, che aveva raggiunto la garanzia
della felicità. E da lassù venne chiamato. Nella notte gli fu detto:
«Insensato! Questa notte stessa ti sarà chiesta la tua anima, e a chi andrà
tutto ciò che hai accumulato?».
Noi ben
sappiamo, dall’intimo della nostra coscienza, che qualsiasi cosa noi facciamo,
non possiamo impedire che l’avvenire si affacci sulla disgregazione, sulla
morte, questo veleno che contamina la nostra piccola e limitata felicità. È
quasi certamente per questo motivo che si è affermato il costume, durante il
veglione di Capodanno, nel momento in cui cominciano a rintoccare i dodici
battiti di mezzanotte, di fare rumore, di urlare, di riempire il mondo di
fracasso. È per paura di ascoltare, nel silenzio e nella solitudine, il
carillon dell’orologio, questa voce inesorabile del destino. Via un battito, un
secondo, un terzo e così di seguito, fino alla fine, con una regolarità
implacabile, terribile, dacché noi non possiamo cambiare e fermare nulla.
Ecco i due
poli indissolubili, impressi nel più profondo della coscienza umana: la paura e
la felicità, il timore e il sogno. La nuova felicità di cui sogniamo, al
risveglio del primo dell’anno, è una felicità che dovrebbe alleviare,
dissolvere e vincere completamente la paura, una felicità nella quale non si
nasconderebbe questo timore, che è latente in qualche anfratto della nostra
coscienza e al quale noi cerchiamo di sfuggire tramite l’alcool, i giochi, il
rumore.
«Insensato!».
Sì, l’eterno sogno di felicità in un mondo votato alla paura e alla morte è
fondamentalmente insensato. L’uomo che raggiunge un certo livello culturale ne
è ben consapevole. Con che dolorosa puntualità e tristezza riecheggiano le
parole di Puskin, questo grande innamorato della vita: «Non c’è felicità sulla
terra». Quale immensa malinconia pervade ogni autentica opera d’arte. Ma là,
nella piazza, la folla fa baccano, si spolmona e pensa che con il fracasso e il
divertimento disordinato arrivi la felicità.
No, essa viene
soltanto quando l’uomo scruta nella profondità dell’esistenza, con risolutezza
e coraggio, allorché le strappa il suo velo di menzogna, d’illusione, allorché
fissa dritto negli occhi la paura. L’autentica felicità, immutabile, arriva
solo quando l’uomo prende coscienza che essa risiede nell’incontro con la
Verità, con l’Amore, con quel che è infinitamente sublime e puro, e che lui ha
chiamato e chiama Dio.
«In Lui era la
vita, e la vita era la luce degli uomini e la luce è rifulsa nelle tenebre, ma
le tenebre non l’hanno accolta». Questo significa: non nascondere la vita sotto
la paura, lo spavento, non dissolverla nel dolore e nella disperazione.
Se gli uomini
potessero trovare, nella loro sete febbricitante di una felicità effimera, la
forza di fermarsi, di riflettere, di tuffarsi per un istante nel profondo della
vita! Se potessero cogliere quali
parole, quale voce si rivolge eternamente a loro! Se potessero rendersi
conto di cos’è la vera felicità.
«La vostra
gioia, nessuno ve la toglierà!». Ora, quando l’orologio rintocca, non sogniamo
forse una gioia che nulla ci potrà mai più portare via? In verità, noi raggiungiamo
solo raramente una tale consapevolezza. Ci spaventiamo e rimandiamo tutto a
dopo: “Mi occuperò dell’essenziale, dell’eternità, domani o dopodomani. Non
oggi. C’è ancora tempo”. Ma il tempo è così poco! Ancora poco e la lancetta
arriverà all’attimo finale.
Tuttavia, qui
accanto a noi, Qualcuno attende: «Ecco che aspetto alla porta e busso». Se non
avessimo paura di accorgerci di Lui, percepiremmo una tale luce, una tale
gioia, una tale pienezza che alla fine comprenderemmo, di certo, cosa significa
questa parola insondabile e misteriosa, felicità.
Protopresbitero
Alexander Schmemann
Dal sito: http://www.esarcato.it
Nessun commento:
Posta un commento