Domenica del Fariseo e del Pubblicano
di Roberto Pagani
Proseguendo il
cammino di introduzione alla Grande Quaresima, la domenica successiva a quella
di Zaccheo prende il nome di Domenica del Fariseo e del Pubblicano. La parabola
raccontata da Luca (Lc 18, 9-14) ci pone davanti ad una seconda dimensione da
acquisire affinché il nostro cammino di conversione sia fruttuoso e ci conduca
a celebrare la Pasqua di Risurrezione nella nostra vita: la dimensione dell’umiltà.
Disse ancora questa parabola per alcuni che
presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al
tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in
piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri
uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno
due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano
invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma
si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico:
questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si
esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.
Abbiamo due
persone. Da un lato il fariseo, un membro di quella comunità religiosa
osservante contro cui Gesù si è frequentemente scontrato, nonostante fosse la
corrente più spirituale del Giudaismo. Dall’altro lato un pubblicano, dal
latino publicanus, esattore di denaro
pubblico: occupazione alquanto disprezzata nell’antichità, ancora di più in quella
sperduta provincia dell’impero romano nella quale le tasse andavano a finire
nelle casse dell’odiato invasore, opportunamente alleggerite della quota di
spettanza, più o meno lecitamente convenuta, allo stesso esattore. Gesù li
paragona ponendoli allo stesso livello: paragone alquanto sorprendente, perché
come esempio da seguire Gesù presenta un individuo considerato spregevole e
sceglie il modello da evitare tra i membri di uno dei movimenti religiosi più
vivaci del momento.
Con questa
domenica inizia ad essere utilizzato il Triodion Katanyktikon (della
contrizione, del pentimento), il libro liturgico proprio del periodo
quaresimale, le cui specifiche preghiere si vanno ad aggiungere a quelle dell’ufficio
domenicale che celebra settimanalmente la risurrezione di Cristo dai morti.
La Quaresima,
prima ancora delle sue pratiche esteriori, inizia con una preghiera per
ottenere l’umiltà, che è l’inizio del vero pentimento, che è prima di tutto un
ritorno all’ordine autentico delle cose, il ristabilimento della giusta
prospettiva. Esso è dunque radicato nell’umiltà. Che ne è frutto e compimento.
La cultura della nostra società infonde in noi costantemente il sentimento dell’orgoglio,
dell’auto-glorificazione e dell’auto-giustificazione, caratteristiche che appaiono
per lo più come virtù, soprattutto in ambito lavorativo, ma non solo. Ne siamo
così prigionieri che ascoltando la parabola lucana non siamo nemmeno sfiorati
dal dubbio che gran parte della nostra vita sia assorbita da queste dimensioni
così poco evangeliche. Tutto questo si fonda sul presupposto che l’uomo è
capace di realizzare ogni cosa da se stesso, perfino la propria salvezza. Siamo
disposti ad accettare l’umiltà solo come ammissione della nostra ignoranza o
incompetenza su un determinato argomento. Ma allora cos’è l’umiltà? Non
possiamo che rispondere partendo da Dio. Dio stesso è umile! La nostra
mentalità umana tende ad opporre gloria ed umiltà. Dio è umile perché è
perfetto, la sua umiltà è la sua gloria, sorgente di ogni vera bellezza, perfezione
e bontà. Chiunque si avvicina a Dio e lo conosce, partecipa immediatamente
della sua umiltà ed è rivestito della sua bellezza. Questo è avvenuto per
Maria, la Madre di Dio: la sua umiltà ha fatto di lei la gloria di tutta la
creazione e la più grande rivelazione della bellezza sulla terra. Questo vale
per ciascun santo, e quindi anche per ciascuno di noi nei rari momenti dei
nostri contatti con Dio. Si diventa umili contemplando Cristo, l’umiltà divina
incarnata, colui nel quale Dio ha rivelato una volta per tutte la sua gloria
come umiltà e la sua umiltà come gloria. L’umiltà si impara contemplando Cristo
che dice: “imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 29), si
impara valutando ogni cosa secondo Cristo, riferendo tutto a lui. Perché senza
Cristo la vera umiltà è impossibile: così per il fariseo persino la religione
diventa orgoglio delle realizzazioni umane. Questo continuo riferimento a Gesù
umile, come vedremo, è ampiamente sviluppato nell’ufficiatura, affinché il
fedele possa radicare il proprio essere sul fondamento che è Cristo, e non su
un falso moralismo.
Il senso della
parabola non è solo una lezione di morale: come Dostojevskij ha raccontato nel
suo “I fratelli Karamazov”, si tratta del grande conflitto che Dio e il diavolo
combattono nel e per il cuore dell’uomo, senso di tutta la storia dell’umanità. Si
tratta di due tipi di peccatori, opposti secondo l’intimità del loro cuore, di
due tipi di atteggiamenti e di comportamenti spirituali, sia nei riguardi di
Dio che degli altri uomini.
Innanzitutto
entrambi salgono al tempio, si separano cioè dal mondo, entrano in uno spazio e
in un tempo nel quale possono fermarsi, guardarsi dentro, e rivolgersi al loro
Signore.
Il fariseo si
presenta “in piedi”, che si potrebbe anche intendere “a testa alta”, pregando
come qualsiasi altro pio israelita, e tra le righe possiamo intravedere anche
una componente di orgoglio nel fatto che questo suo stare ritto lo poneva in
qualche modo in posizione di essere notato da altri. Pregava per essere visto,
lodato, celebrato, riconosciuto, quasi che la sua preghiera fosse più rivolta a
se stesso che a Dio, congratulandosi a se stesso per le sue pratiche
devozionali. Usava il ringraziamento a Dio per esaltare se stesso. Ringraziava
Dio per non essere come gli altri uomini, che con ogni probabilità disprezza e
condanna, per essere onesto, per non aver mai fatto male a nessuno, per essere
andato in chiesa a tutte le feste comandate, e così via.
Anche il
pubblicano sceglie la solitudine, si ferma in fondo, col capo chino, in un
atteggiamento di contrizione che è ben diverso dalla superbia arrogante del
fariseo. Anch’egli si rivolge a Dio: non per vantarsi, ma per implorare
misericordia: confessa la sua indegnità interiore. Sia stato un buon padre di
famiglia o un buon amico, non ci è dato sapere: sappiamo solo che si sentiva
davanti allo sguardo di Dio, e che Dio lo vedeva. Questi due tipi fondamentali
dello spirito umano, l’umile e il superbo, dimostrano il loro vero valore: lo
spogliamento, la povertà di spirito che introduce alle ricchezze del regno
opposto all’arroganza egoista, manifestata con il complesso della superiorità
morale. L’orgoglio autosufficiente è un luogo privilegiato per il principe di
questo mondo. Il testo greco ci suggerisce che il pubblicano non si sentiva un peccatore, ma il peccatore, il peccatore per eccellenza. Non ha null’altro in cui
confidare se non la misericordia di Dio. Non cerca aiuto da nessun altro, se
non da Dio. Sa benissimo che gli altri uomini, farisei di ogni genere in testa,
non lo degnano nemmeno di uno sguardo, ma crede fermamente nella misericordia
di Dio. Il cuore umiliato ha il sopravvento sul trionfo del diritto: la
contrizione sarà esaltata, mentre la soddisfazione canonica sarà condannata.
L’ufficiatura,
per la verità, non è molto lunga, ma l’essenzialità nella liturgia è segno di
una intensità spirituale impressionante: i temi della parabola evangelica
diventano una opportunità che ci viene offerta per un arricchimento spirituale
in grado di farci amare il cammino della nostra conversione. È caratteristico
per la maggior parte degli inni propri della Quaresima il rimandare a me, a noi
che abbiamo peccato, al soggetto liturgico.
Così al
Lucernario l’invocazione alla misericordia di Dio viene da subito accostata al
digiuno, anche se questa inizierà qualche settimana dopo: “Fratelli, non
preghiamo come il fariseo, perché chi si esalta sarà umiliato, (ma) umiliamoci
dinanzi a Dio come il pubblicano, invocando con il digiuno: "O Dio, abbi
pietà di noi, peccatori". "Il fariseo, dominato dalla vanagloria, e
il pubblicano, piegato dal pentimento, si accostarono a te, unico Sovrano: ma l’uno,
per essersi vantato, fu privato di ciò che aveva di bene; mentre all’altro, che
neppure aveva aperto bocca, furono elargiti i doni (carismi)".”. Il
peccato di superbia porta ad una umiliazione che colpisce la mancanza di carità
e di discernimento; la superiorità morale, oggi così sbandierata, è una colpa
spirituale ed intellettuale, diviene un peso opprimente. Invece l’umiliazione
come riconoscimento di povertà e quindi di insufficienza, alleggerisce l’anima
e la illumina. Una tale indigenza consente allo Spirito Santo di operare nell’uomo
senza costringerlo. È la arricchente “mendicità” spirituale delle beatitudini:
il povero di spirito non è il semplice, il limitato, lo stupido di turno,
quanto piuttosto lo spirito dell’uomo che va elemosinando lo Spirito, e che si
arricchisce al di là di ogni misura umana dell’energia pneumatica, i carismi
appunto richiamati dalla strofa appena cantata. “Rendi degni della tua
beatitudine coloro che per te si trovano mendicanti di spirito”, dice un
tropario della nona ode del canone.
La strofa
cantata dopo il Gloria, sempre al Lucernario, fa emergere un altro elemento in
relazione al pentimento e alla contrizione, anch’esso riccamente sviluppato nel
corso del cammino quaresimale: le lacrime. “Signore onnipotente, so quanto
possono le lacrime: hanno fatto risalire Ezechia dalle porte della morte, hanno
liberato la peccatrice dalle sue colpe inveterate; hanno reso il pubblicano più
giusto del fariseo”.
“Anima mia,
comprendi la differenza tra il fariseo e il pubblicano”, dice la strofa alla
processione rogazionale. “Infatti lo stato di peccato rende i miei occhi
accasciati sotto il peso delle mie iniquità. Non posso volgermi a guardare la
volta del cielo: ma tu accoglimi nel pentimento come il pubblicano”, dice la
strofa degli aposticha finali del Vespero.
Nel mattutino
domenicale, dopo la proclamazione dell’Evangelo risurrezionale, si canta il
consueto inno “Avendo contemplato la risurrezione di Cristo”, seguita dall’altrettanto
consueto salmo 50, espressione del pentimento di Davide dopo l’accusa di
peccato rivoltagli dal profeta Natan. Subito dopo cantiamo i tropari che ci
accompagneranno fino alla Domenica delle Palme e che sono stati oggetto di
bellissime e commoventi composizioni musicali che portano molto spesso alle
lacrime i fedeli che le ascoltano in ginocchio, o, là dove c’è più spazio,
prostrati completamente con la fronte a terra: “Aprimi le porte del pentimento,
Datore di vita, perché fin dall’alba si leva il mio spirito, si volge in
preghiera al tuo santo tempio, portando con sé il tempio contaminato del mio
corpo. Ma nella tua compassione purificami, per la tenera benevolenza della tua
misericordia”. Subito, consapevoli delle difficoltà del cammino, si chiede l’intercessione
della Vergine: “Guidami sulla via della salvezza, o Madre di Dio, perché ho
profanato la mia anima con peccati vergognosi e ho dissipato la mia vita nella
negligenza. Ma per la tua intercessione liberami da ogni impurità”. Consapevoli
del giudizio che ci attende, si fa ricorso all’unico rimedio possibile, l’amore
di Dio: “Quando penso, me miserabile, a tutto il male che ho commesso, tremo
per il terribile giorno del giudizio. Ma confidando nella tua tenera
benevolenza, come Davide ti grido: abbi pietà di me o Dio, secondo la tua
grande misericordia”.
È interessante
la relazione tra il “tuo tempio santo” e “il tempio contaminato del mio corpo”.
L’uomo è uno spirito incarnato; se il primo tropario parla dell’impurità del
corpo, il secondo, con l’intercessione alla Madre di Dio, parla dell’impurità
dell’anima: è l’uomo tutto intero a peccare, anzi, come dicono i Padri, il
corpo pecca solo perché lo spirito è debole e gli consente di peccare.
Nella prima
ode del canone, opera di Giorgio (figura che può indicare un vescovo di
Nicomedia del IX secolo o un monaco dell’XI), si ritorna al tema dell’umiltà e
della superbia, dando subito la tonalità tropologica: “Cristo induce con le sue
parabole a correggere la propria vita”. “Emula quanto ha di bello il
pubblicano, e detesta la malizia farisaica”. “A te affido, o Sovrana, mente,
volontà, speranze, corpo, anima e spirito”.
Nella terza
ode siamo messi di fronte, senza giri di parole, alla nostra reale situazione: “L’umile
è sollevato dal letame delle passioni, chiunque sia invece altero di cuore cade
invece paurosamente dalla vetta delle virtù”. “La vanagloria devasta tesori di
giustizia, mentre l’umiltà disperde il cumulo delle passioni”. Mitezza, umiltà,
pianto e preghiera vengono indicati come via verso il perdono in un
incoraggiamento fraterno: “Diamoci allo zelo, fedeli, agendo con mitezza,
vivendo insieme con umiltà, nel gemito del cuore, nel pianto e nella preghiera,
per ottenere il perdono da Dio”.
La quarta ode
ci mette di fonte a Cristo: “Il Verbo ha reso l’umiltà una perfetta via di
elevazione, umiliando se stesso sino ad assumere forma di servo. E chiunque
imita questa umiltà, umiliandosi viene innalzato”. “L’umiltà guadagna la
giustizia proprio con l’estrema indigenza di questa: anche noi possiamo
acquisirla!”. “Il Salvatore e Sovrano, come mezzo per elevarci, ci ha indicato
l’umiltà: egli infatti ha lavato con le proprie mani i piedi dei discepoli”.
La quinta ode
ci può forse mettere a disagio: non dobbiamo credere che nel pubblicano tutto
sia buono a priori e che nel fariseo tutto sia cattivo: “Sforziamoci di imitare
le virtù del fariseo, e di emulare l’umiltà del pubblicano, ma detestando in
entrambi ciò che è male: tanto la folle arroganza che la sozzura delle colpe”.
La parabola non parla di perdizione o di salvezza, quanto piuttosto della
posizione dell’uomo di fronte alla giustizia di Dio, che guarda più al cuore
umano che non alla osservanza di una legge che preveda delle sanzioni automatiche.
Per contro, esiste il rischio di una falsa umiltà, il piacere malsano dell’umiliazione
che, per quanto poco frequente nella nostra società, è comunque un fenomeno
molto noto agli asceti e, forse, anche a qualche psicologo. Per questo siamo
invitati a essere ragionevoli, anche nell’esercizio delle virtù, per non
pervertirle mediante l’esagerazione, e ci ricorda che, al di là di tutto,
osservare la legge è cosa buona: del resto il pubblicano si riconosce peccatore
per la propria colpa nei riguardi di una legge che ha comunque trasgredito. “La
corsa della giustizia si è dimostrata vana per il fariseo, che l’ha compiuta
unendovi la presunzione; il pubblicano, al contrario, si è preso l’umiltà come
compagna della virtù che innalza”.
La sesta ode
segnala il capovolgimento dei valori: né il peccato, né la sua remissione sono
in funzione di fattori esterni, tanto meno dipendono dall’opinione pubblica: “Il
fariseo viveva tra le virtù e il pubblicano tra le colpe. Ma il primo si
sobbarcò quella folle umiliazione che viene dall’orgoglio, mentre l’altro fu
esaltato mostrandosi di umile sentire”. Per non essere indotti in errore, siamo
rimessi di fronte al Cristo umile: “Cerchiamo con zelo le vie del Salvatore
Gesù e la sua umiltà, noi che desideriamo trovare la dimora infinita della
gioia venendo ad abitare la terra dei viventi”.
A differenza
dell’usuale, ci vengono offerti due kontàkia: se nel primo c’è la semplice
riproposizione del tema dominante: “Fuggiamo il superbo parlare del fariseo, e
impariamo l’elevatezza delle parole umili del pubblicano”, nel secondo ci viene
mostrato il carattere sacramentale del pentimento: “Come il pubblicano,
offriamo gemiti al Signore, e gettiamoci ai suoi piedi come peccatori davanti
al Sovrano: egli vuole la salvezza di tutti gli uomini e concede la remissione
a tutti quelli che si pentono, perché per noi si è incarnato, lui che è Dio,
coeterno al Padre”. Il fondamento cristologico è garanzia contro ogni
sentimentalismo emotivo.
La chiave di
lettura della settima ode può essere considerata la scala di Giacobbe, figura
sia della scala ascetica di Giovanni Climaco (gr: della scala) sulla quale i
monaci salgono verso il regno mentre i diavoli cercano di farli piombare a
terra, così come di Maria, scala “dalla quale è disceso il Dio incarnato per
portare in alto a loro volta i mortali”. “Il pubblicano, sollevato agilmente
dall’ala dell’umiltà, giunse vicino a Dio”. “Servendosi di umili modi come di
una scala, il pubblicano fu sollevato alle altezze del cielo”. “L’ingannatore,
quando insidia i giusti, li depreda con sentimenti di vanagloria, mentre lega i
peccatori con i lacci della disperazione”.
L’ottava ode,
quasi a rincuorarci, ci invita a riporre la nostra speranza in Dio e nella sua
misericordi: “Dio ascoltò il gemito del pubblicano e, giustificandolo, mostrò a
tutti che egli si lascia sempre piegare se gli chiediamo il perdono delle colpe
con gemiti e lacrime”.
Nella nona
ode, l’invito alla nostra conversione si fa, se possibile, più esplicito,
ponendo il testo in prima persona, in modo da coinvolgere direttamente colui
che prega: “Oppresso da un nugolo di colpe, ho superato il pubblicano per
eccesso di malizia, e ho assunto per giunta la boria millantatrice del fariseo,
rendendomi da ogni parte privo di qualsiasi bene. Signore, usami indulgenza”.
Nelle strofe
delle Lodi, gli stessi innografi conducono il fedele a una sintesi personale: “Poiché
hai appreso, anima, la differenza tra il pubblicano e il fariseo, detesta dell’uno
le parole superbe, dell’altro emula la preghiera compunta”.
Non possiamo
lasciare che questo invito alla sintesi personale rimanga inascoltato.
Sotto un certo
punto di vista, questa è una parabola pericolosa: è facile condannare il
fariseo per il suo atteggiamento, ponendoci così al suo stesso livello, come se
avessimo il diritto di considerarci più giusti, come se, considerato le opere
compiute, avessimo fatto quanto dovevamo fare. È tuttavia ancor più pericoloso
porci sullo stesso piano del pubblicano: siamo capaci della stessa umiltà e
dello stesso pentimento?
È un processo
senza fine, perché l’uomo non può mai raggiungere la perfetta umiltà di Cristo,
che spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, che si è abbassato
fino alla tomba caricando su di sé tutti i peccati del mondo. Non per niente i
santi sono sempre maggiormente consapevoli della loro indegnità e del loro
peccato: essi sono convinti di essere i più grandi peccatori!
Noi dipendiamo
sempre dalla misericordia di Dio. Non potremmo avvicinarlo nemmeno senza
chiedere la sua misericordia. Chiunque la chiede non sarà mai respinto, è una
preghiera di sicuro effetto. Per questo il Kyrie elèison è così insistentemente
ripetuto nella Divina Liturgia e in qualsiasi ufficio della tradizione
bizantina.
La famosissima
preghiera di Gesù (Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore) altro non
è se non un adattamento di questa preghiera: detta con un briciolo di fede, ci
aprirà la via verso il perdono di Dio e per la venuta del suo regno nel nostro
cuore. Se stessimo di fronte al trono di Dio chiedendo che ci sia dato quanto
meritiamo, saremmo perduti irrimediabilmente. Solo la misericordia di Dio ci
può salvare.
Una volta un
peccatore disse al proprio padre spirituale: “Se fossi Dio, non perdonerei mai
un uomo che ha peccato come ho peccato io”. L’altro rispose: “Per fortuna non
sei Dio: la sua misericordia è più grande di qualsiasi cosa possiamo
immaginare”.
Isacco il Siro
scrisse nel sesto secolo: “Non dire mai che Dio è giusto. Se lo fosse, saresti
all’inferno. Confida solo nella sua ingiustizia, che è misericordia, amore,
perdono”.
Signore, abbi
pietà di me, il peccatore. Amen.
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